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16-12-2015

 

Verso la fine di La voce e il fenomeno, Derrida dice: La trascendenza apparente della voce dipende dal fatto che il significato che è sempre di essenza ideale la “Bedeutung” espressa è immediatamente presente all’atto di espressione (apparentemente quando si dice qualcosa, si dice già il significato) questa presenza immediata dipende dal fatto che il corpo fenomenologico del significante (cioè l’aspetto fisico del significante) sembra cancellarsi nel momento stesso in cui è prodotto (come se, dice Derrida, si sottraesse nel momento in cui qualcosa si dice) Sembra appartenere fin d’ora all’elemento dell’idealità esso spesso si riduce fenomenologicamente trasforma in pura diafanità l’opacità mondana del suo corpo, questa eliminazione del corpo sensibile della sua esteriorità, è per la sua coscienza la forma stessa della presenza immediata del significato (sta dicendo che nel momento in cui qualcosa si dice, ciò che si dice, il significante, cioè l’aspetto acustico scompare, scompare a vantaggio del significato che in quel momento acquisisce una presenza immediata, quindi scompare il significante e rimane il significato (questo per lui ha degli effetti e dice) quando io parlo appartiene all’essenza fenomenologica di questa operazione il fatto che io mi ascolti nel tempo in cui parlo, il significante animato dal mio respiro e dall’intenzione di significazione è assolutamente vicino a me, l’atto vivente, l’atto che da la vita, la Lebendigkeit che anima il corpo del significante si trasforma in un’espressione volente dire, l’anima del linguaggio sembra non separarsi da se stessa e dalla sua presenza a sé (questa “anima del linguaggio” non è nient’altro che ciò che io voglio dire, ora ciò che io voglio dire è nel significante? È nel significato? dove sta? E Derrida dice che non è propriamente né da una parte né da quell’altra, io mi ascolto mentre parlo e questo ascoltarmi mentre parlo non è nient’altro che la coscienza, però mente io parlo e mi ascolto, questo atto vivente, il mio respiro che mi consente di parlare dice) è ciò che anima il corpo del significante e lo trasforma in espressioni “volenti dire” (quindi abbiamo già un primo elemento importante e cioè ciò che fa dell’atto di parola qualche cosa di importante è il volere dire, cioè l’intenzionalità per Husserl, l’atto intenzionale, il volere dire qualcosa, il volere fare qualcosa che poi è per Heidegger il volere fare qualcosa nel senso dell’esserci, del progetto, poi) La scrittura è un corpo che esprime soltanto se si pronuncia attualmente l’espressione verbale che l’anima, se il suo spazio è temporalizzato, (cioè la scrittura è un qualche cosa soltanto se esprime delle parole se no è niente, la parola è un corpo che vuol dire qualcosa solo se un’intenzione attuale l’anima e lo fa passare dallo stato di sonorità inerte (“Körper” che sarebbe il corpo morto) a uno stato di corpo animato “Leiben” cioè vivo, cioè la parola diventa un qualche cosa al momento in cui di nuovo c’è un’intenzionalità, c’è un’intenzione, è questa che importa nella parola, sembra voler dire Derrida, al di là del significante e del significato, poi è chiaro che non è al di là ma è comunque del segno, però questa sottolineatura del voler dire e della sua importanza non è secondaria) questo corpo proprio della parola esprime soltanto se è animato di un voler dire che lo trasforma in carne spirituale. Ma solo la Geistigkeit o la Lebendigkeit è indipendente e originaria, ritroviamo qui tutte le risorse di non presenza originaria di cui abbiamo già a più riprese individuato ad affiorare, Husserl pur respingendo la differenza nell’esteriorità del significante (per Husserl era importante che il significante fosse un qualche cosa di interiore, la voce interiore, quindi senza suono, soltanto a questa condizione, non so se vi ricordate, era possibile quell’accesso che lui inseguiva alla cosa stessa, alla cosa in carne ed ossa, con la voce, il suono, la φωνή, si inserisce qualcosa di esterno perché il suono risuona, è un’esteriorità, è qualcosa di estraneo non è solo interiore) l’auto affezione come operazione della voce infatti l’auto affezione come operazione della voce presupponeva (per esempio quando io parlo la mia voce produce un auto affezione nel senso che io mi sento parlare, auto affezione in questo senso) che una differenza pura venisse a dividere la differenza a sé (se c’è qualche cosa in più la presenza a sé non è più pura) è in questa differenza pura che si radica la possibilità di tutto ciò che si crede poter escludere dall’auto affezione (vedete qui che la differenza incomincia a lavorare tra l’idea che la presenza a sé di qualche cosa non sia proprio identica a sé, ma ci sia una differenza, ci sia un supplemento di qualche cosa, per esempio il suono della voce che fa la differenza, per esempio, tra il discorso interiore e il discorso invece che non può esimersi dal suono, che si immette all’interno di me modificando qualche cosa) è in questa differenza pura che si radica la possibilità di tutto ciò che crede poter escludere dall’auto affezione lo spazio, il fuori, il mondo, il corpo eccetera (tutte queste cose Husserl credeva di poterle escludere, ma poi di fatto non è così) se si ammette che l’auto affezione è la condizione della presenza a sé, (perché nell’auto affezione io mi accorgo di essere, mi accorgo di esistere, mi accorgo che sto parlando, mi accorgo che sto facendo, mi accorgo che sto pensando) nessuna riduzione trascendentale pura è possibile (l’auto affezione quindi dice che la condizione della presenza a sé comporta che mi accorga di qualche cosa, ma per accorgermi di qualche cosa è necessario che qualche cosa mi venga incontro, e a questo punto, se le cose stanno così, dice, non c’è nessuna riduzione trascendentale pura, cioè non c’è nessuna possibilità che qualche cosa arrivi direttamente alla cosa, tra me e la cosa c’è un intermediario “lo spazio, il fuori, il mondo eccetera”) ma bisogna passare attraverso essa (la riduzione trascendentale pura era il progetto di Husserl: di ridurre la distanza fra me e la cosa in modo tale da poterla percepire direttamente, per quello che è in carne e ossa) per riafferrare la differenza nella più grande prossimità a sé non della sua identità né della sua purezza né della sua origine, essa non ne ha ma del movimento della “differanza” (qui introduce la “differanza” sta dicendo che occorre passare attraverso questo tentativo di Husserl non per trovare la sua identità, ma per trovare una differenza che a questo punto è una differenza originaria, come dire che occorre puntare alla identità assoluta per accorgersi che non c’è identità, finché non si fa questo percorso e non si prova a dimostrare che esiste l’identità assoluta a sé di qualche cosa, non si trova questa differenza, non ci si accorgerà mai che nell’identità c’è la “differanza”) il movimento della “differanza” non è altro che questo continuo differire (non è soltanto la differenza nel senso che riguarda un’altra cosa, ma un differimento, uno spostamento, quando io cerco di stabilire una identità cerco di stabilire una presenza di qualche cosa, questo tentativo di stabilire l’immediata presenza di qualche cosa passa attraverso un qualche cos’altro, adesso la dico in un modo molto rozzo, passa sempre attraverso un qualche cos’altro e questo differimento è ciò che lui chiama la “differanza” che è un differimento infinito: quando cerco di stabilire la cosa in sé, la cosa presente in questo momento mi trovo preso in un differimento infinito perché trovo questa cosa ma di questa cosa ne ho una rappresentazione che dovrebbe dirmi che cos’è, in realtà non vedo la cosa in sé, vedo una sua rappresentazione, delle immagini, e quindi mi trovo sempre e comunque spostato) Questo movimento della “differanza”(prendetelo sempre come essere differiti, spostati continuamente all’infinito, non sopravviene a un soggetto trascendentale, lo produce, dice che è questo differire che produce il soggetto, non è il soggetto che ha questa differenza) l’auto affezione non è una modalità di esperienza caratterizzante un ente che sarebbe già lui stesso così com’è “autòs” (dice che l’auto affezione non è un’esperienza di un ente, di un qualche cosa che io ricevo dal mondo bensì essa produce la stesso la cosa, l’ente) come rapporto a sé nella differenza a sé, lo stesso come non identico (dice che l’auto affezione cioè il percepire qualcosa dall’esterno non è una cosa che procede dall’esperienza per cui un qualche cosa da fuori mi viene incontro, cioè un’esperienza di un ente che sarebbe già lì lui stesso, sarebbe già lì l’ente, non è già lì, questo è il punto fondamentale perché qui si gioca tutta la questione metafisica, se la cosa è lì di per sé allora muovo dall’idea che qualcosa sia necessariamente indipendentemente da me. Derrida incomincia a fare le cose un po’ più complicate, dice “esso produce lo stesso” cioè l’ente di cui sta parlando “come rapporto a sé nella differanza da sé” produce questa stessa cosa in quanto rapporto a sé ma preso in questo differire, mi rapporto a qualche cosa sempre preso in un differimento rispetto a quella cosa che mi si presenta, qualunque cosa sia ciò che mi si presenta non è la cosa ma il suo essere differita, in una rappresentazione, in un’immagine, in un suono, in una qualunque cosa, poi parla del “punto sorgente”. Il “punto sorgente” è importante, dice com’è che questo concetto di auto affezione si sia imposto? Da dove viene?) Ciò che fa l’originalità della parola per cui essa si distingue da ogni altro mezzo di significazione è il fatto che la sua stoffa sembra essere puramente temporale (l’auto affezione, ciò che accade adesso, io sono auto affezionato adesso mentre parlo, è mentre parlo che sento la mia voce) questa temporalità non sviluppa un senso che sarebbe lui stesso intemporale il senso prima ancora di essere espresso è temporale da parte a parte (quando Husserl descrive un senso che sembra sfuggire alla temporalità, quindi il senso che sfugge alla temporalità sarebbe un senso che è lo stesso qui e adesso e fra mille anni) si affretta a precisare che qui tratta di una tappa provvisoria dell’analisi e che egli considera ancora la temporalità costituita, ora dal momento in cui si tiene conto del movimento della temporalizzazione come esso è già analizzato nelle Vorlesungen, bisogna proprio utilizzare il concetto di auto affezione pura, concetto di cui si serve Heidegger in “Kant e il problema della metafisica” precisamente a proposito del tempo il “punto sorgente” l’impressione originaria, il punto da cui sorge l’impressione (è temporale perché sorge in quell’istante lì, né prima né dopo) ciò a partire da cui si riproduce il movimento della temporalizzazione è già auto affezione pura (cioè quel punto da cui si produce il movimento dell’intervento del tempo, che è puntuale ed è questa puntualità che, dice lui, è già auto affezione pura perché è in quell’istante che io percepisco, è in quell’istante che vedo, è in quell’istante che sento quello che sento, in quel preciso momento) L’intuizione del tempo stesso non può essere empirica è una percezione che non riceve nulla. La novità assoluta di ogni adesso non è quindi generata da nulla (questo punto di origine, questo punto del tempo, questo istante non è generato da niente, quando io percepisco qualcosa, questo punto è localizzato in modo preciso, ma è generato da nulla, non è una cosa empirica che si può dedurre da qualche altra cosa con l’esperienza, no, l’esperienza non insegna questo e aggiunge) essa consiste (questa novità assoluta ogni volta del “punto di origine”) consiste in un’impressione originaria che si genera essa stessa (cioè è auto generante, è quel processo di autoctisi di cui parlava Gentile del pensiero che produce se stesso) L’impressione originaria è l’inizio assoluto di questa produzione la sorgente originaria ciò a partire da cui si produce continuamente tutto il resto (Derrida si accorge che in questo processo non si riesce ad evitare in nessun modo l’intervento, un supplemento di qualche cosa che può essere qualunque cosa, ma questo supplemento, questo in più è ciò che stabilisce sempre la differanza, direbbe lui, tra questa cosa in sé e ciò che percepisco. Ciò che percepisco è sempre un’altra cosa e più mi avvicino a quella cosa, come diceva lui, più voglio giungere all’identità, allo stesso, più mi allontano, perché ogni volta dovrò sempre riavvicinarmi, perché ogni volta che lo raggiungo non è più la stessa cosa perché ci ho messo, per esempio un’intenzione, ci ho messo un progetto, per cui quella cosa lì non è più pura) Il nuovo adesso (che è il nuovo accadimento) non è un ente, non è un oggetto prodotto ed ogni linguaggio fallisce a descrivere questo puro movimento diversamente che per metafora cioè prendendo i suoi concetti dall’ordine degli oggetti dell’esperienza che questa temporalizzazione rende possibili (cioè non posso descrivere quel punto, quell’istante se non attraverso una metafora, cioè una sostituzione, aggiungo delle cose, descrivo cos’è, posso fare una perifrasi, una parafrasi posso fare tutto quello che voglio però non colgo mai quel punto preciso) Ma questa differenza pura che costituisce la presenza a sé del presente vivente (ciò che costituisce la presenza a sé del presente vivente, è la differenza, cioè questo doppio movimento, questo sdoppiamento della cosa e del vedere la cosa, vedo la cosa ma per potere vedere la cosa devo rappresentarmi qualche cosa, non posso vederla senza che vedendola ci siano dei pensieri, ci sia un qualunque modo in cui dico quella cosa, in cui conosco quella cosa, in cui so quella cosa) ecco questa differenza pura introduce originariamente tutta l’impurità che si è creduto poter escludere (questa differenza tra la cosa e la sua percezione è piena di impurità, di fantasie direbbe Freud) il presente vivente (è ciò che appare immediatamente agli occhi, ciò che è davanti) sgorga a partire dalla sua non identità a sé e dalla possibilità della traccia ritenzionale è già sempre una traccia (cosa vuole dire che il presente vivente sgorga a partire dalla sua non identità a sé? Che se io mi trovo di fronte a un qualche cosa, o che immagino avere di fronte lo vedo, lo percepisco non come voleva Husserl, cioè direttamente ma comunque sempre in una mediazione, e una mediazione è sempre un differire, io mi trovo differito ciascuna volta in cui cerco di approcciarmi a una qualunque cosa perché questa cosa che vedo in realtà è un immagine di questa cosa, sono sempre solo immagini, cioè rappresentazioni cioè ri-presentazioni di questa cosa quindi perché questa cosa possa essere percepita occorre che io me la rappresenti, me la ri presenti, me la presenti di nuovo attraverso un’immagine “la ritenzione” dell’immagine per esempio, è questo che fa dire a Derrida che l’identità in effetti sgorga, procede dalla differenza, se non ci fosse questo movimento di differimento continuo dalla cosa all’immagine, se non avessi un’immagine, se non ci fosse una ripresentazione la cosa non esisterebbe. Soltanto nel movimento di ritorno questa immagine la collego a un qualche cosa, poniamola così: nella tradizione classica c’è la cosa, io mi faccio l’immagine e l’immagine corrisponde alla cosa, nella versione di Derrida invece no, questa cosa qui dire che c’è o che non c’è non significa niente, perché è soltanto in questo movimento di riproduzione di questa cosa che questa cosa incomincia a esistere, soltanto quando me la rappresento, perché se non mi rappresento niente non c’è niente, non vedo niente, perché ogni vedere è una rappresentazione cioè un ri presentare un qualche cosa. Il movimento parte da questo oggetto che però per Derrida ha una particolarità, questo oggetto di partenza in effetti non esiste finché la mia rappresentazione lo “ri”, letteralmente, lo ri produce, lo produce di nuovo, ciò che Derrida e dopo di lui diceva Verdiglione “è il due che precede l’uno” è soltanto con il due che può esserci l’uno, soltanto in questo movimento di ritorno, adesso nel caso di Verdiglione è un po’ differente ma è soltanto in questo movimento di ritorno che la cosa esiste letteralmente, se no non esisterebbe e se non si può rappresentare qualche cosa, se non c’è possibilità di rappresentarla, la cosa non c’è, per chi c’è? In che modo c’è? Cosa significa a questo punto che la cosa c’è? Non significherebbe più niente. Derrida sta dicendo che il significante è ciò che appare immediatamente, ma questo significante non c’è senza un significato perché non significherebbe niente, quindi è perché c’è un significato che è possibile l’esistenza del significante, cioè percepisco qualche cosa, so che è un significante perché ha un significato, perché significa qualche cosa. È in questo movimento che poi dirà che è continuo, infinito, è qui che si gioca la partita, in questa infinitizzazione del movimento, perché il significante di per sé, finché non c’è il significato, chiaramente poi lui parla del segno non degli enti in quanto tale, gli enti di fatto sono significanti, quindi è il significante che avendo un significato può essere significante. Il movimento significante di per sé è niente, si aggancia al significato ed è il significato che gli dice “sì tu sei significante perché ci sono io che sono il significato”…

Intervento: ci vuole l’intenzione per fare tutto ciò?

Il processo che Husserl voleva puro non lo è, perché c’è l’intenzionalità, perché c’è il mio voler dire, dico il significante ma non potrei dirlo se non ci fosse un significato, ciò che voglio dire, è soltanto perché c’è un significato che c’è un significante. Ma questo movimento non è solo in una direzione, significante, significato, significante ma anche nella direzione contraria. Come posso parlare di significato, pensare un significato se non attraverso un significante cioè la sua immagine acustica? Un significato, se non ha la parola per dirlo, il suono per dirlo, è niente, ecco che allora in questo movimento, in questa infinitizzazione del movimento lui situa esattamente la “differanza”) Pag. 138 Così come non ho bisogno di percepire per comprendere un enunciato di percezione (se Simona dice che ha freddo, non ho bisogno di percepire che anch’io ho freddo per capire quello che mi sta dicendo) L’originarietà del voler dire come posizione è limitata dal telos della visione, (sta dicendo che il “voler dire” non è illimitato, non posso voler dire qualunque cosa, è limitato dal telos, dalla finalità della visione potremmo dire dal progetto, dalla questione della morte per Heidegger, l’essere per la morte, la morte come la finitudine) La differenza che separa l’intenzione dall’intuizione per essere radicale non ne sarebbe meno provvisoria il simbolo fa sempre segno verso la verità di cui si costituisce come la mancanza (perché il simbolo non è mai la cosa stessa, è un differire dalla cosa, la bandiera italiana è il simbolo dell’Italia ma il bianco, il rosso, e il verde non sono l’Italia, sono tre colori che non hanno nulla a che fare con l’Italia, è un simbolo, quindi la corrispondenza tra significante e significato, che sarebbe la verità assoluta in questo inchiodare il significante al significato, e cioè dice “il simbolo sta al posto della verità che è mancante”) Se la possibilità o la verità vengono a mancare l’intenzione dell’enunciato è evidentemente compiuta soltanto simbolicamente (sta dicendo cosa accade mentre si parla) esso non può attingere dall’intuizione e dalle funzioni categoriali che devono esercitarsi sul suo fondamento la pienezza che costituisce il suo valore di conoscenza (quindi non può attingere la verità dalle proprietà di una certa cosa, perché è comunque sempre simbolicamente posta, quindi sempre in un differire) le manca dunque la Bedeutung (sarebbe il significato) vera autentica, in altre parole il vero e autentico voler dire è il voler dire vero (questo sarebbe l’autentico voler dire, ciascuno quando vuole dire qualcosa vuole dire il vero, autentico, è questo che vuole dire, vuole dire come stanno le cose e cioè vuole che ai significanti che dice sia incollato un significato preciso, che sia quello e tutti lo riconoscano) All’interno della metafisica della presenza (è il pensiero che immagina che la presenza si dia da sé) cioè della filosofia come sapere della presenza dell’oggetto come essere accanto a sé del sapere nella coscienza (cioè la mia coscienza è accanto al sapere dell’oggetto, sempre nella metafisica questo) noi crediamo semplicemente nel sapere assoluto come chiusura se non come fine della storia, noi crediamo letteralmente (questo è ciò che avviene generalmente, il sapere assoluto come l’ultima parola, la fine della storia, le cose stanno così) la storia dell’essere come presenza, come presenza a sé nel sapere assoluto come coscienza a sé nell’infinità della parusia (la parusia è il mostrarsi della cosa) La storia della metafisica è il voler sentirsi parlare assoluto, sentirsi parlare e voler sentirsi parlare assoluto non è altro che il voler sentirsi dire la verità (questa è la storia della metafisica) questa storia è chiusa quando questo assoluto infinito appare a sé come la sua propria morte una voce senza differanza, una voce senza scrittura è nello stesso tempo assolutamente viva e assolutamente morta (una voce senza la differenza, senza questo differire continuo tra significante e significato sarebbe la voce che dice la verità, quindi una voce che è viva perché io la dico, ma è morta perché non dà più nessun rinvio, nessuna possibilità di gioco) noi non sappiamo quindi più se ciò che si è sempre presentato come ri presentazione derivata e modificata della semplice presentazione come supplemento, segno, scrittura, traccia non sia in un senso necessariamente ma nuovamente astorico più vecchio della presenza del sistema della verità (più vecchio della storia, c’è prima l’oggetto o prima la mia ripresentazione dell’oggetto? Perché finché non c’è ripresentazione non c’è oggetto, bada bene, qual è più vecchio? Per Derrida il più antico non è né l’una cosa né l’altra ma la differenza che c’è tra i due) quindi non sappiamo più se ciò che è sempre ridotto e diminuito come accidente, modificazione e ritorno sotto i vecchi nomi di segno, di ripresentazione non ha represso ciò rapportava la verità alla propria morte come la sua origine. Se la forza della “Verfertigung” nella ripresentazione nella quale la Gegenwärtigung (sarebbe il presentare, dunque se la forza della ripresentazione nella quale presentare de presenta per ripresentarsi come tale, questa cosa qui si “de presenta”, scompare per ripresentarsi come rappresentazione, ma il fatto è che soltanto come ri presentazione può esistere perché finché non me la rappresento la cosa non c’è, questo sta dicendo) Se la forza di ripetizione del presente vivente che si ripresenta in un supplemento che non è mai stato presente a sé stesso (eccolo qua “si ripresenta come supplemento” cioè questa mia ripresentazione è un supplemento della cosa che però non è mai stata, questo supplemento che non è altro che questo differire continuo che è appunto la differanza) se ciò che chiamiamo con vecchi nomi di forza e differenza per pensare questa età, per parlarne ci vorrebbero altri nomi che quelli di “segno” o di “ripresentazione” (anche lui si è trovato di fronte al problema di Heidegger di trovare dei nuovi nomi per dire l’Essere per esempio, diceva Heidegger “tutti i nomi che abbiamo per dire questa cosa sono nomi della metafisica, presi dalla metafisica di Platone, di Aristotele ci vogliono nomi nuovi, ma quali?) così come pure per pensare come normale e pre originario ciò che Husserl crede di poter isolare come esperienza particolare, accidentale, dipendente e seconda quella della deriva indefinita dei segni come erranza e cambiamento di scene che concatena le ripresentazioni le une alle altre senza inizio né fine (questo movimento di cui dicevo prima non ha né inizio né fine, il movimento tra significante e significato, il significante senza significato non c’è, il significato senza significante non c’è, tutto questo è senza fine, e non ha un inizio, quando è incominciato? Quando si è incominciato a parlare? Per Derrida è proprio questo differire cioè la possibilità di ripresentarmi qualche cosa la condizione per potere parlare, ma in questo ripresentarmi io ho già aperto un varco inesorabile, un varco per cui questa cosa da cui “penso” che sia partito tutto non è mai esistito, perché non la raggiungerò mai, assolutamente mai) Non vi è mai stata la percezione (Derrida qui è categorico) e la presentazione Gegenwärtigung è una rappresentazione della rappresentazione che vi si desidera come sua nascita o la sua morte (cioè la percezione non c’è mai stata, io non ho mai percepito niente) e perché questa presentazione che sarebbe la percezione, ciò che mi si presenta, (è una rappresentazione della rappresentazione, cioè un modo in cui mi rappresento qualche cosa che è già stato rappresentato, nel senso che qualunque cosa io mi rappresenti questo mio rappresentarmi è già l’effetto di un ri-presentarsi di qualche cosa, necessariamente, adesso fa un esempio che faceva Husserl) Un nome pronunciato davanti a noi fa pensare alla galleria di Dresda, giriamo per le sale un quadro di Tesniere, rappresenta una galleria di quadri, i quadri di questa galleria a loro volta rappresentano dei quadri che a loro volta rappresentano descrizioni decifrabili eccetera, eccetera, eccetera all’infinito nulla ha probabilmente preceduto questa situazione (questa in cui ciascuna presentazione è una rappresentazione di rappresentazioni) nulla certamente la sospenderà (cioè non si può fermare il linguaggio) essa non è compresa come lo vorrebbe Husserl tra delle intuizioni o delle presentazioni, dal pieno giorno della presenza fuori della galleria nessuna percezione ci è data né sicuramente promessa, la galleria è il labirinto che comprende in sé le sue uscite non vi si è mai caduti come in un campo particolare dell’esperienza quello che Husserl crede ancora di descrivere, non rimane allora che parlare, che far risuonare la voce nei corridoi per supplire lo splendore della presenza, il fonema è il fenomeno del labirinto (il fonema è labirinto, cioè il suono, letteralmente il suono fisico è un labirinto nel senso che ci si perde a volere dare a questo fonema una stabilità, una fissità, una immobilità) Elevandosi verso il sole della presenza essa è la via di Icaro (più vuoi che sia presente, più vuoi che sia quello che è e più sfugge, più si allontana) e contrariamente a ciò che la fenomenologia che è sempre fenomenologia della percezione ha tentato di farci credere contrariamente a ciò che il nostro desiderio non può non essere tentato di credere la cosa stessa si deruba sempre /…/ contrariamente alla rassicurazione che ci da Husserl lo sguardo non può dimorare (cioè lo sguardo non vede la cosa, vede rappresentazioni. La questione del segno è fondamentale per intendere come il segno costituisca quella rappresentazione di rappresentazione, perché già il segno è rappresentazione di qualche cosa, quando io mi rappresento qualcosa mi rappresento un segno non quella cosa, per questo è rappresentazione di rappresentazione, perché non c’è la cosa, è questo che sta dicendo Derrida, per cui non può essere che rappresentazione di rappresentazione, si considera generalmente la parola, come rappresentazione di cosa, la rappresentazione di una cosa ma la cosa non c’è perché è differita continuamente quindi è soltanto, qualunque rappresentazione, qualunque segno, è già una rappresentazione, la cosa si differisce continuamente perché dicevo prima è soltanto nella rappresentazione, in quanto mi rappresento qualche cosa che questo qualche cosa esiste, in questo movimento, di nuovo torniamo al significante, al significato: è soltanto se ho un significato che posso dire un significante, ma dico un significante se questo significante ha un significato: Questo differire continuo tra l’uno e l’altro infinitamente comporta una differenza, ma una differenza che non si vede, non esiste di fatto questa differenza, non la puoi situare da qualche parte e apposta lui usa questo sistema di scrivere in francese “differance” mettendo la “a” al posto della “e” perché questa differenza di cui lui parla non ha voce, letteralmente è nulla, il nulla da dire, il non avere più nulla da dire, non perché tutto è stato detto, ma perché in questo differire continuo tra significante e significato non c’è più nulla che sia da dire, nel senso del dire pieno, cioè del dire che dice come stanno le cose, non in questo senso, non c’è più niente da sapere, questo non significa che non si debba sapere nulla, non c’è niente da sapere nel senso che il sapere comunque è viziato, è preso continuamente in questo raggiro del segno, un autentico raggiro, fa pensare che questa sia la cosa, ma no, ciò che vedi non è la cosa ma è la tua rappresentazione, è l’immagine. Senza la rappresentazione che ho di questa cosa la cosa non c’è, diceva prima Derrida in modo molto esplicito che la percezione non c’è, c’è rappresentazione ma non c’è percezione, non percepisci letteralmente niente, questa è la tesi di Derrida …

Intervento: la volontà di potenza e ciò che dice Derrida sul segno?

La potenza è tutto sommato il progetto di Husserl, avere la percezione pura, la percezione pura della cosa in quanto tale, ma poi si accorge che non riesce a togliere tutto quello che deve togliere, non riesce a togliere soprattutto la voce, non posso presentarmi qualche cosa se non come qualche cosa ma devo sapere che è un qualche cosa, se so che è un qualche cosa c’è già un mio sapere e questo sapere “mi sta dicendo” letteralmente che questo è qualcosa, se sta dicendo qualcosa.