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17 febbraio 2021

 

L’attualismo di G. Gentile

 

Siamo al Capitolo III, Essere e pensare. Paragrafo 1. Tutto pensiero. Il pensiero che pensa chiude in sé un orizzonte infinito, e vi spazia sicuro con fede che non falla nella propria verità non adombrata da sospetto di sorta. È un punto solo, un punto senza spazio, da cui s’irradia tutto ciò che senso o intelletto, esperienza sistematica e storica, o esperienza frammentaria ed astratta (cognizione o immaginazione) possa proiettare innanzi a sé per rappresentarsi l’infinito mondo delle cose che sono o possono immaginarsi. Non mondo, esso stesso, ma creazione del mondo: un mondo che non è, non è un fatto, ma si fa. Qui c’è tutto Gentile: non è il mondo fatto, ma un mondo che si fa. La realtà stessa, ma non raffigurata in quel suo astratto aspetto in cui pare già foggiata con una certa natura, e raffreddata, e fissa in tutte le sue forme particolari o nel complesso di queste forme; ma la realtà attuale, liquida, per dir così, e calda nel processo vivo della sua autoformazione. Non spettacolo, che sia in qualunque modo rappresentabile esso stesso innanzi al pensiero, che ne ha coscienza (in quanto autocoscienza) ma dramma di cui il pensiero non è il protagonista, ma il monagonista. Su questa ròcca l’uomo davvero può vivere con l’animo sgombro dal dubbio e dal timore, e godere dello stesso dolore essenziale alla gioia del suo vivere. Gioia e dolore: ciascuno è essenziale all’altro. In queste pagine Gentile rivolge una critica al realismo e allo scetticismo, che vedremo molto rapidamente. Al paragrafo 4, dice L’interesse del realista è questo: assicurare al pensiero, il pensiero più maturo, quale vuol esser quello del filosofo, la verità, che consiste nell’adeguarsi fedelissimamente del pensare all’essere. Verità che sarebbe senza speranza compromessa se il rapporto fondamentale tra pensare ed essere non presupponesse quella rigida opposizione, per cui l’essere è essere, e non è pensiero. È questo, in definitiva, il pensiero dominante: il pensiero del realismo, una cosa è ciò che è e altro è ciò che io penso. Questa è la base di tutto il pensiero occidentale. Paragrafo 5. L’errore del realismo. …il pensiero, fondato sull’intuito ed equivalente all’intuito, deve al pari dell’intuito essere pensiero meramente ricettivo, in cui il soggetto vede senza guardare: vede, perché questa è la sua natura e non il suo atto. Donde la teoria delle idee innate, per cui la cognizione essenzialmente è natura dell’anima; e a cui fa preciso riscontro la teoria della sensazione come funzione naturale dell’anima; o quella del dato, come nucleo dell’oggetto che il soggetto si trova naturalmente dentro, senza poterlo considerare un prodotto della sua propria attività. In fine il pensiero, prima d’intuire e dopo, e così prima e dopo della conoscenza riflessa, è quello che è: né più né meno. Non muta, non si sviluppa, non acquista, non conquista un modo di essere che abbia un valore: come un vaso, vuoto o pieno, d’acqua o di vino, di vino cattivo o buono, si può dire non perda né guadagni; e sia sempre lo stesso vaso. Ma un pensiero che posseduto non sia un valore nostro, non ci faccia essere quello che non saremmo senza di esso, che non sia perciò apprezzabile e desiderabile, non è un pensiero: quel pensiero che il filosofo cerca, e vuole, attribuendogli un pregio. La cognizione acquisita per intuito non è acquisita: è in noi, non è noi:… Qui c’è la differenza tra la sua posizione e quella tradizionale: la conoscenza acquisita per intuito è qualcosa che non è noi, ma è, come dice lui, come l’abito che indossiamo, è sulle nostre spalle, ma non s’incorpora nella nostra persona. E qualche cosa, non è pensiero. Il pensiero del realista è essere, non pensiero. Perché fa del pensiero un essere tra gli altri. Spogliatosi di tutto il suo valore per cercar questo valore fuori di sé dove gli pare d’intravvederlo, lo smarrisce e non lo può più ritrovare. E corre la stessa sorte del cane della favola, che lascia cadere nell’acqua la carne che ha tra i denti, e non può certo addentare quel pezzo più grosso che vedeva riflesso. Questo per dire che cosa accade agli umani. Paragrafo 6. Realismo e logo astratto. Un pensiero che non sia pensare, anzi il pensare, torna ad essere res, essere, e riapparisce fatalmente il ταύτόν di Parmenide; come riapparisce infatti non solo in Platone, e Aristotele, e Plotino, ma nella Patristica, e in Cartesio, e in Spinoza, e in Leibniz, e fino nello stesso Kant: anzi perfino in Hegel, nel suo logo. Il pensiero sottratto all’essere, a quella immediatezza che è asfissia del pensiero che pensi davvero, bisogna che sia pensare, o atto del pensiero. E pensare può essere ad un patto: che sia il nostro: che sia cioè quell’unico pensare che noi conosciamo veramente tale, poiché ogni altro pensare è pensiero appartenente a quel mondo dell’essere che realisticamente possiamo contrapporre al pensare… … La certezza è lì, nel soggetto pensante, che per risolvere il problema d’ogni superiore certezza deve superare la barriera della soggettività. Superarla, come si sforza di fare Cartesio stesso; o convincersi che non franca la spesa, poiché, a ben riflettere, tutto ciò che si credeva di dover cercare di là, è di qua, considerato che quell’Io che pensa non è quell’Io particolare che pareva, ma l’Io da cui questo e ogni altro Io particolare dipendono. Come dire che sono sempre io che penso. Altri pensano, oltre di me. Certo, questa è una verità che io posso pensare finché mi rappresento un mondo empirico, qual è quello del pensiero comune. Quando invece dall’empirico mi sollevo al mondo trascendentale, che è quello in cui l’empirico ha il suo significato e la sua intelligibilità, gli altri son tutt’uno con me, e pensiamo insieme nell’autocoscienza, che è una. E, beninteso, com’è l’autocoscienza: facendosi, cioè essendo e non essendo mai: eterna soluzione, eterno problema. Io e non-Io continuo. Paragrafo 8. Pensare e conoscere. Nella nuova critica cade la distinzione a cui l’antica si arrestò, di pensare e conoscere: pensare che può pensare anche l’inconoscibile, e conoscere che si limita all’esperienza possibile. Il nostro pensare, il pensare che non è più della sintesi, ma dell’autosintesi, è conoscere. Il pensare che non era conoscere, era il pensare subiettivo, che aveva bisogno d’un contenuto esterno, fondato perciò nell’intuizione realistica del mondo. Un pensare, che si dia da sé il contenuto, e la cui legge fondamentale sia l’autosintesi come pura autoanalisi, non può essere mai in difetto del suo contenuto, simile a tenaglia aperta che non stringa nulla. Un pensare che si dà da sé il suo contenuto; quindi, ha già la verità. Il pensare l’impensabile. Qui pone una questione sulla quale occorrerebbe riflettere e rifletteremo. Al Paragrafo 9 è più preciso. Ragion sufficiente. Dal pensiero astratto non si passa all’esistere, perché il pensiero astratto è un circolo chiuso, dal quale non c’è via d’uscita. Dal pensiero concreto non si passa nemmeno, perché fuori del pensiero concreto non v’è nulla a cui si possa passare o desiderar di passare. La realizzazione della realtà non presuppone il pensiero, perché la realtà consiste appunto nel pensiero, e non ci sono idee, che siano idee concrete (cioè autoconcetto), le quali possano perciò esser candidate a quel migliore dei mondi possibili, che per Leibniz solo è reale. La questione qui è interessante: pensare l’impensabile. Pensare l’impensabile è ciò che fecero gli antichi, gli eleati: Parmenide, Melisso, Gorgia e in particolare Zenone, che ha pensato l’impensabile, ponendo dei limiti al pensiero che non sono mai stati superati, perché sono limiti strutturali. Zenone era di Elea, vicina a Salerno, visse nel V secolo a.C., e ha posto delle aporie che rimangono a tutt’oggi tali e quali. Aporia viene da pòros, che è la via; l’alpha privativa dice che non c’è la via, non c’è la direzione, si è bloccati, e questa è letteralmente l’aporia. Le aporie di Zenone sono famose, sono soprattutto quelle del movimento, per esempio quella di Achille e la tartaruga, quella della freccia e della infinita divisibilità di uno spazio. Ora, quando lui dice che da A a B c’è naturalmente un cammino, ma che questo cammino non terminerà mai, perché prima si deve passare la metà, quindi la metà della metà, ecc., e quindi non si arriverà mai al punto B. Questo, tuttavia, urta l’esperienza: così la freccia che rimane immobile, che nel suo moto è immobile; è immobile perché in ogni istante occupa uno spazio, che è quello che è, e in quello spazio può essere soltanto lì, ferma, immobile. Tra l’altro, qui sarebbe da vedere in Severino la questione dell’eterno, di questi momenti che sono eterni in quanto non hanno divenire. Severino non cita Zenone, però dicendo (Zenone) che la freccia si trova in ogni istante in uno spazio e lo spazio è quello, e ciò che è in uno spazio che è quello e non può essere altro, sta dicendo in effetti qualcosa di molto simile, e cioè che quell’attimo è eterno. La questione del movimento è importante perché costituisce uno dei più grossi problemi nel pensiero in generale. Zenone pone anche una obiezione alla geometria. Dice che la geometria è la scienza, la disciplina della misura di superfici; quindi, presuppone ovviamente la misurabilità di ciò di cui si occupa; ma qual è il principio da cui muove? Il punto. Ora, Zenone fa un discorso interessante sul génos (γενς) e sull’arché (ρχή). Il génos, il genere, è il misurabile, quindi, il divisibile; il suo principio, la sua arché, è il punto, che non è misurabile né divisibile. Questo è uno dei problemi che pone Zenone. Però, dicevo prima del moto, le considerazioni di Zenone vanno contro l’esperienza. Occorreva arrivare fino ad Einstein per avere in qualche modo un ritorno di pensiero intorno a questa questione, quando fa l’esempio famoso, non ricordo dove, della bobina del cinema: ogni fotogramma è fisso, è quello; quindi, questo movimento che si vede nel cinema, di fatto, è composto da elementi statici, fissi. Il che è quello che diceva esattamente Zenone: il movimento della freccia, certo, io lo vedo, ma non posso che dire che questo movimento è fatto da una sequenza di elementi statici. E, allora, la freccia si muove o è ferma? La cosa non è superabile, così come non è superabile la divisibilità dell’infinito, perché il problema, preso alla radice, è questo: come si può misurare l’infinito con il finito? Perché se voglio misurarlo devo avere il finito per forza, perché devo determinare comunque una unità di misura, che sarà quindi determinata, finita; e attraverso il finito voglio misurare l’infinito. Non si può fare. Si può farlo facendo finta che il problema sia risolto, come sappiamo: per es., la teoria dei limiti, che non risolve per niente il problema, lo lascia lì così, tale e quale, così come lo ha posto Zenone, duemilacinquecento anni fa. È chiaro che tutta la matematica, il calcolo differenziale… tutto ruota intorno alla questione posta da Zenone e che è rimasta esattamente tale e quale. Gli eleati, e questo è l’interesse, hanno pensato qualche cosa che ancora oggi costringe a pensare. Il computer invece è impostato per evitare tutti questi problemi, dei quali non sa assolutamente che farsene e cosa farsene. Ma dicevo che la questione interessante qui è che allora hanno posto ciò che è veramente da pensare. In questo Heidegger aveva perfettamente ragione. Hanno stabilito che cosa era da pensare, che cosa è ancora da pensare. Il lavoro degli eleati, in effetti, si intende se si intende Gentile, cioè se si intende l’attualismo. Questa novità – non so se è una novità, lo è comunque per me che l’ho pensata – è che l’attualismo, non è che risolva il problema – in effetti, non c’è un problema da risolvere – ma ci dice che la questione della misurabilità dell’infinito tramite il finito è una questione che non può essere posta, perché non posso separare l’infinito dal finito. Io penso di potere misurare l’infinito con il finito se li distinguo, se li separo; ma se non sono separabili, cioè se il finito ha come sua condizione, ha in sé l’infinito, a questo punto l’idea stessa di misurarlo non ha più senso, perché dovrei misurare qualche cosa, cioè il finito dovrebbe misurare l’infinito di cui è parte, come può farlo?

Intervento: E poi la matematica risolve questi problemi tornando all’infinito.

Non può fare altro se vuole andare avanti. Sennò si ferma lì… o torna a leggersi Zenone, che sarebbe comunque una buona lettura. Che poi, in realtà, sono pochi frammenti. Di Zenone sappiamo molte cose, ma tratte da Aristotele, il quale ne parla perché doveva confutarlo; tratte da Sesto Empirico, da Simplicio, tratte da una serie di personaggi che hanno riportato cose che avevano sentito o letto, perché pare che ai tempi di Aristotele il testo di Zenone fosse ancora integro. Ci sono, quindi, delle testimonianze. Zenone, come gli altri eleati, ha posto il problema senza accorgersi che infinito e finito sono le due facce dello stesso. Probabilmente non poteva accorgersene; d’altra parte, non se ne è accorto nessuno. Hegel ha posto la questione: non posso parlare dell’uno senza parlare anche dell’altro. È per questo motivo che sto pensando se leggere, dopo Gentile, gli Studi sull’eleatismo di Guido Calogero, che è un bellissimo testo, perché in effetti le questioni poste dagli eleati è come se trovassero una integrazione, non dico soluzione ma integrazione, con l’attualismo di Gentile. Non sono mai state risolte perché non hanno una soluzione. Finché io tengo il finito separato dall’infinito non c’è soluzione, è impossibile. Ma se incomincio a pensare che finito e infinito sono lo stesso, allora il discorso cambia. È chiaro che per misurare, per fare i conti, dovrò sempre considerare l’infinito e arrivare lì, e supporlo, pensarlo come misurabile. Ma lo suppongo, misurabile; di fatto, non è così, perché, e qui torniamo a Zenone, non posso misurare l’infinito con il finito. È la stessa cosa che dice Gentile e che diceva già Hegel: non posso pensare il concreto se non attraverso l’astratto; ma posso pensare l’astratto perché c’è il concreto. Non posso separarli, e la stessa cosa vale per il finito e l’infinito. Non posso neanche pensare l’infinito senza il finito, perché se lo penso già lo determino, quindi, già lo pongo come un astratto, come un finito. Anche qui di un passaggio si può ben parlare, come s’è detto per quello dal pensare all’essere, che è con questo connesso: di un passaggio dall’idea all’atto, non in quanto l’idea preceda attualmente l’atto, che è eterno e non può perciò esser preceduto da nulla; ma in quanto l’atto è divenire, e non è mai consumato: e ogni atto si pone come realizzazione di un’idea. La quale non ci sarebbe dunque senza l’atto,… È la stessa cosa che vi dicevo rispetto al finito e all’infinito. …che la pone nella sua inattualità col suo stesso porsi autosintetico in quanto pure autoanalitico. Ponendo l’idea è come se la ponessi fuori dall’atto, cioè come inattuale. In questo senso è vero che ci sono pensieri che sono posti in esecuzione: pensieri astratti, la cui astrattezza o inattualità apparisce in quanto sopravviene il pensiero, che è lo stesso pensiero di prima, ma più concreto, più attuale, più nostro, più pensiero. pensiero. Poiché, si badi, il pensiero non è, poniamo, di uno che si chiama Camillo di Cavour che concepisce, egli, nella genialità del realismo politico, in conflitto con l’utopismo o l’astratto idealismo dei rivoluzionari, il futuro regno d’Italia, e lavora quindi a far convergere la realtà attuale al raggiungimento del suo scopo. L’individuo empirico nella sua particolarità non fa nulla. Il pensiero del genio è il pensiero non pure del suo popolo, ma del suo e degli altri, e del mondo, del Tutto: un pensiero perciò, che passa da sé a sé nella crisi del Tutto che si concentra nell’autoconcetto in quanto si può dire che preconcepisca un disegno e lo attui. E così il genio; e così ogni povero mortale, per quel tanto che egli pure riesce a fare di suo nel mondo. Qui pone una questione tra le righe, perché non la esplicita: nell’atto c’è già il tutto. Quindi, una mia idea che vuole concretizzare l’atto è come se vedesse in questo tutto quello che ancora altri non vedono. È la stessa cosa che accadde agli eleati: hanno visto qualche cosa che altro non vedevano, che non hanno più visto per duemila anni; poi, all’improvviso, ecco che appare! Qui si pone ancora una questione di un certo rilievo. In effetti, non c’è nulla di “nuovo”, perché ciascuna cosa è già nel tutto, è già nel concreto. Non può non esserci, perché se non ci fosse sarebbe fuori dell’atto di parola e, quindi, non esisterebbe. Capitolo IV, Il sapere. Paragrafo 1. Conoscere e sapere. Se pensare è parola certamente modesta, sapere è parola palesemente superba. Eppure, escluso l’ignoto come inattuale, superato già il mito dell’apodissi raffigurante una serie virtuale di concetti non posseduti, immedesimato il pensare col conoscere, la conclusione par questa: che chi pensa sa, e che il pensiero è sapere: non cognoscere, ma nosse. Non conoscere ma sapere. Qui fa una distinzione che a lui serve per una serie di buoni motivi. Il conoscere infatti si può distinguere dal sapere nell’ipotesi che ci sia il noto e l’ignoto, entrambi attuali, di guisa che, oltre la sfera luminosa del già conosciuto, rimanga la tenebra ancora da illuminare. Chi conosce sa e non sa, è ignorante e sapiente in una: chi sa possiede l’oggetto, e non gli cale più d’altro, rispetto almeno all’oggetto che sa. La conoscenza importa una relazione tra due termini, soggetto e oggetto: una relazione, che non è già posta, ma si pone, e per cui l’opposizione dei due termini si risolve. La scienza ha risoluto questa opposizione, e l’oggetto è diventato interno al soggetto: il quale infatti cessa dal ricercare, osservare, sperimentare e insomma proseguire il processo per cui si perviene al sapere via via che si viene sviluppando la conoscenza. Si conosce per sapere; e finché non si sappia, si studia e s’indaga per venire in possesso del sapere. Ma ottenuto il sapere, il mezzo che s’adoperava a questo fine diventa inutile. E se oltre il noto, per chi conosca, non si dà ignoto, parrebbe che la conoscenza si dovesse risolvere nella scienza: in questo stupendo dono degli dèi, ai quali infatti soltanto può competere (o così pare) un attributo che assolva dal pensare che è pur lavorare, sforzarsi, tendere, attendere e pensare. Paragrafo 2. Il mito platonico del sapere. Il sapere dunque così determinato, quando comincia a concepirsi,… Il sapere è distinto dal conoscere. Il conoscere è relazione, il sapere è l’immediato. …non è la determinazione di un fatto o di una funzione reale dello spirito umano, bensì ideale vagheggiato come fine a cui lo spirito aspiri senza poterlo mai raggiungere. Ma un ideale così inteso si avvolge in una curiosa contraddizione. Per essere quell’ideale che sembra, non deve poter essere attuato mai: giacché, esso attuato, l’uomo, diventato dio, non potrebbe più vivere la vita della natura in cui l’essere è commisto col non essere. E perciò Platone lo colloca all’estremo limite della vita, oltre la morte, alla quale il filosofo, aspira misticamente come a liberazione dai limiti in cui l’anima è costretta nella vita materiale, dove la materia è non-essere e difetto. … La ragione di questa contraddizione, che è una delle più gravi che travagliano il platonismo e ogni filosofia intuizionistica, perché realistica, è nella immediatezza dell’ideale del sapere inteso come risultato del processo conoscitivo: immediatezza, per cui quello che si pone alla fine, si trova subito al principio. Immediato è quell’ideale appunto perché inteso come risultato, in cui perciò sia esaurito e quindi venuto meno il processo. Gli dèi oziano: Epicuro ha ragione. Ora un ideale così concepito, non essendo processo, anzi la negazione del processo, non sarebbe alla fine se non fosse al principio: poiché lungo il processo non si può avere altro che il principio (cognizione senza necessità e senza universalità, dalla quale non potrà mai derivare una cognizione necessaria ed universale). È il problema del sillogismo, di cui ha già parlato varie volte. Il sillogismo è chiuso in se stesso, è un circolo. Paragrafo 3. Persistenza di questo mito. …non v’è scienziato, in quanto tale, che non faccia miserevole pompa nell’atto stesso che si prosterna nella polvere innanzi all’Ignoto imperscrutabile, da cui proclama dovere l’intelletto umano rassegnarsi a restar sempre circondato, nella impossibilità di superare ogni barriera, e giungere all’abbagliante luce del vero. Lo scienziato non sa tutto; e già la sua scienza è quella scienza, in quanto si limita e toglie a proprio oggetto un oggetto limitato. Ma dentro a’ suoi limiti lo scienziato è superbo del sapere che lo mette al disopra del volgo profano: di un sapere, che è nel suo cervello come l’oro nell’arca dell’avaro; e costituisce la sua prerogativa, il suo privilegio, poiché conferisce al suo cervello la dignità che è propria del vero. Il quale non è nulla di personale e particolarmente addetto e relativo all’individuo, né all’uomo in quanto questo sia quel particolare essere che è soggetto del conoscere… Ma la scienza, nell’astrattezza dell’oggetto immediato, a cui, come scienza, si riferisce, è destinata a rimaner prigioniera del proprio dommatismo, affissa a quell’ideale di un sapere, che si può non possedere, ma, se si possiede, o che sia risultato, o che sia principio del processo dello spirito, non si può non possedere se non come sapere immediato. Questo è il mito del sapere: giungere a un sapere che è quello che è necessariamente, a questo punto, potremmo dire, fuori da un processo dialettico, per cui so esattamente come stanno le cose e nessun dio potrà confutarlo, perché neppure dio può contraddirsi. Come dicevano gli antichi, c’è qualche cosa oltre la quale nemmeno dio può andare, non può autocontraddirsi. Per cui se io so qualche cosa lo so con assoluta certezza: questo è il mito del sapere. Questo sapere è un mito, cioè la possibilità di giungere a un qualcosa che si presenta come immediato, quindi, non più come il risultato di un processo. Finché permane come il risultato di un processo, deve la sua esistenza a quel processo, per cui è un sapere che è mediato, non immediato; le cose stanno così come risultato di un processo. Ma questo processo è complesso, può essere sempre rimesso in gioco, in discussione, per cui il risultato può essere differente; mentre si suppone, e qui torniamo ad Anselmo, che se l’argomentazione è valida allora è anche corretta, cioè stabilisce la realtà delle cose e, quindi, dio esiste. Paragrafo 6. L’Eros. Né dotta ignoranza, né Eros platonico: il quale è bensì figlio di Poro e di Penia e quindi, anch’egli, così come si concentra nello spirito umano, misto di essere e non essere, abbondanza e difetto, e perciò scontento di sé: col gusto del divino, che però non possiede. Ma l’Eros di Diotima… E’ l’unica donna che compare negli scritti di Platone. …presuppone fuori di sé le idee, a cui aspira. Le presuppone al principio e alla fine, immediatamente. Ed egli ne viene e vuol ritornarvi; ma ne è lontano, e geme della miseria della madre: è una disperata speranza, perché è della natura e dell’uomo naturale. Il quale, in quanto natura, non può purificarsi così da sublimarsi nell’idealità del puro essere. La dialettica dell’Eros è una dialettica, apparente in quanto il vero essere è di là da essa, e quello che è in essa immanente è un’ombra del vero essere. Qui c’è la teoria di Platone: ciò che è immanente è un’ombra dell’idea. La nostra dialettica invece stringe insieme il vero essere al suo non-essere; e se anche per noi l’essere è sapere, e quindi il non-essere ignorare, l’oscuro, crasso, sordo e opaco ignorare in cui dorme lo spirito come inerte natura meccanica, ecco il nostro Eros desideroso non d’altro che di se stesso: speranza eternamente compientesi. Lo spirito, non avendo l’essere fuori di sé, ama se medesimo, il suo essere; e lo ama, anch’esso, non lo possiede, perché questo suo essere si pone come unità di sé e del suo altro; ed è, non essendo; e diviene. E l’amore di sé è amore di questo suo divenire, onde si attua e pone attuosamente il proprio essere. Essere dinamicamente se stesso, questo il suo essere: questo il suo atto, l’Eros, il vero Eros. Come dire che è il pensiero che ama se stesso, perché è tutto ciò che ha. Potremmo dirla in modo più spiccio: perché è la sola cosa di cui dispone, se stesso, non ha altro. Ecco perché non può che amare se stesso. Paragrafo 8. Volere e sapere. …conoscere la verità non è possibile, in nessun campo, senza che l’oggetto in qualche modo non s’immedesimi col soggetto, e non sia lo stesso soggetto nella sua dialettica. Così il volere non poté mai esser ravvisato nella sua verità, nella sua vita, finché il pensiero, che lo considerava, si fermò nella distinzione dell’analisi senza sintesi e il volere tenne innanzi a sé (come la passione, l’amore) quasi mero oggetto suo. Sicché si fissò la distinzione tra teoria che è spirito condizionato dal proprio oggetto, presupponente una realtà che non è suo prodotto, e prassi o spirito incondizionato, libero, creatore del proprio oggetto (bene o male, come mondo morale): la teoria, che oppone lo spirito come spettatore al suo mondo, e la prassi, che vede nello spirito l’attività con cui anch’esso concorre alla formazione dell’oggetto, instaurando al di sopra della natura un mondo impossibile senza l’azione spirituale. Qui si è aperta una distanza tra lui e Marx ormai irriducibile. La prassi per Marx è il fare, l’operare del lavoratore, è il lavoro concreto. Lavoro nel quale, sì, il lavoratore si immedesima, lui stesso diventa lavoro, ma la prassi in Gentile non è altro che l’autoctisi, l’autoprodursi. È questo che fa il pensiero: autoproduce se stesso e, quindi, tutto, perché l’Io è tutto, non c’è qualcosa fuori dell’Io, non c’è qualcosa che sia fuori del pensiero. Paragrafo 9. Autoprassi. La prassi nella sua identità con la teoria, qual è qui intesa, non concetto di una realtà presupposta, non sintesi, ma autosintesi e però autoconcetto, non è la prassi come volgarmente s’intende, produzione di un oggetto che si distingua dal soggetto, e se ne renda indipendente: il regno d’Italia, opera del Cavour e che sopravvive al suo autore. Tale prassi è l’analogo del concetto astratto del logo astratto; e deve cadere insieme con questo astratto concetto, onde s’oscura la netta visione del Tutto. Come il vero concetto è autoconcetto, la vera prassi è autoprassi. Non v’è né oggetto di pensiero, né oggetto di prassi che sia fuori dell’Io, o possa comunque ritenersi quasi un precipitato del suo agire. Qui non so se aveva in mente Marx, forse sì, forse no, non importa, in ogni caso fra le righe c’è una forte critica a Marx. Per Marx la prassi è il lavoro del soggetto che si manifesta in un oggetto che è fuori del soggetto. Chi fa, non fa altro che se stesso: se stesso nel suo particolare (onde ciascuno è figlio delle proprie azioni), ma se stesso sopra tutto nella sua universalità, come Io assoluto: poiché quel bene, che, come abbiamo accennato, è il prodotto dell’attività pratica non può essere altro che la personalità assoluta. Come dire: ciò che io faccio sono io. Lo dice qui: Chi fa, non fa altro che se stesso. La quale sola è creativa, e creativa di se medesima; e alla quale convien guardare per non intricarsi nella via senz’uscita dell’empirismo che, opponendo persona a persona e la persona alle cose, scava il più delle volte necessariamente un abisso tra l’ideale e il reale, le intenzioni e le azioni, la teoria e la pratica. La critica a Marx qui appare palese. Come se Marx condannasse la teoria a vantaggio della prassi. La prassi per Marx è ciò che determina l’idea. Come dire che ciò che faccio determina quello che penso. In parte è vero, il fare modifica, ma non farei niente se non pensassi. Il mondo sempre è quello che noi lo facciamo: assolutamente, quello che lo facciamo come pensiero assoluto; relativamente, in quanto pensiero d’una personalità relativa, cioè considerata da un punto di vista relativo. La prassi, come autoprassi dell’Io esattamente concepito, dell’Io creatore del Tutto, cioè di se stesso, è quel medesimo pensiero divino, che la teologia cristiana ben vide coincidere con la divina attività creatrice. Qui c’è Hegel: finalmente mi accorgo che tutto ciò che ho attribuito a dio, in realtà, sono io. Paragrafo 10. Critica pratica dello scetticismo. Ma nessuna forma di critica è apparsa mai più efficace contro lo scetticismo di quella che consiste nella prassi. E ogni scettico, infatti, pur perfidiando nella propria tesi negativa da un punto di vista astrattamente teoretico, ha finito sempre col riconoscere che una soluzione del problema intellettualmente insolubile ci sia nella vita, come s’è detto;… Torniamo a ciò che dicevo all’inizio: Achille che non raggiunge la tartaruga, ma la raggiunge, perché la mia esperienza dice che la raggiunge. Lo scetticismo insomma, che non ha una soluzione dalla teoria, riconosce volentieri che la soluzione c’è nella pratica: in quello stesso mondo che, quantunque inintelligibile, gorgoglia nel fondo della nostra natura,… Non sta parlando della teoria dei limiti, però in qualche modo ne sta parlando. Cioè, il problema si risolve comunque, non è che moriamo per questo, come si narra di Fileta di Coo, che morì a causa di un paradosso, non riuscendo a risolverlo. Soluzione, che non smonta per altro la macchina dello scetticismo; perché lo scettico, riconoscendo che si vive, e cioè non ci si arresta nella vita a quella έποχή che egli raccomanda pel pensiero, non però è condotto o costretto a riconoscere che questa vita la quale nolentem trahit sia intelligibile. Nonostante tutto, anche se lui non vuole, la vita lo trae. Ma la smentita che la vita dà al pensiero scettico, è critica logicamente valida ed efficace quando questa distinzione s’è chiarita insussistente: quando il pensiero è prassi, e la prassi è quello stesso pensiero a cui pure lo scettico si affida. … Questa prassi critica dello scetticismo è dunque autoprassi: la stessa autoprassi dell’autosintesi. La quale infatti allo scettico che si risolve disperatamente a non pensare, pur non potendo arrestare in sé la vita, ha fatto sempre lo scherzo d’irrompere essa stessa, come autonoesi, nella vita della sua stessa voluta sospensione del pensare. Questa infatti non si sospende se non pel pensiero che afferma, con quella assoluta imperatività della ragione che è propria dell’autosintesi, la necessità di non pensare. Non è infatti l’έποχή scettica tutta la filosofia dello scettico contratta in quell’atto mentale? Sospendere il pensiero, ma per poterlo sospendere devo pensare, non ho altre vie. Paragrafo 11. Esperienza pura e relazione assoluta. Questa unità di autonoesi e autoprassi… L’autonoesi è l’autoconcetto; l’autoprassi non è che ciò che l’autonoesi produce, è il prodursi da sé del pensiero. …ci dà il concetto dell’esperienza pura, che non è l’esperienza immediata depurata dei concetti e di ogni soprastruttura arrecatavi dall’elaborazione del pensiero logico, ma il pensiero inteso come affatto scevro di ogni necessità di dati che lo trascendano, e in questo senso assolutamente apriori, benché, anzi perché non immediato. Quella esperienza pura, – che è forma e materia, perché unità e molteplicità, Io e non-Io, in quanto può intender se stessa soltanto perché si produce, – non è pura conoscenza in opposizione al reale, ma conoscenza che è realtà: conoscenza di sé in cui la realtà si realizza. Questa pura esperienza, contenente in sé la critica perentoria dello scetticismo, non è empirismo, né soggettivismo, né relativismo. L’empirismo suppone, come abbiam visto, una realtà esterna al soggetto, quantunque tenda a risolverla nelle forme subbiettive della sensazione e della conoscenza che nella sensazione ha la sua base immediata. E a questa tendenza obbediscono pure il soggettivismo e il relativismo, che, distinguendo realtà in sé e realtà conosciuta, e restringendo a questa il diritto del conoscere, questa fanno interna al soggetto o misurata da esso. L’esperienza pura non conosce altra realtà che se stessa: una realtà, che non si presuppone, ma si pone. Sta sempre qui la questione: sì, possiamo parlare di realtà, ma questa realtà non è presupposta, è posta mentre la penso, perché non c’è prima e non ci sarà dopo. La quale è bensì relativa al soggetto, in quanto è per l’appunto lo stesso soggetto; e in divenire poiché il soggetto è divenire. Essa è perciò relativa, non perché si riferisce a un termine da cui dipenda, ma perché consiste in una realtà che è relazione in se stessa. Non relazione di sé ad altro, ma di sé a sé. È la relazione tra l’in sé e il per sé di Hegel, né più né meno. La misura dell’esperienza pura non è fuori di essa, ma in essa: è la verità che misura se stessa. Potremmo porre la domanda: è l’infinito che misura se stesso? È il finito che misura se stesso? Queste due cose, che sono lo stesso, sono l’unica misura. In quanto l’esperienza pura è quest’assoluta relazione con se stessa, il sistema della pura esperienza, si potrà pur dire relativismo: ma dovrà intendersi relativismo assoluto, che non concepisce la realtà immediata, ma come pensiero pensante, realtà mediata dentro se stessa, principio e fine di sé, alfa e omega, cioè appunto relazione. E cioè la relazione tra Io e non-Io, né più né meno.