17 aprile 2024
Aristotele Fisica
Brano tratto da La logica nel Medioevo, AA.VV, Jaca Book, pag. XV. Una delle correnti della tradizione medioevale considerava Parmenide l’inventore della logica, cioè di un’argomentazione stricte rationale. Si tratta di una leggenda, ma è certo che nell’antichità greca ci furono tanti illustri logici (ad es. Aristotele, Teofrasto, Crisippo, Galeno, Alessandro di Afrodisia), anzi, ci furono addirittura scuole di logica (ad es. la scuola megarico-stoica); filosofi e scuole che ebbero un grande influsso nel Medioevo. Il mondo filosofico-culturale del Medioevo è dovuto particolarmente ad alcuni logici e grammatici latini che hanno trasmesso la dottrina greca nella cultura intellettuale latina. Primo tra loro, Cicerone (106-43 a.C.) ha tradotto i termini tecnici della logica greca in latino e, benché la sua proposta non sempre sia stata definitivamente accolta dagli autori posteriori, il suo tentativo ha segnato il primo passo verso la ricezione della dottrina logica greca. Nel II secolo Lucio Apuleio, nel suo De philosophia rationali, presenta brevemente la dottrina logica greca, includendo un abbozzo della logica stoica. Le prime traduzioni latine dei trattati dell’Organon di Aristotele vengono fatte nel IV secolo. Mario Vittorino traduce le Categorie e il Perì hermeneias. Porfirio, nella sua Isagoge, introduce alla lettura delle Categorie di Aristotele; nel suo trattato De dialectica dimostra invece l’influsso della logica stoica. Verso la fine del IV secolo nel Decem categoriae, attribuito ad uno Pseudo Agostino, troviamo una parafrasi latina delle Categorie. Alla fine del V secolo il De nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella, nel libro IV, contiene già un De arte dialecticae. Tuttavia, il primo personaggio davvero importante nella storia della logica medioevale è Boezio (480- 524/525). Seguendo l’esempio dei suoi predecessori sopracitati (in particolare quello di Vittorino), traduce tutti i trattati (tranne gli Analitici secondi) dell’Organon di Aristotele e l’Isagoge di Porfirio, scrivendo inoltre numerosi commenti su di essi. Le sue traduzioni, insieme con i commenti, circolano fino alla prima metà del XII secolo come unica fonte divulgatissima di conoscenza della logica antica e vengono perfino denominate logica vetus. Dice, dunque, che Boezio ha tradotto tutti i trattati, tranne gli Analitici secondi. Come abbiamo visto, negli Analitici primi Aristotele compila un programma, mentre negli Analitici secondi trova i problemi. Sono problemi che non hanno una soluzione in Aristotele, ma pongono delle questioni tali da rendere molto problematici gli Analitici primi, perché, certo, Aristotele compila un programma, ma questo programma non offre alcuna certezza. Ora, la questione che a noi interessa è propriamente questa: della logica si possono fare molte letture, ma ciò che in questi giorni mi veniva in mente è una questione che per il momento potremmo formulare come una domanda. La domanda è questa: la logica – così come si pone ai giorni nostri, quindi, la logica formale, la logica matematica, praticamente quella di cui parla Mendelson – è teologia? C’è questa eventualità. È chiaro che si tratta di lavorarci e vedere che cosa succede. Ma perché mi è venuta in mente questa cosa? La logica, già con Aristotele, cerca di stabilire un criterio per potere fermare le cose così come sono, vederle così come sono. Aristotele mostra che questo non è possibile, cioè, ci dice che non c’è una verità epistemica; però, il tentativo è quello di stabilire, attraverso l’universale, la premessa maggiore, qualcosa che necessariamente è. Cosa fa la teologia? Mi riferisco alla teologia platonica, non a quella aristotelica, perché la teologia aristotelica pone, sì, Dio, ma lo pone come il pensiero che pensa se stesso o, come dirà poi Hegel, lo Spirito assoluto o, come direbbe Gentile, il pensiero come atto puro, il pensiero pensante, il pensiero che pensa se stesso. La logica punta o vorrebbe puntare a questo, e cioè a stabilire, attraverso l’universale, il dio, la verità? Nella teologia platonica, a differenza di quella aristotelica, dio c’è, anche se non viene chiamato così, è il demiurgo, di cui parla Platone nel Timeo e sarebbe quella figura inventata che fa da tramite tra le idee e gli umani. Nella teologia platonica c’è questa triade, ripresa poi da Plotino: l’Uno, l’Intelletto (il demiurgo) e l’Anima, da cui procedono poi tutte le cose. La teologia, tra l’altro, nei testi antichi, per es. in Proclo (Teologia platonica), era intesa come metafisica; così anche in Marsilio Ficino, che aveva scritto un testo con lo stesso titolo, Teologia platonica, non si tratta che di metafisica, cioè, l’idea che qualche cosa possa conoscersi per quello che è, fuori dal linguaggio, al di fuori delle categorie, direbbe Aristotele. A questo punto, quindi, un accostamento tra la teologia e la logica appare singolare, certo; però se potessimo illustrare, mostrare che effettivamente la logica è teologia, allora si spalancherebbero delle questioni enormi, tenendo conto che la logica è il modo con cui ciascuno pensa. Potremmo dire, a questo punto, che ciascuno, senza volere, senza sapere, pensa teologicamente. Si tratterà, poi, di rilevare tutte le implicazioni di una cosa del genere, dal momento che pensare teologicamente non va senza effetti collaterali. La logica, pensata in un certo modo, non aristotelicamente ma platonicamente e poi neoplatonicamente, invece, sembra porsi proprio così, come una teologia. La triade – dapprima con Platone, le idee, il demiurgo e le cose sensibili; poi, con Plotino, l’Uno, l’Intelletto e l’Anima – è già presente naturalmente anche in Aristotele, perché il sillogismo è fatto di tre elementi (premessa maggiore, premessa minore, conclusione). Questa sorta di trinità continua sempre a ripetersi. È ciò con cui funziona il pensiero, Aristotele ce lo ha spiegato molto bene, perché si pensa così, si ragiona così, non c’è un altro modo. Potremmo dire che necessariamente si pensa trinitariamente: l’universale, cioè dio, la premessa minore, cioè l’intelletto, che comincia a connettere l’universale con qualche altra cosa, e, infine, la conclusione, che sarebbe ciò che sorge, ciò che procede – ecco la processione di Plotino – dall’universale, da dio. È una questione che affronteremo con il neoplatonismo, perché lì si porrà sicuramente questo aspetto. Sarà interessante per le vaste, immense implicazioni che avrà una cosa del genere. Come dicevo prima, tenuto conto che ciascuno pensa teologicamente, viene da pensare che il pensiero stesso è teologico, è teologia. Muove da un universale; questo universale è vero per virtù propria; questo universale è dio. Poi, lo è diventato per Plotino e ancor più con la teologia trinitaria di Agostino. Ma Aristotele ci ha detto di che cosa è fatto l’universale: è fatto di particolari; per induzione se ne assembla un certo numero e si fa l’universale. Ma questa posizione di Aristotele non è assolutamente congeniale al neoplatonismo, per nulla, perché pone l’universale come un prodotto delle categorie. Ecco perché Porfirio ha voluto introdurre lui alle Categorie di Aristotele. Introdurre alle Categorie di Aristotele significa compiere quel passo fondamentale, che comporta l’attribuzione della sostanza all’idea, cioè, la sostanza diventa un’idea, quindi, ineffabile, irraggiungibile e, soprattutto, non differente da sé, cosa questa importantissima. Invece, la sostanza di Aristotele, essendo fatta delle categorie, è già differente da sé perché, se è fatta delle categorie, le categorie non sono la sostanza, come non sono la stessa cosa il dire e ciò che il dire dice, sono due cose distinte, inseparabili ma distinte. Questo è un lavoro che potrebbe portare a delle considerazioni notevoli: mostrare che tutto il pensiero è teologia, necessariamente; muove dalla necessità che ci sia dio, che ci sia, cioè, un universale. Ma questo universale, come sappiamo, non è garantito da nulla e da nessuno, se non, come diceva Guglielmo di Ockham, solo dio può garantire che Cesare sia effettivamente Cesare; solo dio garantisce che qualche cosa sia determinabile; di certo, non Aristotele, il quale ci ha, di fatto, mostrato l’impossibilità di determinare alcunché, dicendoci – non lo dice esplicitamente ma è la conclusione inevitabile del suo discorso – che non esiste nessuna verità epistemica. La verità epistemica non è mai esistita, l’abbiamo inventata noi, esattamente così come abbiamo inventato dio, allo stesso modo e per lo stesso motivo: per essere garantiti del fatto di poter determinare le cose, cioè, di poterle utilizzare, quindi, di poterle dominare. La logica fa questo, vuole dominare le cose. Il che è esattamente ciò che Aristotele descrive negli Analitici primi – nei secondi si accorge che non c’è verso di riuscirci, ma nei primi Analitici, compilando il programma, ha questa illusione che sia possibile legare l’indeterminato con qualcosa di determinato. Il fatto è che si accorge che, sì, lo lego, ma questo determinato come lo pongo? Il determinato sarebbe l’inerire di qualche cosa necessariamente a qualche cos’altro. Solo che si trova costretto a usare una parola greca, ύπάρχειν, che significa comandare, cioè: io comando che sia così. Quindi, è un comando, come è un comando la riga di un computer, è uguale: impongo di comportarsi in un certo modo e lui, il computer, esegue. Anche due re si comportano allo stesso modo nel gioco del poker: se io ho due re e l’altro ha due jack… Quindi, capite subito che cosa si spalanca di fronte a una cosa del genere, chiamiamola per il momento ipotesi, e cioè che la logica non sia altro che una teologia e, quindi, il pensiero, dato che la logica non è altro che il pensare. Cessa di essere una teologia, o non può istituirsi come teologia, nel momento in cui, attenendoci ad Aristotele, questo dio di cui parliamo è un pensiero che pensa se stesso, o lo Spirito assoluto di Hegel o il pensiero come atto puro di Gentile. A questo punto, ecco che cessa di essere teologia, anche se viene utilizzato come teologia, come se fosse teologia, ma non lo è. E non lo è perché sappiamo di che cosa è fatto un universale. In fondo, anche nelle conversazioni più banali si usa la logica, più o meno correttamente, non importa: l’universale, la premessa maggiore, è posto come dio, come qualcosa che è quello che è, per virtù propria. Ciò che è quello che è, per virtù propria, è appunto dio: io sono la via, la verità, la vita, diceva Cristo. Il fatto è che, finché lo dice lui, va bene, ma poi altri ci hanno creduto. Se oggi qualcuno si proclamasse dio, è chiaro che verrebbe rinchiuso; invece, allora, in mezzo ai pecorai nel Sinai, si è pensato di avere trovato finalmente dio. Era Celso – non era propriamente un filosofo, era più un pratico, associato anch’egli al neoplatonismo, essendo vissuto intorno al I secolo d.C – che nel suo Contro i cristiani e Il discorso vero, diceva che Maria era una cucitrice a pagamento che, avendo tradito il suo sposo, era stata cacciata da casa ed era finita in mezzo al deserto, dove aveva partorito il frutto del peccato, e da lì è iniziata poi una serie di racconti, ecc. Questo tizio, Cristo, cresce e impara delle cose in Egitto e, quindi, torna tra i pecorai del Sinai, mostra le sue abilità e diventa quello che sappiamo. Questo è grosso modo, l’ho fatta molto breve, ciò che racconta Celso intorno a Gesù Cristo. Il lavoro che stiamo facendo qui con Aristotele è importante perché si collega strettamente alla questione della logica, di cui dicevo prima, perché lui continua a dirci che ci sono, sì, questi due elementi, ma questi due elementi si coappartengono, non è possibile reperire l’uno, cioè, dio, perché, come diceva Eraclito, ἒν πάντα εἰναι, l’uno è i molti, non il tutto, come è piaciuto tradurre a Diels. Siamo al Libro quinto. Tutto ciò-che-cangia cangia o per accidente, come quando diciamo che il musico passeggia, in quanto chi passeggia è accidentalmente musico, oppure si dice che una cosa cangia, semplicemente per il fatto che si cangia solo qualche parte di essa, come ci esprimiamo a proposito di tutte le cose che cangiano relativamente alle parti (ad esempio: l’intero corpo guarisce, perché guariscono l’occhio o il petto, che sono parti dell’intero corpo); vi è, però, qualcosa che si muove non per accidente, né perché si muova qualche sua parte, ma perché essa si muove originariamente. E ciò è quello che di per sé è mobile ed è diverso soltanto secondo la diversità del movimento, come l’alterabile e come, nell’ambito dell’alterazione, sono diversi il guaribile o il riscaldabile. /…/ Poiché, quindi, ci sono qualcosa che muove dapprima e qualcosa che è mossa, e c’è anche ciò in cui avviene il movimento, ossia il tempo, e, inoltre, ciò da cui e verso cui il moto avviene – ogni movimento, infatti, procede da qualcosa verso qualcos’altro, essendo diversi tra loro il primo mosso, il termine di arrivo e il punto di partenza, ad esempio il legno, il caldo e il freddo: di questi tre, invero, il primo è il mosso, il secondo è il punto verso cui tende il movimento, il terzo è il punto da dove il movimento inizia –, è chiaro che il movimento avviene, non nella forma,: la forma, infatti, né muove né è mossa, e tanto meno muovono o sono mossi il luogo o la quantità, bensì, sotto questo profilo, dobbiamo tenere presenti un motore, un mosso e ciò verso cui il moto avviene. 224b, 28. Si lasci, intanto, in disparte il cangiamento accidentale, perché esso è riscontrabile in ogni cosa e sempre ed è proprietà di tutte le cose. Il cangiamento non accidentale, invece, non è in ogni cosa, ma nei contrari e negli intermedi e nelle contraddizioni, e di ciò fa fede l’induzione. Qui Aristotele afferma una cosa importante: il movimento è movimento fra contrari. Però, dice, ci arriviamo per via di induzione. Che significa questo? Significa che è una costruzione, e cioè non è così per virtù propria, ma l’abbiamo tratta da una serie di particolari, di astratti. Il cangiamento parte dall’intermedio, perché questo viene usato come ciò che è contrario rispetto all’uno e all’altro estremo: infatti, in un certo senso, l’intermedio corrisponde agli estremi. Perciò non solo questo rispetto ad essi, ma anche essi rispetto a questo si dicono, in un certo modo, contrari. 225a. poiché ogni cangiamento avviene da qualcosa verso qualcosa – e lo dimostra anche il nome metabolé… Meta si traduce con oltre, bolé è anche il dire, il parlare. …che, ponendo un qualcosa dopo un altro qualcosa, indica un prima e un poi –, esso potrebbe attuarsi in quattro modi: o da sostrato a sostrato, o da sostrato a non-sostrato, o non da sostrato a sostrato, o non da sostrato a non-sostrato (chiamo sostrato ciò che è indicato per affermazione). In questa riga Aristotele sintetizza tutto il suo lavoro sulle categorie: con sostrato, con oggetto, la sostanza, intendo ciò che è espresso da un’affermazione. Ma questa affermazione esprime la cosa? Come fa? Sì, dice, racconta la cosa, ma oggi potremmo dirla così: le categorie raccontano della sostanza, costruiscono racconti intorno a una sostanza, e la sostanza esiste in questi racconti, non esiste altrove. 225a, 13. Il cangiamento che per contraddizione si attua da un non-sostrato in un sostrato è la generazione: assoluta, quella che si attua in senso assoluto; particolare, quella di un particolare (ad esempio: la generazione del bianco da non-bianco è generazione di questo bianco in particolare; quella dal non-essere in senso assoluto, verso la sostanza è generazione in senso assoluto, perché mediante essa noi diciamo che c’è un generarsi in senso assoluto e non già di un qualcosa in particolare). Lui la descrive, non dice che esiste: sta descrivendo tutti i vari casi possibili. Il cangiamento, invece, da un sostrato in un non-sostrato è corruzione: in senso assoluto, se si attua dalla sostanza al non-essere; in senso particolare, se avviene nella negazione opposta, come si è detto anche per la generazione. 225a, 34. Poiché ogni movimento è un cangiamento, e i cangiamenti sono i tre anzidetti, e fra questi quelli che si attuano nella generazione e nella corruzione non sono movimenti bensì cangiamenti per contraddizione, ne consegue necessariamente che è movimento solo quel cangiamento che si attua da sostrato a sostrato. Continua a insistere su questo fatto: il movimento è tra contrari, cosa che poi lo porterà a parlare di δύναμις e ἐνέργεια, di cui ci ha parlato Heidegger nel suo testo sulla filosofia di Aristotele. È una questione importante questa del movimento come qualcosa che si produce tra contrari. I contrari sono nelle cose, nelle quidditates? No, anche i contrari sono in ciò che si dice; sono le espressioni ad essere contrarie. Noi dobbiamo sempre tenere conto delle categorie di Aristotele – lette da noi e non da Porfirio – dove, in effetti, queste cose, queste sostanze, sono i praedicamenta, sono ciò che si dice. Aristotele lo dice: il movimento viene dalla contraddizione, e la contraddizione è un fatto prettamente linguistico, non c’è una contradizione nelle cose. Si pensa così perché la logica è teologia e, quindi, pensa che le cose, fatte da Dio, non mentano, così come i numeri non mentono in quanto ce li ha dati Dio.
Intervento: Perché Dio non è autocontraddittorio…
Se lo fosse saremmo rovinati: se si contraddice anche lui… neppure Dio può contraddirsi, diceva qualcuno. 225b, 5. Se, pertanto, le categorie si dividono in sostanza, qualità, luogo, tempo, relazione, quantità, agire e patire, è necessario che vi siano tre movimenti: il qualitativo, il quantitativo, il locale. Capitolo secondo. Nella sostanza non c’è movimento, perché non c’è nessun essere che sia opposto alla sostanza. Perché? Perché, sempre tenendo conto delle categorie, la sostanza non c’è, quindi, non può esserci il suo contrario. La sostanza non c’è se non nelle categorie; allora, sì, può esserci il contrario, c’è in ciò che si dice. 226a, 23. Poiché non c’è movimento né della sostanza né della relazione né dell’agire e del patire, resta solo la possibilità che vi sia un movimento secondo la qualità, la quantità e il luogo, giacché in ciascuna di queste categorie esistono i contrari. È solo la contrarietà che genera il movimento, di nuovo lo ripete e lo ripeterà ancora: solo con la contrarietà, con la contraddizione, c’è movimento. Questo cosa ci dice? Ci dice che movimento non è altro che movimento che c’è nell’atto di parola, nella parola in atto, nella parola che agisce, che si “sposta”, tra virgolette perché non è propriamente uno spostamento sensibile ma è uno spostamento dal dire al detto, dal mio dire a ciò che il mio dire dice. È questo il movimento, perché il mio dire e ciò che il mio dire dice sono contrari, si oppongono, l’uno non è l’altro, anche se il mio dire non esiste senza ciò che il mio dire dice. Dunque, quello di cui ci sta parlando Aristotele è un movimento non misurabile, non misurabile se non nel momento in cui io lo rappresento attraverso la qualità, la quantità, il luogo; devo rappresentarlo perché di per sé il movimento tra contrari non è calcolabile; quindi, devo rappresentarlo in qualche modo. E qui potremmo “risolvere” il paradosso di Zenone. Perché Achille non raggiunge la tartaruga? Perché si tratta di un movimento che non può essere matematizzato. Se lo matematizzo, incontro immediatamente delle aporie insolubili perché è un movimento fra contrari, è quel movimento che, peraltro, già negli Analitici secondi Aristotele rileva come ciò che rende impossibile il determinare qualcosa, perché questo qualcosa, determinandolo, lo determino già sempre in quanto altro, attraverso una determinazione che non è quella cosa lì. Per determinare Gabriele devo usa una serie di categorie (quantità, qualità, luogo, ecc.), ma queste cose non sono Gabriele. E, allora, Gabriele che cos’è? È le categorie, ma le categorie non sono Gabriele. È, in fondo, il problema del linguaggio.
Intervento: È curioso come Heidegger non si sia reso conto che il problema dell’ἀλήθεια non era altro che il problema delle categorie…
Certo. Perché non si accorge che l’ἀλήθεια è la δόξα, che è ciò da cui si parte ed è ciò a cui si ritorna. Non c’è uscita dalla δόξα, che è poi questo il messaggio di Aristotele nell’Organon, soprattutto negli Analitici secondi. Non si esce dalla δόξα. Certo, pensiamo di esserne usciti, ma ci ritorniamo necessariamente, quando ci accorgiamo che non c’è altro che la δόξα, che l’unica verità su possiamo fare conto è quella doxastica. La verità epistemica, abbiamo visto in questo lungo giro, non c’è da nessuna parte, non esiste. È come la ricerca di Dio: uno lo cerca dappertutto e dove lo trova? Ecco, allora, l’invenzione di Agostino: lo trova in sé quando Dio decide di dargli la grazia, per cui viene graziato e vede Dio, ci chiacchiera, ecc. È questo il messaggio di Aristotele: non esiste la verità epistemica. Dunque, la logica è teologia, se pensata epistemicamente; muove dall’idea di un Dio che sia garante, e cioè che l’universale sia gentilmente offerto da qualche dio. 226b. Il cangiamento che nella stessa forma specifica si attua verso il più e il meno, si chiama alterazione; questa, infatti, è un movimento da contrario a contrario o in senso assoluto o in senso particolare. Lo ripete continuamente: il movimento è da un contrario, cioè, sostanza, categorie. Ora, non so se Aristotele avesse proprio in mente questo, è possibile; poi, però, gli viene in mente la δύναμις e l’ἐνέργεια, la potenza e l’atto, cioè, due cose che non esistono l’una senza l’altra, che non possono esistere in nessun modo, ma si coappartengono. Capitolo terzo. 227a, 7. Poiché ogni cangiamento si osserva negli opposti, e opposti sono o i contrari o i contraddittori… Ricordate il quadrato logico (A,E,O,I) di Pietro Ispano? Tutte le A sono B: il contrario è nessuna A è B, il contraddittorio è qualche A non è B, che nel quadrato logico è la diagonale che va dalla particolare negativa all’universale affermativa, che unisce A con O. Per completezza, tra la A e la I e tra la E e la O sono subalterne, tra la O e la I sono subcontrarie. …e nella contraddizione non c’è nulla di intermedio, e chiaro che fra i contrari ci sarà l’intermedio. Nella contraddizione no, tertium non datur. 227a, 27. Si muove in modo continuo ciò che non presenta alcuna interruzione o ne presenta una minima nell’oggetto, non nel tempo (infatti, nulla vieta che vi sia interruzione e che, non pertanto, la corda più bassa suoni subito dopo la corda più alta), ma solo nell’oggetto in cui il moto si attua. E questo è evidente sia nei movimenti locali sia negli altri cangiamenti. Poi distingue tra contiguo e consecutivo: qualcosa che è contiguo è anche necessariamente consecutivo, ma ciò che è consecutivo non necessariamente è contiguo. Fa l’esempio dei numeri: sono contigui, l’1 sta presso il 2, il 2 sta presso il 3, ma non sono continui; se lo fossero, verrebbe cancellata la teoria dei limiti, perché assolutamente inutile. E, invece, no, sono enti distinti, contigui, ma non continui. Ecco, allora, che per inventare la continuità si è costruito il marchingegno della teoria dei limiti, e allora diventa continuo. Capitolo quarto. Il movimento è uno… È interessante, perché il movimento è uno, ma è due, perché il movimento è fra contrari. Ma è uno. Qui chissà se gli risuonava ancora nelle orecchie l’ἒν πάντα εἰναι di Eraclito? È una, ma due, cioè, molti. 229a, 30. Ma, poiché il cangiamento differisce dal movimento… Il mutamento avviene in loco, il movimento è uno spostamento da un luogo a un altro. …(infatti, è movimento il cangiamento da un sostrato verso un altro sostrato), il movimento che va dal primo contrario all’altro è contrario a quello che va dall’altro contrario al primo: quello che va dalla salute alla malattia è contrario a quello che va dalla malattia alla salute. Del resto, anche per induzione risulta chiaro il manifestarsi dei contrari:… Fa molto affidamento sull’induzione; sembra avere abbandonato la deduzione, che gli era così cara negli Analitici primi. … l’ammalarsi risulta contrario al guarire e l’imparare risulta contrario all’errare: non di per sé (infatti, essi sono disposti ad andare verso i contrari,… Mette l’accento sempre sui contrari. 229b, 13. Qui risponde a una obiezione. Ma per quegli enti che non hanno contrario, il cangiamento che parte da una cosa è contrario a quello che va verso la medesima cosa. Perciò la generazione è contraria alla corruzione e la perdita all’acquisto. Comunque, questi sono cangiamenti, non movimenti. Il movimento, per essere tale, deve essere tra contrari. Quindi, che cosa si muove? Il dire, la parola in atto: è questo il movimento. Dice che è uno, solo che questo movimento, sì, certo, è uno, ma è fatto di due, di due contrari: uno, molti. È Parmenide che ha detto come stanno le cose: c’è l’uno e i molti. Quindi, che cosa calcolo del movimento? Non calcolo il movimento perché non lo posso fare, in quanto il movimento è tra contrari; calcolo ciò che ne dico, calcolo la quantità, la qualità, il luogo; questi li posso calcolare, ma il movimento no. Questo è ciò che Aristotele ci ha detto in questo Libro quinto della Fisica.