INDIETRO

 

 

17 gennaio 2024

 

Aristotele Topici

 

Secondo voi, che cosa ci sta dicendo Aristotele? Qual è la questione centrale in tutto ciò? Perché dovremmo sapere che cosa è vero e che cosa è falso? A che scopo? Aristotele non affronta mai questa questione, anche lui pensa, immagina, considera che sia ovvio il fatto che gli umani vogliano sapere la verità. Qualcosa dice, ma tra le righe, mai esplicitamente; anche perché al punto in cui è parlare della verità, nel senso dell’έπιστήμη, diventa molto problematico. Lui fa finta che non lo sia, ma sicuramente non poteva non saperlo. Dunque, perché gli umani vogliono conoscere la verità? In fondo, è una questione antica, ma rimane la domanda: che se ne fanno? Sapere se una affermazione è vera oppure falsa è la condizione perché sia utilizzabile. Nel caso in cui si mostri né vera né falsa, allora non è utilizzabile. E questo ci porta immediatamente a considerare che la necessità di sapere se qualcosa è vero o falso è la necessità stessa di potere utilizzare qualcosa. Qualcosa deve essere vero o falso per essere utilizzabile; che poi sia vero o falso è irrilevante. Noi diciamo che è vero – qui Aristotele ce lo conferma continuamente – quando ciò che ascoltiamo inerisce a ciò che crediamo; se, invece, non inerisce a ciò che crediamo, allora è falso. Quindi, in ogni caso, sia che sia vero sia che sia falso ciò che ascoltiamo, conferma che ho ragione e che l’altro ha torto. Tutta la discussione che fa anche qui Aristotele verte proprio su questo, cioè sul fatto che qualche cosa appartenga oppure no all’universale. Questa cosa è importante. Se appartiene all’universale, ciò vuol dire che può essere affermato; se appartiene al particolare, certo, può essere affermato ma come qualche cosa di contingente, cioè, che non può essere utilizzato per costruirci altre argomentazioni; come dire che quella cosa è accaduta, certo, ma come un evento sporadico che potrebbe non accadere mai più; quindi, non possiamo fare affidamento su quella cosa, mentre sull’universale è possibile fare affidamento, perché l’universale è un’affermazione sub specie æternitate. Da qui la necessità di verificare, come fa qui Aristotele, se una certa affermazione rientra oppure no nell’universale; se rientra o inerisce all’universale, allora posso affermarla e posso utilizzarla per costruire altre proposizioni.

Intervento: La verità serve per costruire altre proposizioni…

Sì. È ciò che lui incontra nelle Categorie, dove parla in modo più preciso e potente del πρός τί, della relazione, e cioè come la sostanza non sia in sé e per sé ma sempre relativamente alle categorie, cioè, a ciò che se ne dice. Se è così come dice lui allora quando cerchiamo la sostanza di qualche cosa troviamo altro, siamo immediatamente spostati su altro. Quindi, tenendo conto di queste cose che Aristotele non poteva non sapere visto che le ha scritte… Sempre che il testo sia suo, perché ancora oggi ci sono delle incertezze. Per esempio, rispetto alle Categorie avevamo visto che Trendelenburg lo metteva in dubbio perché il modo in cui parla Aristotele sembra differire dallo stile utilizzato negli altri scritti, ecc. Si può discuterne per millenni, come d’altra parte è stato fatto, senza aggiungere null’altro, visto che non c’è Aristotele a confermare. Ma anche se ci fosse, non potremmo neanche in questo caso essere sicuri perché potrebbe mentirci. Dicevo, dunque, che nelle Categorie Aristotele pone la questione radicale, quella che in effetti determina poi tutto l’andamento dell’Organon. Di una qualunque cosa posso soltanto dirne altro, non posso mai dire la sostanza se non attraverso altro, perché le varie categorie (quantità, qualità, relazione, ecc.) non sono la sostanza, sono un’altra cosa, sono appunto la qualità, la quantità, ecc., sì, della sostanza ma se a questa sostanza io levassi tutte le sue qualità levo anche la sostanza. È questa la questione tragica che incontra Aristotele: se tolgo tutte le categorie, scompare anche la sostanza; come dire che, se tolgo tutte le determinazioni a qualche cosa, anche questo qualche cosa scompare, perché è fatto delle sue determinazioni. Questo era il problema di Platone quando voleva cogliere l’ente per quello che è, senza nessuna determinazione. Ciò che risulta e che risalta è che Aristotele si trova a dover parlare dell’opinione, della δόξα, cercando, come abbiamo visto nelle pagine precedenti, di distinguere il sillogismo scientifico da quello dialettico. Abbiamo però rilevato che questa distinzione non è che regga un granché perché anche il sillogismo scientifico o dimostrativo si appoggia sull’analogia. E l’analogia è l’opinione. Senza un’opinione non costruiamo nessun sillogismo; senza sillogismo non c’è nessuna conoscenza. Eppure, Aristotele ha continuato a cercare di tenere separate le due cose; queste due cose, che in tutto l’arco del pensiero umano, sono sempre state tenute ben separate. Ovviamente, sono quelle due cose di cui parla Parmenide: l’uno e i molti. L’uno e i molti ha sempre costituito e continua a costituire il problema, non ce ne sono altri. Wittgenstein diceva che non esistono problemi filosofici ma solo problemi logici; non è vero, non esistono nemmeno problemi logici. La logica è il problema, cioè, il modo in cui pensiamo; e il modo in cui pensiamo è quello che ci costringe a separare l’uno dai molti perché, se non facciamo questa operazione di separare l’uno dai molti, noi non parliamo perché non possiamo determinare nulla. Affermando qualche cosa ciò che affermo lo pongo come uno; poi, dicendolo, naturalmente intervengono i molti perché deve essere in qualche modo determinato e per poterlo determinare ho bisogno dei molti. Quindi, il problema è quello sollevato da Eraclito, non ce ne sono altri: l’uno è i molti. Posta in questi termini è chiaro che è una questione teoretica nel senso che, potremmo anche dirla così, non è praticabile perché, se io tenessi conto ogni volta che apro bocca che l’uno è i molti, non potrei più parlare, mi troverei di fronte a ciascuna affermazione come ᾂπειρον, l’indeterminato e l’indeterminabile, e non potrei quindi affermare alcuna cosa, nemmeno che qualcosa è indeterminato. Però, Eraclito l’ha detto: l’uno è i molti. Cosa ci diceva con questo? Ci diceva ciò che nei millenni successivi, compreso Aristotele, si è cercato di cancellare. Cioè, Eraclito ci sta dicendo che non possiamo sapere di che cosa stiamo parlando. Questo impedisce di parlare? No. Quanti al mondo sanno di che cosa stanno parlando? Eppure, non si fermano mai. Quello che ha detto Eraclito e che Aristotele, non solo naturalmente, tenta di arginare è che qualunque affermazione che facciamo nasce dall’opinione e muore nell’opinione, rimane opinione. Cosa significa questo? Che viviamo di opinioni, naturalmente. Che si tratti di come sarà il tempo domani o della teoria della relatività è lo stesso, sono comunque opinioni, si pensa che sia così. Perché si raccontano le opinioni? Anche quando si ha la consapevolezza della assoluta arbitrarietà e infondatezza e insostenibilità di un’opinione, comunque sono importanti. Sono importanti non per il contenuto dell’opinione, ciò che per così dire si vuole trasmettere è soltanto il pretesto per parlare, quindi, per enunciare una ipotetica e possibile verità. Ma se si toglie la necessità che gli umani hanno di porre, proporre, il più delle volte imporre la propria opinione, che cosa rimane? Rimane Dio, nell’accezione aristotelica del termine, e cioè un pensiero che pensa se stesso, che non può evitare l’opinione ma la accoglie per quello che è, e cioè come quella serie di considerazioni che sono necessarie per potere avviare qualunque pensiero. Perché Aristotele diceva, rispetto alle opinioni, che è meglio non mettersi a interrogarle ulteriormente? Perché troviamo altre opinioni, poi altre opinioni, poi altre opinioni, non possiamo trovare nient’altro che questo. Questo toglie quindi la possibilità che la mia opinione possa essere vera. Perché toglie questa possibilità? Perché non c’è il vero, da nessuna parte. Il pensiero epistemico, come tradizionalmente viene chiamato, cessa di esistere, anzi, propriamente non è mai esistito. Rimane Dio, non il voler esserlo ma il trovarcisi in quella posizione. In fondo, cosa fa il pensiero teoretico? Si interroga principalmente su una cosa, e cioè questa: quali sono le cose a cui occorre che io creda per potere affermare una certa cosa, cioè, quali sono le opinioni di cui mi avvalgo per potere affermare una qualunque cosa, e le interroga. Come direbbe Heidegger: porre l’opinione come problema e non come qualcosa che può essere vero o falso; no, di fatto, non è né vero né falso, tutto ciò che io penso, che opino, non è né vero né falso. È questo che dice il pensiero teoretico, perché non può né essere vero né falso, nel senso che non ha un referente rispetto al quale confrontarsi, perché è l’opinione che crea il vero e il falso, cono le parole che creano il vero e il falso, il vero non è un ente di natura. Siamo all’inizio del Libro Quarto. A pag. 1323. Dopo queste cose, bisogna occuparsi del genere e della caratteristica peculiare. Il genere è l’universale; la caratteristica peculiare è una qualsiasi che rende una cosa quella che è e che potremmo vagamente accostare all’essenza. Questi, infatti, costituiscono gli elementi base delle definizioni. Sì, è vero, ma si è dimenticato di dire che le definizioni costituiscono gli elementi base del genere, dell’universale. Sono questi meccanismi che rendono qua e là curiose le affermazioni di Aristotele. Dice che il genere serve per stabilire una definizione, certo, ma il genere come lo costruiamo senza una definizione. Questo è il senso, uno, dell’affermazione di Eraclito, ἒν πάντα εἰναι, l’uno è i molti. Qui lo ritroviamo: il genere ci serve per stabilire la definizione, ma la definizione è indispensabile per stabilire il genere. In realtà, però, le indagini dei dialettici si occupano solo raramente di questi elementi “in quanto tali”. Deve sempre dire che gli altri non hanno fatto un granché. Quando dunque viene posto un genere di qualche realtà esistente, in primo luogo si devono considerare tutte le realtà che partecipano di quel genere che abbiamo detto, chiedendosi se qualcuna non partecipa di esso, come abbiamo fatto nel caso dell’accidente. Abbiamo il genere, l’universale, e dobbiamo verificare se tutte le realtà ineriscono a questo universale. Quali sono quelle che non partecipano? Ecco il quadrato logico. Tenete sempre a mente il quadrato logico e avete la soluzione di tutto quanto. Aristotele non fa altro che ripetere il quadrato logico. Quando un genere, un universale, viene messo in discussione? Quando c’è una particolare negativa – se l’universale è affermativa – e la mette in discussione: “tutte le A sono B”, no, questa A non è B, per cui in questo caso l’universale viene invalidato, confutato. Tutte le pagine che seguono vertono su questo, sulle varie forme e configurazioni del quadrato logico. Per esempio, se il bene viene posto come genere del piacere, bisogna chiedersi se c’è qualche piacere che non sia un bene… Cioè, la particolare negativa che invalida l’universale affermativa che dice che ogni piacere è un bene. Poi si deve esaminare se tale genere non si attribuisce all’essenza di tale realtà, ma se si predica di essa solo come accidente… Se si predica come accidente vuol dire che questa cosa, sì, è valida ma adesso, in questo momento; quindi, non la posso utilizzare per costruirci sopra una teoria. A pag. 1325. Dobbiamo, poi, chiederci se il genere e la specie non rientrano nella stessa divisione, o se, invece, risultino essere la specie “sostanza” e il genere “qualità”, oppure la specie “relazione” e il genere “qualità”. Dunque, la specie sostanza e il genere qualità. La specie è un qualche cosa che deve essere determinato, che si determina attraverso altre cose. Vedete immediatamente come anche qui ritorni la questione dell’uno e dei molti. La specie in questo caso viene posta come uno. La specie è qualunque cosa che si incontri, che si vede, sarebbe l’astratto di Severino. Ora, il genere deve includere per forza la specie, perché il genere è l’aspetto più grande, onnicomprensivo, che comprende tutte le specie che hanno la medesima caratteristica peculiare, per usare i termini di Aristotele: tutte queste specie le raggruppiamo e ne facciamo un genere, attraverso l’induzione. Cosa significa attraverso l’induzione? Che ci sembrano simili e, quindi, senza farla tanto lunga, le poniamo come simili, se non addirittura come uguali. Per esempio, la neve e il cigno sono sostanze, mentre il bianco non è una sostanza ma una qualità, cosicché il bianco non costituisce il genere né della neve né del cigno. D’altro canto, poiché, da un lato, la scienza fa parte dei relativi, mentre dall’altro il bene e il bello sono delle qualità, allora il bene non costituisce il genere della scienza, e neppure il bello;… I relativi (πρός τί) sono delle categorie. Si mantiene quindi sempre il problema della cosa, dell’uno, della cosa che vedo, la specie: io vedo la specie, non vedo il genere, vedo il cigno, vedo la neve, ma non vedo il bianco come genere. Aristotele parla della neve, ma qui Trendelenburg sembra avere ragione, cioè, diventa il sostantivo, il nome che necessita delle varie attribuzioni, dei predicati, per essere qualcosa. E ancora: dobbiamo esaminare se è “necessario” oppure “possibile” che il genere partecipi di ciò che è stato posto all’interno del genere. Ma “partecipare” significa “ricevere la definizione di ciò che è partecipato”. Non che prende parte della cosa – questo non c’è mai in Aristotele – ma riceve la definizione da ciò che è partecipato. Quindi, se rientra nella definizione che noi abbiamo data, allora va bene; se non rientra nella definizione… È come se tutto si svolgesse a livello delle categorie, dei prædicamenta, come se non ci fosse nient’altro che questo. Andiamo a pag. 1365. Qui sta dando dei consigli a chi si trova preso in un agone dialettico. Alcune volte, poi, l’avversario, invertendo l’ordine, pone il genere come differenza e la differenza, invece, come genere, considerando, ad esempio, lo “sbigottimento” come un “eccesso di stupore” e la “convinzione” come una “saldezza di opinione”. Infatti, né l’eccesso né la saldezza costituiscono dei generi, ma piuttosto delle differenze… Sì e no. Dipende da come costruiamo la frase, dipende dalla definizione che noi diamo e che, come sappiamo, non può essere dimostrata. Dipende da tutto questo, e cioè da come si stanno combinando fra loro le proposizioni. …infatti, sembra che lo sbigottimento consista in uno stupore eccessivo e la convinzione in un’opinione salda… Sarà così oppure no? Sembra. Questo “sembra” è veramente il pilastro di tutto l’Organon. …in modo che lo stupore e l’opinione risultano costituire dei generi mentre l’eccesso e la saldezza si configurano come differenze. Lo stupore l’opinione risultano essere dei generi, l’eccesso e la saldezza no. Perché no? Perché Aristotele ha stabilito così, non ci sono altri buoni motivi. Inoltre, se uno stabilirà come generi l’eccesso e la saldezza, si darà il caso che oggetti inanimati credano e siano sgomenti. Infatti, la saldezza e l’eccesso di ogni realtà si presentano, rispettivamente, negli oggetti di cui essi sono saldezza o eccesso. Se, quindi, lo sbigottimento è un eccesso di stupore, nello stupore si presenterà lo sbigottimento, cosicché lo stupore si sbigottirà. A pag. 1375. Se, ad esempio, poniamo che una certa nozione sia genere nella stessa misura in cui lo è un’altra nozione… Cioè, due generi. …se una delle due sarà genere, lo sarà anche l’altra. E allo stesso modo, se poniamo che una certa nozione sia genere più di quanto lo sia un’altra nozione, se sarà genere quella che lo è di meno, lo sarà pure quella che è genere di più… Di che cosa sta parlando Aristotele? Che qualcosa sia più o meno genere di un’altra: o è genere o non lo è. Ci sta dicendo che la cosa non è così semplice, perché in effetti il genere è costruito dall’analogia, dall’induzione e, quindi, potremmo dire, parafrasando Borges, che il genere è una costruzione fantastica, è l’animale fantastico della logica aristotelica. Il genere non esiste in quanto tale ma è una costruzione che si inventa per poterla utilizzare in un certo modo; così come i logici si inventano nella logica formale degli assiomi che servono per dimostrare certi teoremi. Tra l’altro, una volta che sono stati dimostrati, cosa succede? Niente, però, questi assiomi sono inventati proprio per potere dimostrare quel determinato teorema. …ad esempio, se poniamo che la capacità sia genere della continenza più di quanto non lo sia la virtù, se sarà genere la virtù, lo sarà pure la capacità. /…/ …posto, poi, che una certa nozione sia specie del genere stabilito “più” di quanto lo sia un’altra nozione, se sarà specie quella che sembra esserlo di “meno”, a fortiori lo sarà quella che sembra esserlo di più.

Intervento: È degno di nota che lui insista su questo aspetto. Di fatto, lui ci sta spiegando come costruire l’universale e poi di dedurre dei particolari.

Sì. D’altra parte, tutti gli Analitici sono costruiti su questo. L’universale è una costruzione e lui tenta ogni tanto di dire che questa costruzione è legittimata da qualche cosa, ma è un tentativo non riuscito perché è legittimata da che? Dal più o dal meno? A pag. 1377. Inoltre, è difficile distinguere dal genere una nozione che si accompagna e consegue sempre a un’altra senza essere reciprocamente convertibile con essa. Il caso di queste due nozioni si presenta quando la prima di esse consegue a tutte le realtà contenute nella prima, così come dall’“assenza di vento” consegue la “quiete” e al “numero” consegue la “divisibilità”, mentre non accade il contrario (infatti, non tutto ciò che è divisibile costituisce un numero, né ogni quiete costituisce un’assenza di vento). Posto ciò, sarà opportuno che chi discute si serva di tale nozione che consegue sempre ad un’altra senza stare con questa in un rapporto di convertibilità, come se si trattasse di un genere, ma sarà anche opportuno, nel caso in cui ci sia un altro a proporre come genere una nozione come questa, che chi discute non acconsenta in ogni caso. Non si acconsente, e bell’e fatto. È chiaro che le modalità di discussione, sollevate qui nei Topici, sono sempre strettamente legate al quadrato logico. Io pongo una universale affermativa e i modi per avversarmi sono due: o mi viene opposta una universale negativa – non è vero che tutte le A sono B, nessuna lo è –, oppure mi oppone la particolare negativa, che contraddice la universale affermativa; quindi, da una parte dico la contraria, dall’altra dico la contraddittoria, che è molto più infida della contraria, perché la contraria nega tutto quanto (nessuna A è B), mentre l’altra dice che non tutte le A sono B, ce n’è una che non lo è. Non c’è nulla in tutto ciò che dice che non sia tratto dal quadrato logico. A questo proposito si può obiettare che “ciò che non è”. Consegue a tutto ciò che “diviene” (infatti, ciò che “diviene”, “non è”) senza essere reciprocamente convertibile (infatti, non tutto ciò che “non è”, “diviene”), e tuttavia ciò che “non è” non costituisce genere di ciò che “diviene”. Infatti, di ciò che “non è”, non si dà in assoluto alcuna specie. Sta dicendo che ogni genere, per essere tale, deve comportare delle specie, sennò è genere di che cosa? È genere di una serie di specie. Dice tra parentesi che non tutto ciò che non è diviene. È vero, ma a quali condizioni? Qui interviene il pensiero teoretico: a quali condizioni posso affermare che non tutto ciò che non è diviene?

Intervento: Solo se è posso saperlo.

Anche rispetto al divenire stesso: come faccio a sapere di ciò che non è? Posso determinarlo solo con qualcosa che è, e a questo punto diventa qualcosa che è. E così il divenire: come lo determino? Se è divenire, potremmo dirla con Anassimandro, è πειρον. Quindi, teoreticamente questa affermazione non potrebbe essere formulata. Il problema è che non solo questa non potrebbe essere formulata, ma nessun’altra. Se parlando, pensando, io non sospendessi il pensiero teoretico, non potrei affermare niente; è dopo che ho affermato qualcosa che interviene il pensiero teoretico a chiedere conto delle affermazioni che ho affermate. Quindi, prima devo affermare qualcosa – la δόξα, il pensiero comune, qualunque esso sia –, dopo può intervenire il pensiero teoretico a domandare delle condizioni di affermabilità di ciò che ho affermato. Tutto questo ci porta ancora di più a pensare a che cosa accade di fatto quando stiamo parlando. Noi continuiamo a dire cose su cose ma non diciamo niente; però, tutte queste cose che diciamo senza dire nulla ci sono utili per la volontà di potenza, perché affermandole noi affermiamo la nostra volontà di potenza. È per questo che è totalmente irrilevante su che cosa verta l’opinione, ma è importante che venga manifestata. Che sia pro o contro non importa, è come il vero e il falso: l’importante è che sia una cosa o l’altra perché, se non è una cosa o l’altra, allora non è utilizzabile, non posso sapere chi è il nemico, non posso sapere chi è bravo e chi cattivo. Il capitolo successivo, il quinto, parla della caratteristica peculiare di una determinata realtà. A pag. 1387. La caratteristica peculiare si dà o “per sé” e “senza limitazioni di tempo”, oppure “rispetto ad altro” e “secondo un certo tempo”. Fa un esempio bizzarro. Ad esempio, la caratteristica peculiare, “per sé”, dell’essere umano consiste nel fatto di essere un “animale docile per natura”.