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Una introduzione alla lettura dei Concetti fondamentali della filosofia antica di M. Heidegger

 

17 marzo 2021

 

La volta scorsa abbiamo conclusa la lettura di Gentile annunciando un progetto. È un progetto che sorge dalle ultime letture che abbiamo fatto e che muove da un’idea, dall’idea cioè che il principio di ragione di ciascun atto di parola sia la volontà di potenza. Intendo dire che la volontà di potenza è ciò che risponde alla domanda “Perché sto dicendo quello che sto dicendo?”. Si tratta intanto di dire che cosa s’intenda qui con volontà. Intendiamo con volontà ciò che comunemente si intende, vale a dire, la determinazione al raggiungimento di un certo scopo. La volontà non è altro che questo: il determinarsi, il progettarsi verso un certo scopo, un certo obiettivo. Però, si vede subito qui che la volontà, posta in questi termini, che sono poi i termini più comuni, di fatto è volontà di potenza; cioè, volontà = volontà di potenza. La volontà, a questo punto potremmo dire che per definizione è volontà di potenza. Detto questo, passiamo a riflettere sul modo di procedere lungo questo itinerario. Ho pensato ad alcune letture da farsi, oltre a quella che stiamo avviando, I concetti fondamentali della filosofia antica di Heidegger. Sono alcuni testi che troverete nel sito indicati come i testi da leggere. Questo cambiamento è avvenuto in seguito a una considerazione, e cioè che se ciò che ci interessa in questo momento è intendere come sono sorti i concetti fondamentali, da dove arrivano, cosa li ha costituiti, allora il riferimento è Heidegger, perché nessuno quanto lui ha lavorato sui concetti dei filosofi antichi, sul pensiero greco. È il pensiero greco il luogo da cui tutto è iniziato. La filosofia antica, secondo Heidegger, ha avviato un percorso che poi ha portato alla metafisica, un percorso che si è basato sulla separazione di essere ed ente; immaginando con l’essere di cogliere qualcosa che costituisca una garanzia, la base dell’ente, senza accorgersi, dice Heidegger, che nel momento in cui lo si considera, l’essere, lo si prende come un ente. Questa è la questione fondamentale in Heidegger, cioè, la differenza ontologica di essere ed ente. Ciò che, tuttavia, a noi interessa, e che Heidegger non ha colto appieno, è che è assolutamente inevitabile, parlando dell’essere, porlo come un ente. Se voglio parlare del concreto, è inevitabile che io parli dell’astratto, perché parlando del concreto lo determino, lo isolo, lo astraggo. Heidegger parla di differenza ontologica, che a suo avviso è la base del fraintendimento di tutto il pensiero che ha seguito agli antichi. Questo fraintendimento non è propriamente un fraintendimento ma è ciò che inesorabilmente accade nel momento in cui io considero il concreto, cioè l’essere, il tutto, il linguaggio. Se io parlo del linguaggio, che pure è il fondamento di tutto, è l’intero, è il concreto, se ne parlo lo astraggo, lo determino, cioè, coglierò delle sue determinazioni, non coglierò mai il linguaggio in toto, il concreto. Questa è la prima cosa sulla quale riflettere e che procede dalle riflessioni che abbiamo fatte da Hegel innanzitutto, ma anche in questo caso da considerazioni che Gentile ci ha condotti a fare, e cioè: non posso parlare dell’essere se non ponendolo come ente. Come dicevo prima, Heidegger ha mancato questa questione. L’ha mancata e questo lo ha condotto a quella che è nota come la “svolta” di Heidegger, e cioè, di fonte a questo impossibile – il considerare l’essere se non come ente, cosa che è inevitabile – ha puntato la sua attenzione verso la poesia, in particolare quella di Hölderlin, che a suo parere ha posto più di altri la questione in termini precisi; quindi, la poesia come quel luogo dove più autenticamente appare l’essere. A noi non interessa tanto la poesia perché non seguiamo l’essere in questo modo, cioè cercandone l’autenticità: l’essere è già da sempre qui mentre ne parliamo, così come l’ente. L’essere è sempre qui in quanto è quel concreto che consente all’ente di porsi, di apparire; posso, cioè, porre l’ente a condizione che ci sia l’essere, e viceversa. Quindi, l’attualismo, che abbiamo considerato in Gentile, è ciò che ci consente questa svolta, che però non punta a mantenere l’essere separato dall’ente, come in qualche modo continua a fare Heidegger immaginando che l’essere più autentico sia quello messo in luce dai poeti. No, torno a dire, l’essere è ciò che da sempre è qui adesso mentre ne parliamo, perché è la condizione perché ci sia l’ente. Dunque, se io mi domando intorno all’essere dell’ente, vale a dire ciò che fa dell’ente quello che è, mi sto domandando dell’essere dell’ente; domandandomi dell’essere dell’ente, mi domando del principio di ragione dell’ente, principio di ragione che, come dicevo all’inizio, consiste esattamente nella volontà di potenza. Ma la questione è che volontà di potenza e linguaggio appaiono qui come la stessa cosa. Heidegger pone la questione in termini interessanti dicendo che l’essere, in effetti, è quella cosa da cui sorge l’ente, ma sorgendo l’ente scompare l’essere, il che è vero. In effetti, come dicevamo, se parlo dell’essere, l’essere in quanto tale scompare e compare l’ente, ente che in questo caso è l’essere, cioè determinato. Ma più propriamente questo essere, cioè il concreto, ciò che è la condizione di qualunque ente, a questo punto non possiamo che indicarlo come il linguaggio, in quanto è il linguaggio che consente agli enti di esistere. Naturalmente, parlando di linguaggio dobbiamo fare una precisazione, e cioè che il linguaggio è proprio, come ha inteso molto bene Heidegger, la distinzione tra ente ed essere, tra immanente e trascendente. Il punto è che questa distinzione non è una separazione, questi due elementi sono inseparabili, così come abbiamo detto tante volte, è inseparabile il significante dal significato, non posso separarlo: se tolgo il significato tolgo anche il significante, e viceversa. Ecco perché la questione interessante in tutto ciò è che questi due elementi, questi due distinti, l’ente e l’essere, sono propriamente ciò di cui il linguaggio è fatto: l’ente, l’immanente, il significante, il mio dire; l’essere, l’infinito, il trascendente, il significato, ciò per cui ciò che dico è quello che dico. Dunque, questa differenza ontologica non è altro che la distinzione dei due momenti inseparabili di cui è fatto il linguaggio. Ma, allora, la questione diventa interessante perché, tornando al punto di partenza, la volontà di potenza – a questo punto potremmo dire la volontà, semplicemente, e cioè la determinazione a raggiungere un certo obiettivo – non è altro che la determinazione dell’ente a raggiungere l’essere, la determinazione del significante a raggiungere il suo significato, dell’immanente a raggiungere il trascendente per integrarsi, perché ciascuno dei due esiste in quanto esiste l’altro. Questa è a mio avviso la lezione fondamentale di Hegel: non li posso separare; sono sì distinti ma non separabili. Quindi, la volontà di potenza o la volontà semplicemente, è insita nel funzionamento del linguaggio in quanto non è che il tendere o il progettarsi continuo del significante verso il significato, l’essere del gettato del significante verso il significato o, ancora, dell’ente verso l’essere. Ecco perché dicevo che la volontà di potenza, o volontà, non è altro che l’agire stesso del linguaggio. La volontà costituisce l’agire del linguaggio in quanto ciascuna volta il significante, cioè l’ente, è gettato verso il significato. Questo ci mostra che la volontà è il linguaggio, il modo di agire del linguaggio, cioè il volere sempre qualcosa, volere nel senso di essere gettato verso questo qualche cosa, e non potere non , perché non può separarsi da ciò di cui e per cui esiste. Il significante, per riprendere de Saussure, non può in nessun modo non gettarsi continuamente verso il significato, perché se non lo facesse non sarebbe un significante. La stessa cosa vale per l’ente: l’ente non può non essere continuamente gettato verso l’essere perché l’essere è ciò che dà all’ente la sua enticità. L’essere, appunto, come il concreto, come il tutto, come il linguaggio. Questo progetto, di cui parlavo, tende a intendere il modo in cui ciascuna volta il parlante, parlando, ponga in essere la volontà di potenza, cioè la sua volontà. Potremmo riassumerla così: se  dico, dico qualcosa, quindi se dico è per dire qualcosa, ma questo qualcosa non è separabile da ciò che dico. Quindi, la cosa a questo punto può intendersi, a proposito del principio di ragione, in questo modo: l’unico principio di ragione che possa porsi è la volontà di potenza, per cui ciascuna cosa è quella che è, né più né meno. Per precisare forse meglio, potremmo anche dire che la volontà di potenza, cioè la volontà di stabilire il qualche cosa che dico dicendolo, è esattamente la volontà di affermare. Affermare è esattamente questo: la volontà di dire quello che dico. Ma il quello che dico è quello che è proprio per la volontà di dirlo. C’è qui un passaggio interessante, perché sto dicendo che è la volontà di dire qualcosa che fa di questo qualcosa un qualcosa. Il che potrebbe apparire singolare a prima vista, però, riflettendoci meglio, se io pongo un qualche cosa e mi chiedo di che cosa si tratti, che cosa penso? Penso naturalmente a ciò che questo qualche cosa è, quindi, a ciò che lo fa essere quello che è, e quindi cerco il suo principio e la sua causa, ρχή e ατία. Cercando questo, che cosa trovo? Trovo innanzitutto, e qui siamo con Gentile, me che sto pensando tutto questo, me che sto pensando al principio e alla causa di qualcosa; quindi, trovando me che sto pensando questo, trovo me che voglio affermare qualche cosa. Perché lo voglio affermare? Perché non posso non farlo, non posso non affermare continuamente cose, perché sono nel linguaggio, e il linguaggio non è che affermare continuamente cose. Quindi, affermando qualche cosa pongo, certo, in atto il linguaggio, ma nell’affermare qualche cosa ciò che dico si proietta verso il qualche cosa di cui dico, che fa del mio dire quello che è. Per farla breve, la volontà di potenza non è altro che la volontà di determinare ciò che sto dicendo, ma per determinarlo devo porne la sua causa, il suo principio, cioè devo porre l’essere, il concreto, il tutto, devo porre il linguaggio. Quando io cerco la causa di qualche cosa trovo altre determinazioni, che mi rinviano ad altre determinazioni, e che cosa trovo? Trovo il funzionamento del linguaggio, trovo cioè il qualche cosa che rinvia continuamente ad altro. Trovo, cioè, una determinazione, un astratto, che rinvia naturalmente sempre a un altro astratto, senza mai cogliere il tutto, e che è quindi debitore del tutto, cioè dell’intero, del concreto; questo concreto sarà sempre lo sfondo e non potrò mai coglierlo in toto. È esattamente la questione che pone Heidegger rispetto all’ente e all’essere: ogni volta che voglio trovare l’essere trovo sempre un altro ente che mi rinvia a un altro ente; mentre cerco l’essere appare l’ente, mentre appare l’ente scompare l’essere, perché l’ente non è l’essere ma una sua determinazione, è un astratto: l’essere è il concreto. Dicendo che la volontà di potenza è il principio di ragione di ciascun atto di parola sto dicendo che il principio di ragione è la necessità di determinare ciò che sto dicendo. A che scopo determinarlo? Perché se non lo determino non ne posso parlare, ecco perché. Soltanto determinandolo, quindi astraendolo, posso parlarne, posso cioè continuare a dire. Continuare a dire è esattamente ciò che Nietzsche chiamava il superpotenziamento: se io affermo qualche cosa, questa cosa una volta affermata deve essere rinviata a qualche cos’altro, deve essere confermata, deve essere potenziata. Non facendo questo, come diceva giustamente Nietzsche, ci si trova di fronte a un immediato depotenziamento, perché questa cosa non vale più, come dire che il suo valore è tale in quanto consente di rinviare a un altro. Il valore di ogni affermazione è di essere un rinvio verso un’altra parola: è questo il superpotenziamento. E se non rinvia immediatamente appare il depotenziamento. Questo ci porta a considerare ciascun atto di parola, usando le parole di Heidegger, come un utilizzabile. Ciascuno parlando è pro-gettato verso un’altra parola, un’altra parola che dovrà essere un utilizzabile per rinviare a un’altra parola. Questo è il superpotenziamento e questo è il funzionamento del linguaggio: ciascuna parola è quella che è in quanto rinvia a un’altra parola; se non rinviasse a nulla cesserebbe di essere una parola, semplicemente. Torniamo al progetto di cui parlavo all’inizio, progetto per il quale la lettura di Heidegger è assolutamente necessaria e imprescindibile. Heidegger è colui che più di tutti gli altri ha interrogato gli antichi per restituire la loro posizione rispetto al pensiero, volendo essere, come lui dice da qualche parte, più greco dei greci stessi e, quindi, prendendo molto seriamente l’intendimento degli antichi pensatori. Ciò che cercheremo di fare è interrogare gli antichi per intendere come hanno approcciato questo problema per cui l’ente, per essere quello che è, necessità dell’essere, e l’essere, per essere quello che è, necessita dell’ente. È il problema del pensiero da sempre, almeno da Parmenide, che pensava che l’essere potesse darsi da sé, quindi, senza un suo significato, perché se ha un significato questo suo significato è un’altra cosa, è qualcosa che si aggiunge all’essere, e quindi l’essere non è più quella cosa autonoma, autosufficiente, come dovrebbe essere. Ogni pensatore ha approcciato questo problema in vario modo, ma il problema è sempre stato lo stesso: il problema del linguaggio. Questo è il problema centrale di tutto il pensiero da sempre, perché il linguaggio è questa divisione, questo iato che si apre nel momento in cui parlo. Nel momento in cui determino qualcosa, questo qualcosa, per potere determinarsi, necessita di qualche cosa che questo stesso primo qualche cosa non è. Dunque, a questo punto ciò che interessa è percorrere insieme con questi antichi, accompagnati da Heidegger, da un’ottima guida quindi, e vedere come si sono costituiti e costruiti i primi concetti, i concetti fondamentali, sui quali peraltro si è costruito tutto il pensiero occidentale e non solo. Concetti fondamentali che sono quelli costruiti per risolvere il problema del linguaggio. Come sappiamo, risolvere il problema del linguaggio non è possibile, se non immaginando di potere in qualche modo cancellare il linguaggio, perché finché il linguaggio c’è funziona nel modo che abbiamo descritto, e cioè come un continuo rinviare ad altro. Ma, come ci ha mostrato Hegel, non è soltanto questo, ma ciascuna cosa rinvia necessariamente a ciò che questa cosa non è e da questo rinvio il primo elemento trae il suo essere, diventa quello che è a partire da ciò che non è, cioè a partire da una negazione. Il linguaggio non può evitare la negazione in nessun modo, perché ciascuna cosa che si afferma è quella che è a condizione di non essere ciò che non è, e quindi ha insita in sé necessariamente una negazione. Tutto questo ha creato da sempre un grosso problema nel pensiero. Un pensiero che, non avvertito ancora della questione del linguaggio, immagina di potere risolvere il problema, il linguaggio, con cose che non hanno a che fare con il linguaggio, cioè con cose che sono sì costruzioni del linguaggio ma che non sono il linguaggio. Quindi, porre in atto questo progetto è il considerare che il principio di ragione di ciascun atto di parola è costituito dalla volontà di potenza, come dire che ciascun atto di parola ha il suo principio di ragione, cioè è quello che è per via del fatto che è linguaggio, che è cioè inserito nel linguaggio. Che cosa possono dirci i testi antichi? Non moltissimo, ma quel poco che possono dirci potrebbe risultare essenziale, nel senso che sono la testimonianza del più straordinario tentativo messo in atto per rendere ragione del problema che il linguaggio costituisce per ciascuno. In effetti, i modi degli antichi per “risolvere” il problema sono esattamente quelli che vengono posti in atto anche oggi, non è cambiato niente in questo senso: ciascuno tenta a suo modo di crearsi una sua metafisica, vale a dire, un racconto, una narrazione, dove ciascuna cosa trova la sua collocazione all’interno di altre cose precedentemente già collocate, in modo da costituire un sistema di riferimento. In fondo, la metafisica può pensarsi anche così, come un sistema di riferimento a fronte dell’irruzione del linguaggio in ogni atto di parola, che squarcia ogni possibilità di riferimento, lo demolisce, lo capovolge, lo distrugge. La metafisica è il tentativo non riuscito, naturalmente, perché non può togliersi il linguaggio, è un tentativo non riuscito di costruire un sistema di orientamento in modo da potere affermare delle cose. Dicevo che queste cose vengono affermate a condizione di poterle determinare, astraendole dal concreto. I testi che leggeremo sono indicati nel sito e verranno letti sempre con la modalità con la quale abbiamo letto anche i precedenti, cogliendo quei momenti, quelle tesi che sono importanti per intendere il funzionamento del linguaggio, per intenderlo in modo sempre più preciso. Quindi, leggeremo questi testi in modo ancora più esasperato rispetto ai precedenti. I brani che leggeremo saranno probabilmente di meno, saranno di più le considerazioni. I testi di Heidegger saranno importantissimi perché mostrano, come in effetti voleva lui, il pensiero dei greci in atto, un pensiero che lui ha tentato di portare alle estreme conseguenze volendo essere più greco dei greci. Questi testi saranno importanti, li leggeremo da mercoledì prossimo e cominceremo con I concetti fondamentali della filosofia antica. È un percorso che attraverso Heidegger ci porterà fino all’ultimo che sarà la Metafisica di Aristotele, l’ultimo prima di avviare un percorso intorno alla retorica, alla retorica come arte della volontà di potenza. La Metafisica di Aristotele sarà l’ultima lettura che completerà questo percorso dove Aristotele mostra in atto il sistema che lui ha costruito, un sistema di metafisica che permette di orientarsi nel mondo, che permette di intendere quali sono i concetti fondamentali, i principi primi sui quali si costruisce a tutt’oggi il pensiero di ciascuno; che permette di intendere quali sono i fondamenti del linguaggio, sui quali il linguaggio si basa per costruire le sue argomentazioni; che permette di intendere che cosa è necessario per il superpotenziamento, quali sono i momenti più importanti, più essenziali, utilizzabili per il superpotenziamento.