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17 aprile 2019

 

La struttura originaria di E. Severino

 

Siamo a pag. 530, paragrafo 17. In quanto le proposizioni: “L’essere è immutabile”, “L’essere non si annulla e non sorge da una iniziale nullità” sono, nel modo che si è visto, L-immediate, e in quanto le proposizioni L-immediate aventi come soggetto l’intero sono lo stesso principio di non contraddizione nel suo vario formularsi… Se una proposizione ha come soggetto l’intero, cioè parla dell’intero, l’intero è per definizione L-immediato, è incontraddittorio. …segue che anche quelle prime due proposizioni affermanti l’assoluta immutabilità o permanenza dell’essere valgono come formulazioni del principio di non contraddizione. Quindi, ogni proposizione che affermi l’intero vale come principio di non contraddizione, in quanto se voglio negarla nego la mia stessa negazione. Per questo lato – ma con ciò si entra in un nuovo ordine di considerazioni – il principio di non contraddizione è lo stesso significato essenziale dell’argomento ontologico: l’immutabilità o assoluta permanenza dell’intero – ossia l’intero, in quanto assoluta permanenza -, è infatti lo stesso Essere assoluto: ovvero la posizione dell’immutabilità dell’intero, l’apertura cioè della concreta immediatezza logica, è la stessa presenza dell’Essere assoluto. Qui sta ancora lavorando sulla questione di cui parlava precedentemente, e cioè che non c’è divenire. Infatti, il paragrafo 18, quello successivo, si chiama L’aporetica del divenire. Il nuovo ordine di considerazioni, cui si è fatto cenno qui sopra, è avviato dall’aporetica … cui dà luogo l’affermazione che l’intero, ossia ognuna delle determinazioni dell’essere, nella loro unità organica, è immutabile:… Qualunque affermazione intorno alla determinazione dell’essere deve essere immutabile, perché fa parte dell’intero. …se questa affermazione è L-immediata – onde la sua negazione è originariamente autocontraddittoria -, è d’altra parte F-immediata l’affermazione che l’essere diviene:… Che cosa vuol dire che questa affermazione è F-immediata? Che il fenomeno mostra, invece, il divenire: si vede che qualunque cosa diviene, cambia, muta, ecc. …l’orizzonte aperto dalla totalità dell’essere F-immediato è appunto il regno del sopraggiungere e del dipartirsi dell’essere:… Se le cose sopraggiungono, è chiaro che vengono dal nulla, appaiono e poi scompaiono di nuovo. …e non solo quella totalità è il luogo che riceve e dal quale si congedano determinazioni particolari dell’essere F-immediato, ma è anche F-immediato il sopraggiungere della stessa totalità dell’essere F-immediato. Cioè, anche l’apparire di qualche cosa, questo stesso apparire è a sua volta apparenza, è cioè un apparire di qualche cosa. Ci sono delle pagine in cui fa la storia di questo problema, e cioè il fatto che il fenomeno sia qualcosa che appare e apparendo vuol dire che prima non c’era, e questa sarebbe la “dimostrazione” del divenire: la F-immediatezza, il fenomeno… Il fenomeno appare, scompare… Sarà sua cura mostrare come questo in qualche modo rientra nell’intero, riuscendoci solo fino a un certo punto. Se non ci riuscisse allora vorrebbe dire che c’è il divenire, cioè permane quella che lui chiama la follia dell’Occidente: l’affermazione che le cose sono e non sono, nello stesso tempo e nello stesso riguardo, come diceva Aristotele. A pag. 532, paragrafo 19. “La maggior parte di coloro che per primi si posero a filosofare pensarono che i primi principi di tutte le cose fossero soltanto quelli di specie materiale”: così Aristotele dà inizio alla celebre indagine storica del libro primo della Metafisica. Nel contesto generale del pensiero aristotelico, la conclusione di questa indagine è che gli antichi non seppero sollevarsi alla comprensione della totalità delle cose… La comprensione della totalità delle cose è la metafisica. …poiché l’orizzonte non mai oltrepassato delle loro ricerche fu il mondo fisico, ed essi furono pertanto dei “fisici” o dei cosmologhi. Questa critica permane come valida nella misura in cui la metafisica aristotelica riesce a dimostrare, insistendo nella direzione indicata da Platone, che il mondo fisico (diveniente) non esaurisce la totalità, stante che oltre la realtà diveniente è la realtà immutabile. Qui c’è la prima questione, cioè il mondo fisico, analizzato dai primi fisici, non esaurisce la totalità. Sì che dal punto di vista di chi sa che il mondo non è l’intero, è del tutto legittimo considerare l’interesse dei presocratici come rivolto a una dimensione limitata dell’intero. Se “fisica” è quell’interesse nel suo costituirsi come sapere della realtà in quanto realtà cosmica, e “metafisica” è invece l’interesse per l’intero, ossia per la realtà in quanto realtà, è del tutto legittimo affermare che i primi filosofi fecero soltanto della fisica e non della metafisica. Senonché, dal punto di vista dei “fisici”, che non sospettavano altra realtà che il mondo, fare oggetto del proprio interesse il mondo non significava limitarsi alla considerazione di una dimensione particolare dell’intero, ma significava mettere in vista lo stesso contenuto concreto, ola stessa determinazione esaustiva dell’intero. Onde appunto quegli antichi presero a ricercare i principi di tutte le cose. Si accorgono, cioè, che questo è, che quello è, che quest’altro è, ecc., si accorgono che tutte queste cose sono e che, quindi, c’è qualche cosa che le accomuna tutte, perché tutte quante sono. Questo è il primo passo verso la metafisica. Il che significa che essi si tennero innanzi la totalità come totalità (sia pure pensando che il mondo fosse la totalità); e così facendo non furono dei fisici, ma dei metafisici. Ci ha illustrato come è nata la metafisica: tutte le cose sono; quindi, hanno in comune l’essere. A questo punto non indago più la realtà contingente, ma indago la realtà in quanto realtà, il tutto in quanto tutto. Andando alla ricerca del principio, i primi metafisici andarono alla ricerca del principio unificatore del molteplice… L’uno e i molti di Parmenide: ci sono tante cose, ma tutte queste cose sono; il fatto che sono comporta che ci sia un’unità in questo essere; sono tante cose, tutte diverse, ma tutte quante sono. È questo il principio fondamentale dell’uno e dei molti. È appunto per l’apertura dell’orizzonte della totalità che sorge il problema di determinare che cosa sia ciò per cui tutte le cose, che pur si differenziano l’una dall’altra, convengano tutte nell’appartenere al medesimo orizzonte, e pertanto vengano a costituire qualcosa come una “totalità”. Che le cose appartengano ognuna all’intero, e che tutte convengano in questa appartenenza, significa che il molteplice si costituisce come unità;… Che è poi questo il problema della metafisica e della filosofia che ancora sussiste. In realtà, se non si pone la questione in altri termini, se non si approccia differentemente, questo problema non ha soluzione. Questo perché la totalità è ciò che dico, è questo l’intero - come dice Severino, il significato è la totalità dei significati – quello che dico è l’intero in quanto tutto compreso in sé. Essendo compreso in sé, esclude tutto ciò che non è, in questo senso è l’intero. Ma a sua volta questo intero, ciò che dico, è fatto di infinite cose: ciascuna parola, ciascun significante, ciascun elemento che interviene, a sua volta viene da altre cose, è fatto di altre cose, e così via. Quindi, come vedete, l’uno, ciò che dico, è molti, è molte cose. …sì che domandare che sia ciò per cui le molte cose appartengono al medesimo orizzonte, significa domandare che sia ciò per cui esse si realizzano in una unità; e pertanto quale sia il loro principio unificatore. Oggi per noi sembra una banalità, però, se si pensa a 2500 anni fa, quando il pensiero cominciava a sorgere, erano questioni importanti: che cosa fa di tutte queste cose una totalità? Che cos’è la totalità? Sono le prime domande su cui sorge la metafisica. Il tipo di metafisica che i presocratici incominciarono a proporre ci rende noto il senso secondo il quale il principio unificatore fu da essi riguardato. Dire che il principio di ogni cosa è l’acqua, o l’aria, o altro del genere, ha significato o può pretendere di avere significato solo se si intende il principio come materia -  e appunto in questo modo Aristotele interpreta queste primitive qualificazioni del principio -, sì che l’unità del molteplice è intesa come principio materiale. C’è una materia come sfondo. Questa materia è in potenza, poi in atto si materializza e prende forma in svariati aspetti; però, c’è una materia di fondo. Questa era l’idea. E pertanto l’unità che si ottiene è secundum quid… Secondo la cosa. …è l’unità di un aspetto dell’intero… Questa materia, che io vedo, è un aspetto dell’intero, non è l’intero. Anassimandro anticipa Parmenide: il principio unificatore non può essere una determinazione particolare. L’essere parmenideo è appunto la qualificazione positiva dell’indeterminato anassimandreo. E Parmenide è la soluzione cercata: l’orizzonte dell’intero può realizzarsi solo in quanto si apra come orizzonte dell’essere… L’orizzonte dell’intero non può che essere l’orizzonte dell’essere; cioè, tutte le cose sono. …ossia l’essere è ciò per cui si costituisce l’intero, e quindi è ciò per cui il molteplice è unità. Questa era l’idea di Anassimandro e di Parmenide: l’essere è ciò per si costituisce l’intero, la totalità. L’ontologia di Platone e di Aristotele sono l’assestamento di questa intuizione. E l’assestamento si impone: ché la scoperta è troppo grande perché lo scopritore non ne resti abbagliato: il mondo svanisce infatti nella pura luce dell’essere, svanisce come valore (άλήϑεια), e il valore è l’essere, come immutabilità e semplicità assoluta. C’è questo passaggio dal mondo, come prioritario, che scompare, e compare invece qualcosa di più grande, e cioè l’essere, l’intero, la totalità, e il mondo, inteso come singola determinazione di qualche cosa, passa in secondo piano. In tal modo, l’unificazione del molteplice, che si ottiene ponendo l’essere come principio unificatore, viene ad equivalere alla stessa negazione del molteplice:… Ecco che sorge il problema. … il puro essere è la determinazione esaustiva dell’intero. Però, se pongo questa unità, questa totalità, nego il molteplice, perché ho unificato tutto, diventa uno; i molti che fine fanno? Scompaiono o, almeno sembrano, scomparire nel tutto, in questa unificazione. Intanto è l’essere che invade l’attenzione… È l’essere che diventa la cosa più importante. …ma tale invasione acquista anche la forma di una radicalità ultima: l’essere è. Questo, e non altro, è il principio di Parmenide: l’essere non è non essere. Il principio dell’ex nihilo nihil è ereditato da Parmenide dalla tradizione filosofica, e comunque esercita nella metafisica parmenidea una funzione del tutto subordinata. Lo stesso Aristotele ricorda più volte che tutti gli antichi furono d’accordo nell’affermare che dal nulla nulla proviene, onde Parmenide, propriamente, “aggravò le conseguenze” di quel principio, negando l’essere stesso di ogni divenire. La negazione del divenire scaturisce infatti direttamente dal principio “L’essere è”. Se l’essere diviene – se il positivo sopraggiunge o si annulla – l’essere, prima di sopraggiungere, o annullandosi, non è: ed è appunto questo l’assurdo, o è appunto questa la definizione dell’assurdo: che l’essere non sia, cioè sia niente. Severino dice che il divenire è la follia dell’Occidente. È sufficiente la lettura del frammento 8 per accertare che l’affermazione dell’immutabilità dell’essere è basata semplicemente o direttamente sull’affermazione che l’essere è e non può non essere. il motivo per cui l’essere non è generato non sopraggiunge, è, semplicemente, che “non si può dire o pensare che non è”. Questo è il fondamento che a tutt’oggi costituisce la base di ogni pensare, cioè non è possibile pensare che l’essere non sia. Uno potrebbe chiedere: perché? Perché in questo caso succede un problema, e cioè io ammetto l’autocontraddizione. Ammettendo l’autocontraddizione io annullo ciò che sto dicendo, cioè dico qualche cosa ma nel dirlo dico anche che non dico questa cosa. Questo è ciò che per Severino fa il divenire, e cioè pongo qualche cosa o dico di porre qualche cosa che in realtà non sto ponendo. Quindi, l’essere non è generato; semplicemente, non si può dire o pensare che non è. Questo è il fondamento di tutto il pensiero occidentale, da Parmenide e Anassimandro fino ad oggi che ne parliamo. Poi, cita da Melisso, …il frammento 1°, dove Melisso afferma: “Sempre era ciò che era e sempre sarà. Infatti se fosse nato è necessario che prima di nascere non fosse nulla. Ora, se non era nulla, in nessun modo nulla avrebbe potuto nascere dal nulla”. Dove è chiaro, per chi ha capito il senso del principio di Parmenide, che l’ultima proposizione del passo citato è del tutto superflua, o può essere tenuta ferma solo da chi non si avvede che è proprio la supposizione del l’“essere non era nulla” ciò che costituisce l‘assurdo. Se l’essere non era nulla allora non era neanche essere e, quindi, di che cosa stiamo parlando? Tutto è necessario, allora. Ma come conciliare questa affermazione col divenire del mondo? Ora, è appunto questo il gran problema che Parmenide ha lasciato al pensiero filosofico. Platone e Aristotele si sono impegnati a fondo per la soluzione, ma la complessità del problema è tale che lo stesso pensiero attuale ne resta impegnato. Appunto così Platone vedeva Parmenide: “venerando insieme e terribile. L’essere è immutabile: in certo senso si può dire che la metafisica ha qui il suo inizio e qui il suo concludersi. Questo ha stabilito e da lì non si è più mossa. Per questo lato, l’aberrazione, la deviazione dal logo, è il mondo, cioè appunto la presenza del divenire, la storia. Anche la storia è un divenire. Ma se il logo si lascia sorprendere dal mondo in modo da non sapersi riprendere dalla sorpresa se non negando il mondo – e cioè negando appunto che il mondo sia sorprendente – diventa logo astratto; e ad esso si ferma Parmenide. Parmenide separa l’essere dal non essere. Ma vedete bene qui l’operazione che invece ha fatto Severino. Parmenide prende i due elementi, cioè il concreto, e li astrae: da una parte l’essere e dall’altra il non essere. Se l’essere è allora il non essere non è, per cui tutto ciò che non è l’essere, cioè l’immutabile, è nulla. Parmenide la gioca con l’illusione, perché anche lui si rende conto della trasformazione delle cose, che cambiano, ma ha mantenuto questa distinzione. Che cosa fa invece Severino? Anche lui ha preso questi due distinti ma li ha posti come il concreto, e cioè l’essere e il non essere diventano la posizione di qualche cosa, dell’essere in questo caso, e la negazione del suo contrario, che viene posto, anche lui, ma tolto. Questa operazione Parmenide non l’ha fatta, mantiene questi due elementi come separati; Severino invece non fa più questo “errore” ma, per quanto distinti, dice che sono lo stesso. Il sorprendente deve essere tenuto fermo: appunto perché ha una “presa” – un suo valore di evidenza, o immediatezza – dalla quale non ci si può svincolare. Nel De generatione et corruptione Aristotele dice degli Eleati che “non dando alcun peso alla manifestazione sensibile e svalutandola affermano che il tutto è uno e immobile. Certo, stando ai ragionamenti, sembra che queste debbano essere le conseguenze, ma stando alle cose è una follia pensare in questo modo”. Di questo dover “stare alle cose” soprattutto la filosofia aristotelica è massimamente consapevole, onde ben a ragione si può vedere nella conciliazione tra esperienza e logo la problematica fondamentale dell’aristotelismo. Esperienza è il divenire, il logo è l’immutabile: come faccio a conciliare le due cose? È sempre lo stesso problema: l’uno e i molti. La soluzione che Aristotele dà dell’aporia parmenidea si svolge in sue grandi momenti: accertamento della struttura intrinseca del divenire, e accertamento delle condizioni totali della pensabilità (incontraddittorietà) del divenire. Per prima cosa, intanto, si tratta di vedere di che cosa questo divenire è fatto, e poi se questo divenire è incontraddittorio, cioè pensabile. A pag. 536, a un certo punto dice che il problema viene “risolto” da Aristotele introducendo un terzo tra l’essere e il non essere, tra l’immutabile e il divenire, un terzo che Aristotele chiama sostanza. La sostanza in un primo momento è priva di una determinazione, che in un secondo momento riceve, ed è appunto quel terzo, la sostanza, che diviene. L’essere non diviene, il non essere, essendo nulla, non diviene; quindi, che cosa diviene? Aristotele si inventa questo terzo, la sostanza. Quindi, l’essere rimane sempre quello che è, ma la sostanza, di cui le cose sono fatte, può essere differente, può mutare. Il diveniente è dunque tale in quanto è il permanente che sussiste sia nel momento della steresi sia in quello della ctesi. Il momento della steresi è il momento della privazione; ctesi è il possesso. Quindi, privazione e possesso. C’è poi una citazione da Tommaso. “Calidum enim non facit esse calidam ipsam frigiditatem, sed subiectum frigiditatis, nec e converso. Videtur ergo quod oporteat poni aliquid tertium quod sit subiectum contrariorum”. Il caldo non fa diventare caldo il freddo ma il soggetto del freddo, fa diventare caldo qualche cosa che è freddo. Si vede pertanto che è necessario porre un qualche cosa di terzo che sia il soggetto di questi contrari. Vale a dire, il caldo non può far diventare caldo il freddo, inteso in senso assoluto; quindi, ci vuole un terzo elemento che sia il soggetto del freddo, e allora il caldo fa diventare caldo un qualche cosa che è freddo, ma non il freddo in sé. E cioè, mentre è contraddittorio che il non essere divenga essere, questa contraddizione non sussiste più ponendo che sia qualcosa – diverso da quel non essere e da quell’essere – che in un primo momento sia affetto da quel non essere e in un secondo momento da quell’essere. È questo terzo elemento che cambia dal non essere all’essere. È chiaro che poi il problema si ripropone rispetto al terzo elemento. A pag. 537. Più volte Aristotele avverte, già si è detto, che l’impostazione logica delle prime filosofie è determinata da questo principio. Il quale significa inizialmente che le cose sono generate da una materia preesistente, sì che, delle cose non essendo noto che l’aspetto materiale, si intende che “niente cominci a essere o perisca del tutto”. Questa materia, posta in questo modo, e cioè come un’astrazione, costituisce poi di fatto un problema anche per Aristotele, perché la materia è sempre materia signata, un qualche cosa, una forma, non è “la” materia, nessuno ha mai visto “la” materia in quanto tale. Il principio di Parmenide è già in qualche modo implicitamente operante, ma poiché la riflessione consapevole non si rivolge ancora all’essere dicendo che tutto ciò che si genera era già nella sostanza originaria. Se non ci si cura dell’essere e del non essere in quanto tali, allora ci si occupa della materia, della sostanza, di questo terzo elemento. Se il principio dell’ex nihilo nihil è da un lato anticipazione del puro principio metafisico di Parmenide – e nella filosofia preparmenidea svolge appunto il ruolo di assoluto principio metafisico -, dall’altro lato decade al ruolo di principio particolare allorché, specialmente nella filosofia aristotelica, si acquista coscienza dei molti sensi del fondamento, onde la sostanza originaria dei presocratici viene appunto ravvisata nel suo valore di principio materiale. Dissolto dal suo sbocco nel puro elemento metafisico – e necessariamente distolto -, il principio dell’ex nihilo nihil si presenta come un asserto semplicemente presupposto. A questo punto, il principio dell’ex nihilo nihil, dice, diventa una presupposizione perché se io considero che nella materia c’è già tutto allora tolgo il fatto che dal nulla non si crea nulla, in quanto non c’è questo nulla, perché c’è già comunque la materia, un sostrato da cui si parte sempre. Il divenire non è ex nihilo, ma ex ente, cioè appunto dal sostrato in quanto è privo di ciò che sopraggiunge, o in quanto è “in potenza” ciò che sopraggiunge. A pag. 538. È nota la soluzione aristotelica: il divenuto è già (l’essere è, e quindi è “già” rispetto al suo sopraggiungere), ma non semplicemente nel senso che il sostrato è già, in potenza, ciò che in un secondo momento sopraggiunge… … Il divenuto è già come realtà attuale; e pertanto non può essere già nella stessa realtà diveniente… Il divenuto, dice, è già nell’atto. Non può essere, quindi, nella realtà diveniente, non è qualcosa che si aggiunge, ma è già sempre nell’atto. Naturalmente, qui c’è un riferimento all’atto puro, che non è altro che il pensiero pensante, come diceva Gentile. Lui parlava di autoctisi, che è appunto il pensiero che si rende conto di sé e che, quindi, si pone come pensante. A pag. 539. Il teorema aristotelico del primato dell’atto sulla potenza, implicando la distinzione tra atto puro e atto misto a potenza, come distinzione tra due realtà –per quanto ognuna reale a suo modo -, è dunque lo stesso risolvimento dell’aporetica parmenidea. Per questo lato, il complesso procedimento mediazionale, che nei testi aristotelici porta all’affermazione dell’atto puro, è inessenziale: l’esistenza dell’atto puro, ossia dell’intero come immutabilità assoluta, è infatti guadagnata basandosi direttamente sul principio parmenideo. Che cos’è l’atto puro? È l’immutabilità, è l’intero, è l’atto del pensiero che pensa se stesso. A pag. 540. …Aristotele, a sua volta, presenta l’affermazione dell’atto puro come risultato di quell’arduo processo dimostrativo basato sul principio dell’omne quod movetur ab alio movetur. Tutto ciò che è mosso è mosso da qualche cosa. La fondazione di tale principio è analizzata da S. Tommaso… … La terza è la più impegnativa, e diventerà il fulcro della “prima via” tomistica. Il testo è quello dell’ottavo libro della Fisica, 257a. S. Tommaso lo espone nel modo seguente: “Nihil idem est simul actu et potentia respectu eiusdem. Sed omne quod movetur, in quantum huiusmodi est in potentia… quia nihil agit nisi secundum quod est in actu. Ergo nihil est respectu eiusdem motus movens et motum. Et sic nihil movet se ipsum”. Non c’è nulla infatti che sia simultaneamente atto e potenza rispetto allo stesso. Non può essere atto e potenza, non può essere simultaneamente qualcosa che è mosso e qualcosa che muove, o è l’uno o è l’altro. Qualunque cosa che si muova è in atto, perché nulla agisce se non secondo ciò che è in atto. Pertanto, nulla è rispetto a se stesso, moto che muove e moto mosso. E quindi nulla muove se stesso. Questa è la conclusione: non c’è qualcosa che muova se stesso, se muove, muove qualcos’altro e se è mosso è mosso da qualcosa. Ma è chiaro che anche qui si presuppone ciò che si deve dimostrare: che ciò che è in movimento è mosso. Se è in movimento qualcosa lo avrà mosso. E non si esce da questo presupposto nemmeno quando si afferma che il passaggio dalla potenza all’atto è determinato o condizionato dalla realtà in atto, perché quel passaggio in cui consiste il divenire attesta una limitazione del diveniente, e il limitante non può essere nulla, poiché altrimenti si intenderebbe il nulla come un positivo. Tutto questo sempre per mostrare che l’intero è l’immutabile: se qualcosa è intero non può dipendere da qualche altra cosa. A pag. 542, paragrafo 20, Modi di formulazione dell’aporetica del divenire, e chiarimenti. Aporetica del divenire, cioè il divenire è un’aporia, cioè non ha soluzione. a) La L-immediatezza dell’immutabilità dell’intero, e la F-immediatezza del divenire dell’essere provocano dunque una situazione aporetica. L-immediatezza dell’intero e la F-immediatezza del divenire: l’incontrovertibilità dell’immutabilità dell’intero urta contro il divenire del fenomeno, per cui non si sa più se le cose sono immutabili o se divengono. È questa l’aporia. b) Tale aporia può essere espressa anche dicendo che la L-immediatezza dell’immutabilità dell’intero è in contraddizione con l’affermazione dell’esistenza di sintesi a posteriori, ossia di contenuti positivi il cui sopraggiungere o il cui annullamento non è posto come autocontraddittorio… L’esperienza mi dice che le cose cambiano, e questa esperienza, se non la pongo come autocontraddittoria, mi dice che il divenire è vero. c) Si osservi inoltre che la presenza del divenire provoca una situazione aporetica già in relazione al concetto di totalità dell’essere F-immediato. Questo tipo di aporia sussiste anche considerando il divenire in relazione all’intero, ossia considerando che il contenuto dell’intero è, come totalità del F-immediato, diveniente. A pag. 543, paragrafo 21. L’aporia (formulata nei punti a, b del par. precedente)… E cioè: a) La L-immediatezza dell’immutabilità dell’intero, e la F-immediatezza del divenire dell’essere provocano dunque una situazione aporetica. Tra l’incontrovertibile e il divenire c’è un’aporia. L’aporia (formulata nei punti a, b del par. precedente) è tolta affermando che l’intero, come immutabilità assoluta, non è la totalità dell’essere F-immediato, in quanto questa è l’orizzonte del divenire. Come toglie Severino questa aporia? Dice che l’intero, come immutabilità assoluta, non è la totalità del fenomeno, sono due cose diverse. Se sono due cose diverse non c’è contraddizione, perché la contraddizione comporta la negazione di qualche cosa nello stesso momento e per lo stesso rispetto. Se si tratta di due cose diverse non c’è più la contraddizione. Però, questa aporia è tolta apparentemente ma comporta comunque un problema perché, dice, l’aporia è originariamente tolta: la struttura originaria si realizza come toglimento originario dell’aporia. La quale permane solo in quanto non sia posta la distinzione tra l’intero, come assoluta immutabilità, e la totalità dell’essere F-immediato. Il significato di tale distinzione deve essere determinato nel modo seguente. Quindi, tale aporia permane solo in quanto non sia posta la distinzione tra l’intero, come assoluta immutabilità, e la totalità dell’essere F-immediato, del fenomeno, in quanto due cose diverse. Il che non mi sembra una grande soluzione, però… In quanto la totalità dell’essere F-immediato non è nulla, la distinzione tra l’intero, come assoluta immutabilità, e quella totalità, è distinzione tra due positività… Cioè, sono due cose poste, sia l’immutabile sia il fenomeno. …e cioè è affermazione che la totalità del F-immediato appartiene, ossia è inclusa, o è momento dell’intero, ma – stante quella distinzione – non dell’intero in quanto immutabilità. Qui fa una specie di gioco di prestigio. Dice che la totalità del F-immediato, del fenomeno, fa parte del tutto, dell’intero – se è intero deve comprendere anche quello, altrimenti non è l’intero – ma ne fa parte come? Dice che c’è una distinzione, perché fa parte di quella totalità, ne è inclusa, il fenomeno è incluso nella totalità, ma non dell’intero in quanto immutabilità. Qui ci sarebbe da considerare più attentamente, perché dice che il fenomeno è incluso nell’intero, ma non in quanto intero immutabile. Ma, allora, se l’intero non è immutabile non è l’intero. Qui c’è un problema. Affermare che l’intero, come immutabilità assoluta, non è la totalità dell’essere F-immediato, significa dunque affermare che l’intero oltrepassa questa totalità, ovvero che un positivo oltrepassa la del F-immediato – sì che il significato “intero” compare in due accezioni diverse:… Eccolo qua il gioco di prestigio: cambio il significato delle cose e tutto va a posto. No, non va a posto un accidente, perché con questo sistema è facile. Io cambio le carte in tavola: ho due sette ma dico che ho due assi. Come? Ho due sette, non due assi. …come immutabilità assoluta – e quindi come opposto alla totalità del F-immediato – e come includente questa totalità. Quindi, da una parte questo intero è ciò che si oppone al fenomeno; dall’altra parte, inteso in un altro modo, lo include. Qui io ci metterei un bel punto di domanda. Quel positivo, che oltrepassa l’essere F-immediato, ha d’altronde una valenza tipica, in quanto non è semplicemente una parte dell’intero, ma è lo stesso intero in quanto immutabilità assoluta. Questa è la sua valenza tipica: il positivo che oltrepassa l’intero non è semplicemente una parte dell’intero ma è lo stesso intero in quanto è l’immutabilità assoluta, ma se è l’immutabilità assoluta, cioè l’intero, allora mi si ripresenta il problema di prima: questo intero in quanto immutabile non può essere diveniente, cioè non può essere fenomeno. Questo passaggio che fa Severino sembra piuttosto emblematico: modificare il significato di intero per adattarlo in modo che funzioni all’interno del sistema.