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16 dicembre 2020

 

L’attualismo di G. Gentile

 

Siamo al Capitolo V, Le forme del giudizio, Paragrafo 1. Forme del giudizio secondo la qualità. Le forme del giudizio sono lo svolgimento dello stesso concetto del giudizio. Le forme non sono altro che il modo con cui il giudizio si mette in atto. Il quale infatti non è pensabile se non attraverso le sue forme distinte secondo la qualità, la quantità e la modalità, per continuare a servirci anche qui della terminologia in uso. Il giudizio affermativo è la forma fondamentale d’ogni giudizio; perché il pensiero, che è pensiero in quanto giudizio, è prima di tutto affermazione, onde l’essere è identico a se stesso, e, in questa sua reale identità, si pone pertanto come affermazione. Ma l’affermazione del giudizio è, come sappiamo, mediazione; e quindi negazione dell’immediato essere: A che è A in quanto non è non-A. Sicché la forma stessa del giudizio che afferma è impensabile senza un’altra forma del giudizio, che è quella del giudizio che nega. Questo che sta dicendo è ciò che accade ogni volta che si afferma qualcosa: affermando qualcosa, mentre affermo, nego che questa cosa non sia quello che è. Il concetto del giudizio affermativo genera il concetto del giudizio negativo. Ecco qui la generazione. Potremmo intendere questo anche quello che lui chiama autoctisi, autoproduzione: io affermo qualcosa e nell’affermare qualcosa genero, faccio esistere un’altra cosa, che è la negazione della negazione di ciò che sto affermando. Il quale nella sua origine ci si dimostra forma derivata e secondaria di giudicare, non essendo altro che l’inveramento e lo sviluppo della forma primaria, del giudizio affermativo. Quindi è che nessuna negazione può aver senso logico, obbiettivo, se non in quanto si risolve in un’affermazione logicamente anteriore. Sta dicendo che prima c’è un’affermazione: se nego qualche cosa, questo qualche cosa che nego c’è, cioè, è stato affermato. La verità del giudizio «A non è B» è la stessa verità del giudizio «A non è non-A», in quanto B è non-A. La verità cioè del giudizio negativo può essere soltanto la verità del giudizio negativo del contradittorio d’un giudizio affermativo (A è non-A, o A è B). Una delle due. Paragrafo 4. Il giudizio universale e il giudizio particolare. Se il soggetto è soggetto del giudizio in quanto universalizzato dal predicato,… Ricordate che il soggetto del giudizio è universale in quanto è universalizzato dal significato: c’è il significante, che di per sé non è universale, ma se ha un significato, il significato, sì, è universale e universalizza il significante. Qui è la stessa cosa rispetto al soggetto e all’oggetto. …l’affermazione, propria del giudizio affermativo, è affermazione dell’universalità del soggetto. Di guisa che il giudizio non può essere affermativo e non essere universale. Ogni giudizio che si fa, ogni affermazione che si fa, ci sta dicendo, è sempre necessariamente universale. Il che è interessante perché si rifà a ciò che ci diceva qualche tempo fa: io affermo qualche cosa, ciò che sto affermando deve essere necessariamente vero per tutti, perché universale. Quindi il giudizio, in quanto negativo della immediatezza del soggetto, nega la particolarità, mantenendola come base della propria negazione. Quando qualcuno afferma qualche cosa nega che ciò che sta affermando sia particolare, che cioè sia soltanto una sua idea: ciò che afferma è lo stato dello delle cose, universale e incontrovertibile. Esso è posizione così del soggetto come del predicato; ponendo il soggetto, è posizione del particolare, o giudizio particolare; e ponendo il predicato, è posizione dell’universalità del particolare, o giudizio universale. Qui fa la stessa operazione che ha fatto altre volte, e cioè ci sta dicendo che non c’è l’uno senza l’altro, sono sempre e comunque simultanei. Paragrafo 7. Il giudizio individuale. Il giudizio disgiuntivo della quantità,… Il giudizio della quantità sarebbe il particolare e l’universale: sono uno o sono molti? Giudizio disgiuntivo: o è A o non lo è… nel quale consiste tutto il vigore logico dell’affermazione dell’universale, è adunque esclusione del particolare che contraddice all’universale, in quanto il particolare, a sua volta, esclude l’universale come suo contradittorio. La doppia esclusione importa che tanto nell’universale quanto nel particolare c’è questo principio negativo del suo contradittorio: ossia che per entrambi c’è un che di comune, in cui essi coincidono, e che è l’unità dell’individuo, nella sua singolarità. Il giudizio disgiuntivo della quantità è perciò giudizio individuale. Questi due giudizi, particolare e universale, sono inscindibili, assolutamente inseparabili, non può darsi l’uno senza l’altro. Dice Gentile che insieme formano l’individuo, il giudizio individuale. Qualunque giudizio particolare non può escludere quello universale, e viceversa; l’integrazione di questi due giudizi è il giudizio individuale, cioè individua qualcosa: per poterlo individuare ha sempre bisogno di entrambi. Paragrafo 9. Il giudizio assertorio. Il giudizio, pertanto, in cui pienamente si esprima la modalità dell’essere pensato, è quello che pensa l’essere come esistente (necessario e possibile insieme): cioè il giudizio assertorio. È un po' quello che diceva prima: soltanto il giudizio affermativo è il vero giudizio, un giudizio affermativo universale che asserisce qualcosa. Infatti, fa uno schema delle forme del giudizio. Paragrafo 11. Tavola delle forme del giudizio. In conclusione, la distinzione delle forme del giudizio non suppone una moltitudine di giudizi da classificare; ma è il concetto delle forme onde il giudizio, l’unico giudizio logico (e quindi ogni giudizio logicamente pensato) è investito nella pienezza delle sue concrete determinazioni. E non può essere se non distinzione della sua quantità. La quale è quantità qualitativa; e quando si consideri più addentro, è modalità di questa quantità qualitativa. Ecco dunque la nostra tavola delle forme del giudizio:

                1.affermativo                                                           1. universale

1. Qualità          2. negativo                                2. Quantità 2. particolare

3. disgiuntivo                                                     3. individuale

 

 

1. apodittico (necessario)

3. Modalità       2. problematico (possibile)

3. assertorio (quello che affermo)

 

Ma né i tre gruppi in cui si dividono le nove forme, né le tre forme di ciascun gruppo sono considerabili come coesistenti allo stesso titolo e sullo stesso piano. Per ogni gruppo la terza forma è la sola reale o concreta forma di giudizio che abbia valore logico;… Quindi, rispettivamente, il disgiuntivo, individuale e assertorio. …e dei tre gruppi solo il terzo è quello che, assolutamente, nella sua terza forma, esprime la realtà del giudizio, nella sua forma concreta di giudizio logico. È una questione che ci rimanda al sillogismo compiuto di Hegel, cioè quello dove tutte e le tre forme di giudizio sono simultanee. La vera qualità o forma del giudizio è l’asserzione, in quanto unità di giudizio apodittico e giudizio problematico; ma l’asserzione è affermazione di universalità; ossia unità di qualità e quantità: della qualità, che è del giudizio disgiuntivo in quanto unità di affermativo e negativo, e della quantità del disgiuntivo in quanto unità di universale e individuale. Tutto questo per introdurci alla questione del sillogismo. Capitolo VI, Il sillogismo, Paragrafo 1. Il sillogismo aristotelico. Parve giustamente ad Aristotele che un rapporto, per quanto esso stesso mediazione tra i due termini, non si potesse considerare come una funzione perfettamente logica; poiché è sì rapporto, ma immediato. Distinse perciò il giudizio, rapporto immediato, dal sillogismo che realizza il rapporto attraverso i due termini del giudizio mediante un terzo termine, che possa dimostrare la necessità,… Se io dico che A è B non dimostro nessuna necessità, affermo qualche cosa di immediato; per dimostrare la necessità ci vuole il terzo. …ossia il valore veramente logico, del rapporto stesso. E fermò quindi la sua attenzione sulla forma del pensiero che non è sintesi di due termini, ma sintesi di tre termini, in cui il termine medio serva ad unire gli estremi. Una sintesi di tre termini dà luogo a un sistema di tre giudizi: perché dire che A = B = C è lo stesso che dire A = B, B = C, A = C. Aristotele quindi pensò che il pensiero logico nella sua piena effettiva mediazione non fosse un giudizio, bensì una triade di giudizi di codesto tipo, che rappresenta l’identità di due termini estremi, in quanto entrambi identici a un termine medio. È come se rispondesse alla domanda che uno si può fare di fronte all’asserzione A è B, e cioè: perché? Perché tra A e B c’è un terzo, questo terzo media, e se mostro che A è uguale al terzo elemento e questo è uguale a B, allora ecco che si risponde alla domanda perché A è B. Disse medio il termine che è pensato (come universale) mediante un estremo, e mediante il quale è pensato (come universale) l’altro estremo. E distinse perciò i due primi giudizi, in cui il medio dimostra questa sua doppia funzione, dal terzo, che unisce gli estremi, ed è, com’egli nota esplicitamente, qualche cosa di diverso (έτερόν τι) dai primi due, ma ha con essi tal rapporto necessario che, essendo veri questi, esso non può non essere vero (έξ ξνάγκης σνμβαίνει). Premesse e conclusione. Nella teoria aristotelica la conclusione è la stessa forma di pensiero che il giudizio;… Per Aristotele il pensiero, la sua forma, non è altro che giudizio: quando si pensa si giudica. …ma con questa differenza, che il giudizio se è vero, può non esser vero; e quindi, mancando di necessità, non è propriamente vero; laddove la conclusione di un sillogismo è necessariamente vera. Paragrafo 2. Il dilemma della logica analitica e il difetto del sillogismo aristotelico. In questa teoria, dunque, non c’è altra verità che quella la quale non ha in se stessa la propria necessità,… Perché, infatti, ha dovuto inserire un terzo elemento. …e ha bisogno perciò di altre verità che ne dimostrino la necessità. Vedete quindi il problema del sillogismo, cioè la regressio ad infinitum. Concetto evidentemente assurdo; perché non basta risalire di sillogismo in sillogismo fino al dantesco «ver primo che l’uom crede»,… La prima cosa che l’uomo crede vera. …ossia a quei giudizi indimostrabili, o principii immediati, da cui moverebbe ogni dimostrazione sillogistica. O la verità è verità dimostrata, la quale attinge da premesse diverse la propria necessità; e allora per la mente che voglia una verità non rimane altra via che quella del processo all’infinito. O non è vero che la verità assoluta debba ricevere d’altronde la propria necessità; e allora la verità non è quella della conclusione, punto d’arrivo d’un processo dimostrativo, sibbene quella dei giudizi immediati, che per Aristotele sarebbero soltanto punto di partenza. Questo infatti il dilemma di ogni logica analitica: o la verità immediata, e il processo dimostrativo è inutile; o la verità mediata, e non c’è una verità prima, da cui il processo possa muovere. Perché andando a ritroso non la troverò mai. Paragrafo 3. La critica degli scettici. 3. Quando perciò dicono:

Ogni uomo è animale; Socrate è uomo; dunque Socrate è animale; volendo concludere dall’universale: ‘Ogni uomo è animale’, questo particolare: ‘Socrate è animale’, dal momento che l’universale, come s’è avvertito, si fonda per induzione sui particolari, cadono in un circolo vizioso, volendo ricavare per induzione l’universale dai particolari, e per sillogismo il particolare dall’universale». Critica esattissima, checché si sia tentato di replicare sofisticando; ma che, se colpisce il sillogismo aristotelico, che pretende di essere un processo da un giudizio a un altro, non fa se non chiarire l’essenza del pensiero pensato nella sua forza logica. Giacché questo diallèlo,… Il diallèlo sarebbe quella formulazione che, per potere affermarsi, necessita di un altro elemento, il quale a sua volta deve avere quell’altro elemento per potere affermarsi. Potremmo dire che è la figura retorica della dialettica. …che è stato sempre lo spauracchio del pensiero, sarà, anzi è, la morte del pensiero pensante;… Perché di fronte a questo non c’è la possibilità di stabilire alcunché. …ma è la vita, la stessa legge fondamentale, del pensiero pensato, senza il quale è poi impossibile concepire pensiero pensante. Ecco posta la questione centrale: senza pensiero pensato non c’è pensiero pensante; come dire che senza l’astratto non c’è il concreto, non è possibile pensare a un concreto. Paragrafo 4. Il diallèlo come difetto del pensiero e come sua legge. A noi è già accaduto più volte di rilevare la circolarità del pensiero, che non può essere altro da quel sistema che è, chiuso entro certi termini, ciascuno dei quali rimanda all’altro, ma ciascuno dei quali non è fissabile per se stesso, poiché insieme essi costituiscono quella sintesi in cui il pensiero come mediazione consiste. Non posso fissare un termine per se stesso. Fissandolo per se stesso già lo pongo come necessariamente mediato, perché se è se stesso e sono sicuro che è quello che è, vuole dire che non è ciò che non è, e quindi c’è già una mediazione interna, il famoso (A=A)=(A=A).

Il termine terminato… Sarebbe il significante, l’immanente. …è pensabile in funzione del terminante;… Il significato; per dirla con Hegel, il termine terminato sarebbe l’essere, ma non posso pensare senza il pensiero terminante, cioè il suo significato, cioè ancora ill fatto che l’essere non è non essere; solo a questa condizione l’essere è pensabile, sennò non posso pensare niente. …ma questo è nello stesso rapporto verso il terminato, poiché nessuno dei due c’è senza l’altro, e quel che c’è davvero è il loro rapporto. Il giudizio negativo non si pensa senza l’affermativo, di cui è negazione; ma questo neppure si pensa senza il negativo che esso nega: e però il vero giudizio è il disgiuntivo,… Quello che tiene entrambi: qui è Hegel, né più né meno. …che è unità dell’affermativo e del negativo; e così via. Il pensiero è determinato mediante termini, ciascuno dei quali termina, cioè limita il pensiero, respingendolo da sé verso l’altro termine. E perciò esso è chiuso; e come tale, identico a se stesso; e non è puro essere naturale. Non c’è l’immediatezza senza mediazione. Paragrafo 5. La logica interna del giudizio Ritorniamo al giudizio. Dalla deduzione che abbiamo fatta delle sue forme, discende una dottrina speculativa del sillogismo, che conserva tutto il valore della funzione sillogistica, ma sottraendola ai falsi presupposti della vecchia logica empirica. I quali derivavano tutti dalla mancata distinzione tra logica dell’astratto e logica del concreto,… Che, in effetti, non c’è mai stata prima di Hegel. …per cui si voleva trovare nel pensiero pensato ciò ch’è proprio soltanto del pensare,… Cioè, si voleva trovare nell’astratto, nel quid che si sta considerando, come il tutto; ma il tutto è la condizione perché ci sia l’astratto. …nulla sospettando che per trovarlo bisognava superare il punto di vista a cui la vecchia filosofia s’arrestava. Il giudizio, abbiamo detto, è giudizio vero, se è affermativo essendo negativo; ed è affermativo essendo negativo, se è disgiuntivo. Base della verità del giudizio, interna al giudizio stesso, è la sua forma più concreta di giudizio disgiuntivo. A è A perché non è altro, per dirla in modo spiccio. E la base del giudizio, che non sia un giudizio soggettivo (che abbia fuori di sé, nell’essere, la sua misura), ma lo stesso giudizio proprio dell’essere (che è tutto l’essere pensabile rispetto all’essere che è realizzato nel giudizio), è evidente che non può trovarsi se non dentro allo stesso giudizio, e non va cercata fuori, come credeva Aristotele. Quando formulo un giudizio o faccio un’affermazione c’è già il tutto, c’è già il linguaggio. Quello che ci sta dicendo Gentile è che non devo cercare ciò che supporta la mia affermazione al di fuori della mia affermazione. Ciò che la supporta, che la determina, che la rende vera, è già nell’affermazione, cioè, c’è già in quella struttura che determina l’affermazione. Quella struttura che determina l’affermazione è il linguaggio. È la questione su cui insiste continuamente: è inutile cercare al di fuori del pensiero, qualche cosa che lo giustifichi, che lo supporti, che lo sostenga, che lo inveri. No, tutto ciò che dobbiamo trovare è già nel pensiero, non c’è fuori. Ci ha già spiegato nelle pagine precedenti perché non si può trovare fuori, perché se lo cerco fuori comunque, quando penso di averlo trovato, per l’appunto lo penso, lo dico, e quindi è già linguaggio. È per questo che ha continuato a dire nei capitoli precedenti che tutto ciò che penso non è altro che pensiero, tutto ciò che dico, che descrivo, ecc., non è altro che linguaggio, non c’è qualcosa fuori. Sia dunque il giudizio disgiuntivo:       

A o è A, o è non-A.

Questo giudizio noi lo conosciamo, e sappiamo che esso ha un significato in quanto A non è non-A; come quest’altro giudizio ha un significato se A = A. Sicché noi abbiamo tre giudizi, dei quali il terzo è vero in quanto sono veri i primi due; non perché i primi due siano indipendenti dal terzo, e contengano perciò essi una verità la quale sia già in sé determinata, e possa esser partecipata dal terzo, ma non debba, per bisogno che essa stessa ne abbia;… Non deve dipendere da questo, perché ciascuno è tutti e tre. E qui siamo a ciò che diceva Peirce: ciascuno dei tre momenti (Primità, Secondità e Terzietà) non sono in una successione temporale, ma sono tutti la stessa cosa; dicendo uno dico anche gli altri. …sibbene perché sono entrambi contenuti nel terzo e ne costituiscono la verità o l’intrinseca energia logica. A è A perché non è non-A, e non può essere se non che una delle due: o A, o non-A. Paragrafo 9. Unità delle tre forme del sillogismo. O si pensa, pertanto, o non si pensa: ma quando si pensa, il pensiero è tale da legare a sé il pensiero che lo pensa: è un pensiero che è l’essere, l’unico che ci sia (in quanto si pensa);… C’è l’essere e il pensiero, pensiero che pensa. …quindi universale e necessario. Ecco perché ciascuno è portato a considerare che ciò che afferma sia universale e necessario: perché è il suo pensiero a essere universale e necessario, non quello che afferma. Il pensiero sa che sta pensando: questo è necessario e universale. Esso, in quanto si pensa, è essere che è pensiero; come pensiero, è mediazione tra due termini, formanti un giudizio: è giudizio, che non è la forma di fatto dell’essere stesso che è pensiero, quasi un nuovo essere; ma è mediato in se stesso, vivente d’una vita organica che è sistema, ossia rapporto tra due giudizi, la cui sintesi è sempre un giudizio disgiuntivo. Quando il pensiero pensa, ciò che pensa non è altro da sé, è sempre pensiero pensante, pensiero che pensa. E questa sintesi è sillogismo: sillogismo della quantità e sillogismo della qualità; e più propriamente, sillogismo della modalità, sintesi del sillogismo qualitativo e del quantitativo. Paragrafo 10. Necessità della funzione sillogistica. Ma il sillogismo ha i suoi limiti! – Appunto, i suoi limiti sono limiti del pensiero. Ovviamente, perché il sillogismo non esiste senza il pensiero, non è un ente di natura, come talvolta si è indotti a pensare, come p. es. pensava Anselmo, per cui se concludo in modo vero allora quella cosa lì non solo è vera ma esiste. Ne avevamo accennato nella prova dell’esistenza di Dio. Pensare è determinare, come abbiamo visto; e determinare è chiudere il pensiero entro certi termini, che, limitando il pensiero, lo fanno essere. Per potere pensare qualcosa occorre che questo pensiero sia determinato, che sia letteralmente de-terminato, delimitato, chiuso. Viene alla mente Anassimandro con il suo concetto di indefinito, l’apèiron (ἄπειρον), come l’origine di tutto. Che cos’è l’indeterminato? È il linguaggio, è il concreto. È il tutto che è indeterminato, che si determina parlando, pensando; allora sì, si determina immediatamente. Ma il linguaggio è indeterminato, non posso determinarlo. Aveva ragione Heidegger quando diceva che c’era già tutto lì, non era necessario fare chissà che cosa. Hanno pensato tutto i greci, tranne la cosa più importante, quella fondamentale, quella che veramente andava pensata, e cioè l’alètheia. Un pensiero indeterminato è un pensiero che non si pensa. Ed Aristotele rincorreva questo vano fantasma dell’impensabile, quando concepì il sillogismo aperto nelle premesse verso gli antecedenti, che posson dare la dimostrazione delle premesse, e aperto nella conclusione verso ulteriori conclusioni, a cui essa possa servire di premessa. Il che va bene, ma se ci si limita al pensiero pensato. Il pensiero pensato, certo, è determinato, ma perché è all’interno del pensiero pensante, il quale invece non può essere determinato. In questo caso ci torna utile la questione che poneva Hegel del finito e dell’infinito, come due aspetti della stessa cosa: il finito è tale perché non è infinito, l‘infinito è tale perché non è finito. E diede perciò giusto motivo, a chi volle prenderlo in parola, di opporgli che un pensiero che trascenda sempre se stesso non può attingere la verità;… Ovviamente, se va sempre oltre se stesso. …e che già in ogni sillogismo questo passaggio è illusorio, perché la verità della premessa maggiore suppone quella verità della conclusione, a cui dalle premesse si dovrebbe passare. L’errore consisteva nel cercare il fondamento del pensiero fuori del pensiero,… Come abbiamo sempre detto: se cerco il fondamento di qualcosa fuori dal linguaggio, da quel momento incappo in aporie, paradossi, antinomie irresolubili. …e lasciarsi sfuggire, o considerare soltanto come un difetto, quel che è la legge fondamentale del pensiero: la sua circolarità o identità: onde tutto il pensabile (l’essere in quanto pensato, la così detta scienza, nel suo senso oggettivo, lo scibile, quella realtà che noi non possiamo aver a contenuto del nostro pensiero senza riconoscerle valore di verità) è se stesso, per la semplice ragione ch’esso è tutto il pensabile. Tutto ciò che penso è se stesso perché è tutto il pensabile: io penso tutto il pensabile. Che è un altro modo che il linguaggio, qualunque cosa io dica, è già tutto lì. Potremmo dire che è già tutto dicibile, anche se non lo dico, è già tutto presente. Abbiamo già detto altre volte che tutto ciò che gli umani hanno fatto, e che faranno nei prossimi millenni, è già tutto necessariamente qui; dico necessariamente perché non può essere fuori del linguaggio, perché non ne avremmo accesso in nessun modo. Deve essere necessariamente nel linguaggio; posso non vederlo, non coglierlo, certo, ma questo è un altro discorso. Ecco allora che alla domanda che si poneva Koyré – perché i Greci, che avevano già tutte le capacità tecniche per costruire un sacco di cose, non l’hanno fatto? – si può rispondere che a loro non interessava, non pensavano a quel modo, non avevano bisogno di vedere questa cosa e, quindi, non la vedevano, non avevano interesse. Perché inventare una macchina che sollevi mille tonnellate quando ho un milione di schiavi che lo fanno. Paragrafo 11. Il limite del sillogismo. Non saremo noi a disconoscere che questa verità di un pensiero chiuso in sé, formante un sistema, posto innanzi alla nostra mente quasi un blocco, verso di cui non ci resti se non prendere o lasciare, non contenta. Ma noi possiamo dire perché esso non contenta. Noi sappiamo che oltre il pensabile c’è il pensiero; oltre il pensato, il pensante; oltre l’astratto, il concreto; e oltre, insomma, l’oggetto, il soggetto. Questo è un “oltre” che va inteso, non si tratta di un percorso a tappe. Oltre, nel senso che se c’è l’uno c’è anche necessariamente l’altro. Ma sapendo questo, noi, mentre possiamo renderci conto della sterilità del sillogismo in sé, siamo in grado di conoscerne l’immenso vitale valore, come momento della dialettica dell’atto del pensare. Dopo avere demolito il sillogismo, tuttavia si accorge che noi pensiamo attraverso questo. Può anche non piacerci, ma di fatto con che cosa concludiamo un ragionamento se non con un sillogismo? Quel momento, in cui il pensiero si pone e vale innanzi a se stesso come un determinato oggetto; e in questo si chiude, e nega quindi la propria libertà e s’arresta lì, nella sua propria oggettività, e può stagnarvi, determinando quei periodi di stasi scientifica, in cui il pensiero gira e rigira dentro il circolo della sua verità, e si costituisce la scuola, la tradizione, la chiesa, poiché la verità è sull’orizzonte, ed essa è tutto il pensabile, ed ogni movimento del pensiero non può consistere se non nel circolo dei commentatori; i quali crederanno di potere e dovere spiegare Aristotele con Aristotele come fa il Simplicio del Galilei. Noi abbiamo a suo luogo avvertito che non c’è nel pensiero, né altrove, epoca organica, che non sia pure critica. Ma questo non vuole dire che non ci sia nessuna epoca organica la quale, come tale, non debba avere la sua essenza determinata, il suo carattere, la sua natura. E la natura del pensiero pensato, governato dal principio di identità, è espressa pienamente nel sillogismo. Il sillogismo è il pensiero pensato, il quale ci fa concludere qualcosa. Poi, una volta che abbiamo concluso qualcosa, cosa ne facciamo di questo qualcosa è un altro discorso; ma non possiamo non pensare così, cioè concludere, dire “è così”; nonostante abbia mostrato l’impossibilità, la paradossalità del sillogismo. Dice: o il sillogismo è assolutamente inutile, perché è un rinvio all’infinito, oppure è una petizione di principio, cioè mostra immediatamente la verità, dice “è cosi e basta, ciò da cui parto è vero e non si discute”. Ma se qualcuno dovesse chiedergli perché, o continua a ribadire che “è così perché è così”, oppure ricade nell’altra parte, cioè nell’impossibilità di arrestarsi. Capitolo VII L’induzione. Paragrafo 1. L’induzione come antitesi del sillogismo. Chiuso il pensiero nel sistema del sillogismo, più volte nella storia della logica è sembrato, che non restasse altro modo di uscire dal sillogismo e dar moto e vita al pensiero, che quello di ricorrere all’induzione. Paragrafo 2. Errore analogo a quello del sillogismo aristotelico. L’errore di questo concetto è analogo a quello scoperto nel vecchio concetto del sillogismo: voler trascendere il pensiero per trovarne la verità, che non può essere altrove che nel pensiero stesso; e come il vero sillogismo abbiamo visto non legare un giudizio in quanto particolare a un altro giudizio relativamente universale, bensì nel legare il giudizio a se stesso; così vera induzione ci si scopre quella che non riporta un giudizio in quanto universale a un giudizio relativamente particolare; ma quella appunto che riferisce il giudizio a se medesimo, risolvendosi quindi nello stesso sillogismo. In verità, se la base dell’universale stesse nel particolare, dovremmo da un giudizio universale poter passare a un giudizio particolare. Ma noi sappiamo che significhi questo passaggio: vero è l’universale, e il particolare come negativo dell’universale è falso. Il pensiero, è, già come pensiero, universale; e dire pensiero (giudizio) particolare, è dire che la notte è giorno. La ricerca dell’universale dal particolare (induzione) Gentile la pone così: non è che il particolare sia il momento che precede la formazione dell’universale. Questo particolare non niente altro che il negativo dell’universale, il quale universale è pensiero. La sua critica è che il particolare, da cui si muove per giungere all’universale, è sempre stato preso come qualcosa fuori del pensiero, come qualcosa che fosse possibile isolare dall’universale. Paragrafo 3. Illusorio processo dall’universale al particolare. Nel sillogismo da noi indicato come essenziale al pensiero logico, tutto sta nell’essere A = A: che se si pensa, non si può pensare se non in rapporto al disgiuntivo: A o è A o è non-A, e al negativo: A non è non-A. Se si pensa. Ma si deve pensare? Chi ci dice che A = A? Ed ecco la necessità dell’induzione, la quale dovrebbe avere per conclusione appunto questo A = A. Se non che, quale il suo punto di partenza? Questo, p. es., che Socrate è animale; ma questo è appunto un giudizio pensabile a patto di esser pensato come A = A. Cioè, se voi lo pensate come quel tale fondamento alla vostra induzione, bisogna che, dicendo Socrate, voi lo pensiate come uomo; al cui concetto, se lo possedete, non potrete aggiunger nulla quando ugualmente penserete Platone, Dione, ecc. ecc. Sta dicendo che se io parto dal fatto che Socrate è un animale, io ho già la conclusione del sillogismo, perché so già che Socrate è uomo. Sta soltanto cercando di dare una ragione. Risponde alla domanda “perché?”, ma rispondendo alla domanda “perché?” non posso comunque uscire dal pensiero; quindi, il perché che troverò sarà sempre all’interno del pensiero. È come se Gentile ci stesse dicendo “come so che Socrate è un animale; perché io parto da qui? Come faccio a sapere che è un animale?”. Perché so già che è uomo, perché so già che Socrate è qualcuno e non un pezzo di carta. È perché so già tutte queste cose che posso costruire il sillogismo che rende conto del perché delle cose. C’è anche quest’altro fenomeno per cui si costruisce una dimostrazione quando la dimostrazione, in realtà, è già in atto, è già attuata. Vale a dire, possiamo dirla così: per costruire la dimostrazione devo già avere attuata la dimostrazione. O, più propriamente ancora: posso costruire la dimostrazione perché la dimostrazione è pensabile. Cosa vuole dire che è pensabile? Vuol dire che c’è già nel pensiero; per questo posso costruirla: è già lì. Posso non vederla, come accade, ma è già comunque nel pensiero, è già nel linguaggio, è già tutto lì. Noi in pratica non inventiamo niente, nel senso tradizionale del termine; cogliamo delle cose che prima non coglievamo, ma non è che le abbiamo inventate, erano già tutte lì, quasi in bella mostra.

Intervento: …

È come se cercassi una dimostrazione che dovrebbe dire che questa verità è fuori dal linguaggio, viene da fuori, viene quindi dal percorso della dimostrazione. Il percorso della dimostrazione giunge a una proposizione vera, un teorema, e questo teorema garantisce della verità dell’asserzione, ma garantisce anche la sua esistenza di per sé: se è vero, esiste; perché non può essere e non esistere, sarebbe una contraddizione in termini. È su questo che Anselmo ha costruito la sua prova dell’esistenza di Dio. Dicevamo la volta scorsa che il principio di ragione ha sempre cercato, lo dice anche Gentile, il qualche cosa fuori dal pensiero e che da fuori del pensiero debba giustificare una certa sequenza, un certo accadere; ma questo accadere è già nel pensiero, non devo cercarlo fuori. Ci ha detto molte volte che se cerco qualcosa fuori dal pensiero non troverò niente altro che altri pensieri; non troverò mai la cosa in sé, troverò soltanto altri pensieri, che tra l’altro sono già lì. Che se il concetto dell’uomo come animale ancora non lo possedete, e vi tocca di formarvelo a poco a poco per correzioni progressive in ragione dell’esperienza che venite facendo dei tanti uomini, allora ogni volta ciascuno degli uomini sarà pensato con un concetto singolare dell’uomo, e voi non potrete mettere tutti insieme i singoli concetti diversi come il καθόλσν relativo al καθ έκαστον (il particolare). Mi trovo di fronte allo stesso problema: rimangono tutti particolari. Come so che tutti quanti insieme fanno un’unica cosa, se sono tutti particolari? Ciascun particolare se ne sta per conto suo. Cosa mi autorizza a dire che tutti questi particolari sono uno, per esempio? Nulla. Comunque, voi da principio col vostro schietto particolare potete pensare qualche cosa solo in quanto, fin d’allora, vi trovate innanzi a quel tale universale, al quale pensavate una volta di ritornare, ma dal quale per ora vi pareva d’esservi allontanato. Ma potremo proseguire: dalla quale cosa non vi siete mai allontanati. Vale a dire, per costruire tutti questi particolari, voi avete già pensato l’universale; e d’altra parte potete pensare all’universale perché ci sono i particolari. Qui è il concetto dell’attualismo di Gentile più schietto: non posso pensare l’uno senza pensare simultaneamente anche l’altro; sono pensati assieme necessariamente. Paragrafo 4. Impossibilità di trascendere il giudizio, e passaggio, interno ad esso, dal particolare all’universale, e viceversa. Da A = A, dunque non si esce. Ma c’è bisogno di uscire da questo giudizio per convalidarlo? Ecco il punto fondamentale: c’è bisogno di uscire, di cercare fuori del giudizio, qualcosa che giustifichi il giudizio?