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17/1/1996

 

Un paradosso compara elementi non comparabili tra loro? I paradossi di Zenone danno per acquisita la misurabilità dell’infinito. Parlare di infinito è già un paradosso, come so che una successione è infinita se per definizione non la posso misurare? Infinito come non misurabilità. Se pertanto introduco l’infinito, escludo la misurabilità, per definizione. Posso pensare l’infinito? Che senso ha questa domanda? Che cosa sta chiedendo? L’arciere scocca la freccia. La freccia si muoverà? Questione mal posta. Che la freccia si muova è un atto linguistico o un fatto immaginato fuori dalla parola? È evidentemente un fatto linguistico, e pertanto la freccia si muoverà soltanto nella parola. Soltanto nella parola le cose possono accadere, e accadono. Che io dica di uno spazio misurabile che è infinitamente divisibile, questo comporta soltanto che possa costruirsi una proposizione, proposizione che è contraddittoria perché la nozione di spazio misurabile comporta un uso differente da quello di infinito, l’inganno sta nella sovrapposizione tra ciò che per definizione è misurabile, e ciò che, sempre per definizione, non è misurabile. Dividere all’infinito una unità misurabile comporterebbe applicare a ciò che per definizione è misurabile, ciò che per definizione non è misurabile. Dicendo “per definizione” intendiamo una procedura linguistica. Ciò che vieta una procedura linguistica è di considerare una procedura linguistica non una procedura linguistica. Se parlo di infinito, allora mi trovo in quella procedura che non posso applicare a un’altra nel senso che in questo caso non produce nulla che possa essere utilizzato come procedura linguistica. Una procedura linguistica è tale in quanto produce altre procedure linguistiche con cui è connessa dal campo semantico del suo utilizzo. Infinito è non misurabile, non è “misurabile” più di quanto sia bevibile o combustibile, per una questione grammaticale. Lo spazio in quanto tale non esiste, è un elemento linguistico, se considero lo spazio misurabile, allora faccio uso di una procedura linguistica, se invece lo considero infinito, allora faccio uso di un’altra procedura linguistica. Esattamente come se dicessi che l’infinito è combustibile. Il fatto che l’infinito entri nel calcolo matematico indica che il calcolo matematico è una procedura che non è misurabile né non misurabile essendo la nozione stessa di misura. Il calcolo matematico applicato a se stesso, come nel caso dei paradossi di Zenone, si trova di fronte alla regressio ad infinitum come qualunque cosa che cerchi di ancorarsi a qualche cosa fuori dalla procedura per cui esiste. Lo spazio che dovrà percorrere Achille per raggiungere la tartaruga è misurabile se lo considero misurabile, non è misurabile se lo considero non misurabile. In altri termini, lo spazio misurabile non è non misurabile per definizione. La stessa questione si pone per la nozione di tempo, evidentemente. Dunque parlando della distanza che Achille deve percorrere per raggiungere la tartaruga, posso considerarla misurabile oppure no, a piacere, ma se la pongo come misurabile e applico un criterio di non misurabilità allora compio un’operazione singolare, esattamente come se cercassi di appiccare il fuoco all’infinito. L’equivoco rispetto alla nozione di misura, sorge dalla possibilità di giocare giochi differenti con lo stesso termine. Il paradosso di Zenone è un’antanàclasi. Ciascun paradosso è un’antanàclasi? Ma se gioco un gioco differente con lo stesso termine non è più lo stesso termine, anche se ha la stessa sequenza di fonemi, così come il famoso aneddoto di Proculeio, il lessema “aspettare” ha significati differenti anche se è lo stesso lessema, la retorica fornisce moltissimi esempi a questo proposito.

Consideriamo il paradosso del coccodrillo: un coccodrillo, dopo avere rapito il figlio a un padre, risponde, alla richiesta del padre di restituirglielo, che glielo restituirà se e soltanto se il padre indovinerà che cosa farà il coccodrillo. Che cosa farà il coccodrillo se il padre risponderà che il coccodrillo non glielo restituirà? Se non glielo restituisce allora il padre ha indovinato e deve restituirglielo, ma se glielo restituisce allora il padre non ha indovinato e quindi non glielo restituisce, ma se non glielo restituisce allora il padre ha indovinato e allora deve restituirglielo ecc. Naturalmente se il coccodrillo ha già deciso che cosa farà, allora la questione è semplice, se aveva deciso di non restituirglielo, allora glielo restituirà perché il padre ha indovinato e quindi ha vinto la partita. Nel caso del paradosso il coccodrillo non ha deciso nulla, e quindi si trova di fronte a un soluzione difficile da prendere, perché è come se chiedesse se è vera la proposizione che afferma che glielo restituirà, e allora il padre gli risponde che la proposizione che afferma che è vero che glielo restituirà è vera soltanto se è falsa. Cioè è vero che è falsa o, ancora, è vero che “p è falsa”. Senza le virgolette potrebbe sembrare che p se non p, ma l’uso delle virgolette indica che ciò che è vero è la proposizione che afferma che p è falsa, cioè si riferisce alla proposizione e non alla p. Di fronte alla risposta del padre che afferma che è vero che è falso ciò che il coccodrillo farà, il coccodrillo non ha nessuna soluzione praticabile, poiché ciascuna soluzione rincorrerà se stessa all’infinito. La risposta “non me lo restituirai” ponendosi come l’enunciazione di una proposizione vera, afferma che la proposizione che afferma che glielo restituirà è vera se e soltanto se è vera la proposizione che afferma che non glielo restituirà. Se il coccodrillo non ha già deciso, allora non potrà decidere in base alla risposta del padre, che gli dice che è vero che è falso ciò che farà.

Ci interessa questa questione perché anche in questo caso si tratta di utilizzare una procedura linguistica in un modo che non è consentito, in un modo cioè che impedisce di procedere, cioè ancora di potere produrre altri elementi linguistici che siano procedure linguistiche. Consideriamo più attentamente la questione. Se affermo di avere l’angoscia, o di avere un problema, qualunque esso sia, che cosa sto facendo esattamente? Sto mettendo in atto delle procedure linguistiche in prima istanza, che consentono di affermare ciò che affermo, e che procedono in modo tale per cui se affermo di avere un problema, non posso allo stesso tempo, e con lo stesso criterio, affermare di non avere un problema. Non posso, in altri termini, affermare che ho un problema se e soltanto se non ho un problema, mi troverei esattamente nella posizione in cui si trova il coccodrillo di fronte alla risposta del padre che afferma che il coccodrillo non gli restituirà il figlio. Cioè non posso procedere in nessuna direzione, il principio del terzo escluso me lo vieta, e pertanto se affermo di avere un problema, è necessariamente vera la proposizione che afferma che io ho un problema. Ma per potere procedere devo necessariamente affermare che la proposizione che affermo è vera? Il coccodrillo non può rispondere nulla perché non può affermare di non affermare. Ma allora se affermo di avere un problema, allora la proposizione che l’afferma è vera perché non posso affermare che non la sto affermando? Ma è vera la proposizione o ciò che afferma? E ciò che afferma è altro dalla proposizione che l’afferma?

“2.39 Supponiamo che affermi una qualunque proposizione p, come può avvenire che possa pensare che esista qualcosa nella proposizione p che esista fuori dalla proposizione p? Supponiamo ancora che creda che la proposizione p affermi l’esistenza di qualcosa che esiste fuori dalla proposizione p, facendo questo, posso immaginare la proposizione p come una sorta di indicatore, un indice, direbbe Peirce, che indica qualcosa che è fuori dalla proposizione p. Ora, o questo qualcosa si trova in un’altra proposizione, oppure è fuori dalla parola. Se è fuori dalla parola è nulla, se è in un’altra proposizione, allora la proposizione p indica un’altra proposizione che si troverebbe fuori dalla proposizione p. Dunque la proposizione p parla della proposizione q, la indica, ma è la proposizione p a parlare della proposizione q. Questo vuol dire che la proposizione q si trova inserita nella proposizione p? Ciò che sappiamo è che è p che ne sta parlando, ma allora l’esistenza di q è l’esistenza stessa della proposizione p? Ma la proposizione q può esistere anche senza la proposizione p. Senza alcun dubbio. Ma allora chi dirà la proposizione q? /.../ dicendo che la proposizione p parla della proposizione q, dico che la proposizione q di cui si tratta, esiste solo e unicamente nella proposizione p che ne sta parlando, perché se esistesse altrove, allora la proposizione q sarebbe detta da una proposizione r. La questione che si pone è se la proposizione r, possa dire, oppure no, esattamente ciò che dice la proposizione p. Questione importante, perché se la risposta è affermativa, allora un qualunque individuo x rimane identico qualunque sia la stringa in cui è inserito, vale a dire che è individuabile in quanto tale, e non dalla proposizione in cui è inserito, cioè esiste al di fuori della proposizione che lo dice. 2.41 Consideriamo la questione. Che cosa mi consente di definire un individuo x? Una proposizione, parrebbe, e dunque un individuo x è definito dalla proposizione in cui è inserito, ma potrebbe essere definito altrimenti, cioè da un’altra proposizione? Se non posso definirlo che attraverso una proposizione, allora sarà questa proposizione a farlo esistere così come mi si impone nel discorso, e quindi dovrà necessariamente la sua esistenza alla proposizione in cui è inserito. Ma se p è differente da r, che cosa mi fa pensare che l’individuo x, inserito in p, rimanga lo stesso se inserito in r? Quale criterio mi consentirà di stabilire l’uguaglianza che vado cercando? Se l’individuo x deve la sua esistenza alla proposizione p, se lo tolgo dalla proposizione p, cessa di esistere, e ciò che considererò nella proposizione q sarà un’altra cosa, un altro individuo y che trae la sua esistenza dalla proposizione q e che esiste unicamente nella proposizione q. La questione può porsi più semplicemente in questi termini: posso dire l’individuo x senza dire la proposizione p in cui è inserito, o più propriamente, da cui è detto? Posso dire qualcosa senza dirlo? No. E dire x fuori da p equivarrebbe appunto a dire qualcosa senza dirla, giacché non posso dire nulla se questo che dico non è inserito in una stringa linguistica, in una proposizione. Allora, se dico x, allora necessariamente dico p che lo afferma.”

Ciò che affermo è altro da ciò che mi consente di affermare, come dire che se affermo di avere un problema, posso dire che sia vera l’affermazione senza che sia vero che abbia un problema. Consideriamo quanto ci suggerisce Tarski, la proposizione “ho un problema” è vera se e soltanto se ho un problema, e cioè se la proposizione che afferma che ho un problema è vera. Ma per quanto affermato più sopra, non posso isolare una proposizione o un elemento da ciò che lo dice, cioè la proposizione “ho un problema” esiste nella proposizione che la afferma, che è appunto la proposizione “ho un problema”. Se dico che ho un problema, allora necessariamente dico “ho un problema”, e questo è necessariamente vero. Ma è vero anche che ho un problema? Che cosa diciamo dicendo che una proposizione è vera? La sola cosa che possiamo dire per ora è che una proposizione è vera quando non è auto contraddittoria, kantianamente. Se chiamiamo la proposizione “ho un problema” x, allora x è vera se e soltanto se è falsa non x. Con questo ci stiamo introducendo a una questione complessa, che attiene a ciò che si crede vero in ciò che si dice. Se infatti affermo di avere un problema, come abbiamo detto questa proposizione è vera in quanto l’ho detta e dicendola nego la contraria, nulla più di questo, nel senso che è vera la proposizione che si dice, ma ciò a cui rinvia, il suo senso, è un’altra proposizione la cui verità non può essere dedotta o inferita dalla precedente, è un’altra proposizione. Se dicessi quest’altra proposizione, la seconda proposizione sarà vera nella stessa accezione della prima, e cioè sarà vera in quanto nega la contraria e così di seguito. Stiamo dicendo che la verità, così come l’infinito, è un concetto auto contraddittorio? Forse, o forse dipende dall’uso che se ne fa. A quali condizioni allora posso credere che la proposizione che afferma che ho un problema può essere creduta? A condizione che questa proposizione si imponga senza rinvii, o come l’ultimo rinvio. Ma come può avvenire questo? Che cosa mi ancora a questo pensiero? È come se non volessi saperne di altri rinvii, come se andasse bene così. Qui, dal logico occorre passare al sofista.

Questo passaggio consiste nel condurre le questioni su esposte al discorso quotidiano, inserirle cioè come elementi del dire di ciascuno, invitandolo a compiere un passo importante, e cioè domandarsi che cosa comporta la proposizione che afferma che ha un problema. Supponiamo che ci risponda che comporta il desiderio che questo problema scompaia, allora il sofista sa, da quel momento, che l’avere il problema comporta l’attesa che il problema scompaia, nulla più di questo ma nulla di meno. Ma che sappia questo è molto importante, poiché essendo questo il rinvio della proposizione che afferma che ha un problema, questo ne è anche, per i motivi esposti in precedenza, il senso, cioè esattamente ciò che vuole dire l’avere il problema. Parrebbe molto semplice in questi termini, ma intanto dobbiamo accogliere questi. Sapere in prima istanza che il senso di quel problema è che il problema scompaia, dice anche qual è la funzione di quella proposizione che afferma che ha un problema, e cioè l’attesa che il problema scompaia. Allora il problema è tale in quanto deve scomparire? Questo è ciò da cui muovere.