16 novembre 2022
L’inizio della filosofia occidentale di M. Heidegger
La volta scorsa ci siamo soffermati su una domanda, che era rimasta senza risposta. A pag. 93. …non ci chiediamo proprio per nulla che cosa sia questo o quell’ente, e nemmeno se questo o quell’ente sia, bensì poniamo la domanda: che cos’è l’ente, l’ente in quanto tale, nella misura in cui è, in generale, un alcunché di essente? Che cos’è che, in generale, fa dell’essente un essente, del tutto a prescindere dalla sua specie e dal suo ambito di appartenenza? Rispondiamo: l’essere. Con questa risposta però non risolviamo la domanda dell’essere, all’opposto non facciamo che riconoscerne anzitutto il carattere problematico: l’ente è il noto, il suo essere è l’ignoto. L’ente è il non-problematico. L’essere è il problematico. Quando domandiamo “che cos’è l’ente?”, domandiamo dell’essere. Ci portiamo dinanzi il non-problematico nella sua problematicità. Ma com’è possibile? Come possiamo conoscere l’“essente” e al tempo stesso non conoscere l’essere? Non è forse vero che siamo in grado di indicare e porci dinanzi qualcosa come l’“essente” proprio nella misura in cui, per esempio, non lo confondiamo con il non-essente, il nulla? Tuttavia dal pericolo di confonderci e di prendere un abbaglio siamo preservai solo nella misura in cui disponiamo di un contrassegno caratteristico in base al quale possiamo distinguere l’ente dal non-ente. Ma in virtù di cosa l’ente si distingue da ciò che non è l’ente? In virtù dell’essere, cioè in virtù di ciò che, indubbiamente, manca comunque al non-ente. Quindi, nella misura in cui indichiamo l’ente, ce lo poniamo dinanzi, e abbiamo in genere familiarità con esso, allora lo conosciamo – l’ente – in quanto tale. È dunque per questo che sappiamo che cosa significa “essere”. L’essere ci è noto. Ma non abbiamo detto che l’“essere” è quell’alcunché di cui domandiamo nella domanda dell’essere? L’ente è il non-problematico – l’essere è il problematico. Ora però vediamo che il problematico, l’essere, ci è anch’esso noto; anzi deve per forza esserci noto, poiché in mancanza di ciò il non-problematico, l’ente, non potrebbe rimanere per noi nemmeno un non-problematico. Per di più, l’essere dev’esserci noto anche perché solo in tal modo può diventare un che di problematico: come potrebbe mai infatti l’essere essere posto in questione se ne avessimo in assoluto nessuna conoscenza preliminare? Insomma: l’ente ci è noto, ma anche l’essere. Eppure finora, per tutta la vita, di questa nostra conoscenza con l’essere non abbiamo mai saputo nulla. È ben vero che l’ente ci viene incontro, ci si stringe attorno, ci condiziona profondamente e ci cattura ed è vero che all’ente andiamo incontro, oppure ci sottraiamo ad esso; così com’è vero che ci lasciamo scacciare da esso, oppure vi sprofondiamo – ma l’essere, e addirittura la nostra familiarità con l’essere sono cose a cui finora non abbiamo mai prestato attenzione, anzi ancora adesso potremmo credere che a imperversare qui è solo una distinzione meramente verbale: “ente” ed “essere”, una qualunque sofisticheria verbale dietro la quale non c’è nulla, e che in ogni caso non ci riguarda per nulla! Eppure, rimane la questione. In effetti, ha ragione Heidegger, ogni domanda che domanda dell’ente, in realtà, domanda dell’essere dell’ente oppure non domanda affatto. Dell’ente che cosa so? So che è, che è qualcosa, cioè, il sapere che è riguarda l’essere, devo sapere che qualche cosa è per potere poi sapere dell’ente. Portiamo la cosa nei termini di significante e significato, che forse è più semplice, visto che parlare di ente e di essere sembra di parlare di cose astratte. Il significante come lo conosco, come so che è qualche cosa? Perché ha un significato, perché significa qualcosa, ed è solo per questo so del significante. E, infatti, de Saussure, nel suo schemino, pone il significato, la barra, che indica la non sovrapponibilità, la distinzione dei due, e sotto il significato. Fu Lacan a capovolgere, a mettere sopra il significante e sotto il significato. Per lui aveva assunto la priorità il significante, immaginando che fossero le cose che si dicono a essere rilevanti, non tanto il che cosa significassero; ma si è ingannato profondamente, mentre de Saussure aveva inteso bene la questione: è il significato che è prioritario, perché senza significato – senza l’essere, per usare i termini di Heidegger – non c’è nessun significante. Quindi, è il significato che avvia tutto il processo, il fatto cioè che il significante sia innanzitutto qualcosa, perché il significato del significante dice prioritariamente che il significante è qualcosa anziché essere nulla. A pag. 98. Insomma, la nostra familiarità con l’essere implica anche che non gli prestiamo la minima attenzione. L’essere ci rimane indifferente, anzi, più ancora, non ci è nemmeno indifferente, poiché se così fosse bisognerebbe che, prima di metterlo immediatamente e per sempre da parte, vi avessimo comunque prestato attenzione. Quindi, nemmeno indifferente, ma del tutto dimenticato, l’essere non “c’è” affatto, poiché c’è solo l’ente. Questa è una questione interessante, la dimenticanza dell’essere, su cui tra l’altro Heidegger ha insistito per tutta la vita, della quale cosa accusa la filosofia, di avere dimenticato l’essere, tenendo conto solo dell’ente. Ma questa dimenticanza non è casuale. L’essere, come sappiamo dalle pagine precedenti, quando parlava di Anassimandro, è l’ᾂπειρον, quindi, l’essere dell’ente, ciò che dà all’ente la sua enticità è l’ᾂπειρον, l’indefinito, l’indeterminato, l’indelimitato. Questo naturalmente crea un problema, nel senso che ciò che dà all’ente la sua enticità è qualcosa che non può essere determinato; di conseguenza, non posso sapere con che cosa ho a che fare quando ho a che fare con l’ente. Posso naturalmente credere di sapere, e così accade, il famoso δοξάζειν, di cui parlava Platone, ma non so né posso sapere, se intendiamo con sapere l’epistème, un sapere certo, sicuro, affermato e consolidato, indubitabile. Riflettere sulla domanda dell’essere dell’ente porta a delle conseguenze, e cioè al considerare che non sappiamo né possiamo sapere di che cosa esattamente stiamo parlando. Ma è anche proprio questo “non sapere” che ci consente di procedere. Questo “non sapere” è ciò che avvia la volontà di potenza: io voglio sapere, io voglio dominare l’ente, ma come lo domino se ciò che lo fa essere quello che è, è l’ᾂπειρον? Non posso. Dunque, è necessario che io creda che l’ente sia quello che è non in virtù dell’essere, che di fatto lo fa essere quello che è, ma lo sia per causa sui, per virtù propria. Da qui l’idea della realtà, che è quella che è. Quale sia nessuno lo sa, però è quella che è, perché se si comincia a pensare, come ha fatto Heidegger e come hanno fatto alcuni presocratici, allora questo essere, che è il fondamento di tutto, della stessa conoscenza, è ᾂπειρον. E, quindi, si butta via tutto? No, perché non possiamo smettere di parlare, quindi, dobbiamo continuare a parlare e, continuando a parlare, devo fare come se ciascun ente fosse quello che è per virtù propria, e non in virtù dell’essere, perché dell’essere, dell’ᾂπειρον, non posso saperne niente, ed è per questo che non lo devo interrogare. Da qui alcune indicazioni di Platone e di Aristotele: non interrogate oltre. Questa interrogazione, in fondo, è la domanda dell’essere dell’ente, che non deve porsi; ponendola, ci si ritrova smarriti. A pag. 101. Ma come può l’essere diventare per noi degno di domanda se non lo conosciamo a sufficienza per decidere se esso possieda, o meriti, una simile dignità? E pur tuttavia lo conosciamo! Anche perché ne parliamo ininterrottamente. Ci è anzi fin troppo noto! Non è per l’appunto al suo essere fin troppo noto che ci si richiama quando si assicura che nel caso dell’“essere” e dell’“è” non pensiamo né possiamo pensare niente di più? Forse però proprio in questa constatazione e supposizione consiste quell’assenza di pensiero che certo non diverrebbe né migliore né più legittima qualora giungesse addirittura alla conclusione seguente: proprio perché di solito nel caso dell’“essere” e dell’“è” non sono “niente altro” che una mera espressione verbale e una forma grammaticale che si prendono gioco di noi. Come se in tal modo si fosse deciso qualcosa che sposta il problema nell’ambito del “mero” uso linguistico; come se così facendo sapessimo comunque che cos’è una parola, e tanto più che cosa sono il linguaggio e l’uso linguistico. Ma quanto poco ne sappiamo noi dell’essenza del linguaggio? Tanto quanto ne sappiamo dell’essenza dell’essere. Dell’essenza del linguaggio qualche cosa ne siamo venuti a sapere, lui no. Però, permane questo fastidio che interviene quando si domanda dell’essere dell’ente, e cioè che cosa significa dire che una cosa è quella che è, perché non si sa rispondere, non si sa andare oltre, è così e basta. A pag. 105. In termini quindi provvisori, ci limitiamo a dire qui che ciò di cui tale contenuto semantico si tratta è la “presenza”, non intesa però come l’universale formale – ovvero come rimasuglio ancora più vuoto – ma come la raccolta. Qui pone una questione interessante. Teniamo sempre conto che “raccolta” in greco suona λέγειν, da cui λόγος, è un raccogliere insieme. Ed è appunto nel senso di questo significato di essere che intendiamo l’ente come ciò che rimane, perdura, è disponibile, è presente sottomano, è reale. Per essere intendiamo quindi qualcosa di assolutamente determinato. Ed è proprio questa determinatezza della comprensione dell’essere a garantire l’immediata sicurezza e familiarità con cui guardiamo alle distinzioni sopra elencate. Cosa vuol dire tutto ciò? Questo richiamo, che fa Heidegger, al raccogliere insieme, al λέγειν, quindi al λόγος, ci sta dicendo che noi conosciamo l’essere perché parliamo, perché ciascuno non è altro che ζοον λογον εχων, un vivente provvisto di linguaggio. È a partire da questo, lo dirà infatti più avanti, l’importanza della domanda, è dalla domanda che scaturisce l’essere, dalla domanda, quindi, dal linguaggio; senza linguaggio non c’è nessuna domanda, non c’è nemmeno l’essere, non c’è nulla. Quindi, ci sta dicendo che è in questo λόγος, in questo raccogliere – il λόγος è questo: mettere insieme cose – che è possibile la scaturigine della domanda dell’essere dell’ente. Perché l’essere? Perché parliamo: è questa l’unica possibile risposta. Non abbiamo forse affermato che la domanda dell’essere è la più ampia e profonda di tutte le domande? E che l’essere è talmente onnicomprensivo da trovare il suo limite solo nel nulla? Adesso però vediamo che dall’essere cadono fuori il divenire, il dovere, il pensare e la parvenza: nell’ambito del divenire rientrano sia la natura con i suoi processi e i suoi sviluppi, sia la storia con i suoi eventi e le sue manifestazioni; nel dovere ricade ogni agire morale dell’uomo, anzi qualsiasi fare che si sottoponga a pretese e compiti; il pensare, la coscienza e l’esperienza vissuta rientrano nell’intero ambito del soggetto e della soggettività; la parvenza è tutto ciò che si contrappone alla verità. Qui non tiene ancora conto del fatto che tutte queste cose non esisterebbero né sarebbero mai esistite senza il linguaggio, cioè, anche tutte queste cose che lui elenca sono domande, e la domanda non può porsi in assenza del linguaggio. È il problema che consideravamo l’altra volta leggendo Colli e il suo fortissimo limite, cioè il porre qualcosa di immediato senza tenere conto che lo stesso immediato sorge per una domanda intorno all’immediato in questo caso, quindi, sorge da una relazione, dal linguaggio che è relazione. Quindi, potremmo dire che la comprensione dell’essere, di cui parlerà tra poco, non è altro che la comprensione di essere nient’altro che ζοον λογον εχων, un vivente provvisto di linguaggio. A pag. 114. Qual è dunque il nostro atteggiamento fondamentale nei confronti di quella comprensione dell’essere di cui è ora in gioco l’essere degna di domanda? Abbiamo che essa è per noi qualcosa di indifferente, anzi addirittura di completamente dimenticato. La comprensione dell’essere e l’essere in essa compreso non ci preoccupano minimamente. La sola cosa che in ogni momento ci importa è l’ente, il fatto di cavarcela con l’ente, di venire a capo dell’ente, di soddisfare l’ente e di sistemare l’ente, il fatto che sia l’ente a sorreggerci, a spronarci, a stimolarci, e viceversa che questo stesso ente non giunga a sopraffarci e a opprimerci, il fatto che possiamo contribuire a plasmarlo e a dargli spazio. Tutto il nostro comportamento non solo si rapporta in genere sempre e solo all’ente, ma si è in qualche modo preventivamente votato all’ente. In termini più precisi: innanzitutto e per lo più il nostro comportamento è tale da consentire in sé nello sprofondarsi nell’ente fondamentalmente accessibile, anzi in tutto ciò che è abituale e quotidiano, per perdersi totalmente in esso. Questo carattere del comportamento umano… /…/ lo chiamiamo insistenza. A pag. 115. L’insistenza… Cioè, essere nell’ente senza preoccuparsi minimamente dell’essere, e cioè del fatto che l’ente è quello che è per via dell’ᾂπειρον, dell’indeterminato, dell’indelimitato, dell’infinito. L’insistenza implica una caratteristica mancanza di preoccupazione sia per la comprensione dell’essere sia per l’essere in essa compreso. Tuttavia questo irrigidimento dell’insistenza del comportamento può essere allentato. Noi abbiamo già compiuto un allentamento siffatto nella misura in cui ci siamo in genere prestati a interrompere l’abituale sprofondarsi nell’ente nel suo predominio assoluto, anche se in un primo momento solo nel senso che abbiamo in linea di massima imparato a vedere che c’è qualcosa come la comprensione dell’essere e l’essere il essa compreso. Ciò che c’è non è esaurito da quell’ente in cui siamo soliti irrigidirci in modo esclusivo. Al di là, al di fuori e prima dell’ente c’è l’essere – quell’essere che per l’appunto ci si dà nella comprensione dell’essere. Prima dell’ente, dice Heidegger, c’è l’essere, più propriamente la comprensione dell’essere. Possiamo dirla così la comprensione dell’essere: siamo linguaggio, questo ente che mi si fa incontro è linguaggio anche lui, in quanto ente è un elemento del linguaggio. E la comprensione dell’essere, dice, non può essere altrimenti, perché senza questo essere, cioè senza linguaggio, l’ente non esiste, non esiste per conto suo, come invece vuole qualunque ideologia, il pensare comune. A pag. 115. Il rapporto con l’ente non è allentato, ma lo è solo il comportamento in sé, nella misura in cui adesso emerge qualcosa che vi è già presupposto. Heidegger ci sta dicendo che mano a mano che ci interroghiamo su queste questioni si allenta l’irrigidimento sull’ente perché incominciamo a vedere qualche cos’altro. Infatti, nel nostro comportamento nei confronti dell’ente affiora ogni volta anche la comprensione dell’essere, appunto nella modalità precedentemente descritta. Parliamo quindi di uno stato di fatto la cui chiarificazione ci mostra che l’effettività del comportamento è più ricca di ciò che di esso siamo soliti sapere e considerare. È un altro modo per dire che in ciò che vedo, che esperisco, c’è molto di più di quello che vedo, che esperisco: c’è il linguaggio. Naturalmente, non vedo il linguaggio, però è la condizione per cui io posso, più che vedere, dire di vedere le cose. A pag. 117. Il completo disconoscimento della dignità dell’essere lo realizziamo soltanto se priviamo l’essere di qualsiasi sovranità in assoluto. Il che accade nel modo più drastico quando supponiamo che qualcosa come l’essere e la comprensione dell’essere non abbiano nulla a che fare con il nostro comportamento. Che cosa ne consegue per quest’ultimo? Ne consegue che dobbiamo comportarci cercando di cavarcela senza comprensione dell’essere e senza essere. Sta qui la radice di quel peculiare interrogarsi sulle “condizioni di possibilità di qualcosa”, da intendersi come un livello e una formula della domanda riguardante l’essenza! Dice quel peculiare interrogarsi sulle “condizioni di possibilità di qualcosa”: è esattamente ciò che mancava in Colli, rispetto alla sua idea dell’immediato; ciò che mancava era proprio questa interrogazione sulle condizioni di possibilità di affermare quello che stava affermando. È per questo che parlavo di teoresi e non di teoria: la teoria descrive come stanno le cose secondo lui. Posto quindi che non comprendessimo che cosa significano “essere” ed “è”; posto che non comprendessimo né il “che cos’è” nella sua differenza dal “che è”, né l’“esser-così” e l’“esser-vero”; posto che non comprendessimo nemmeno l’essere nel suo significato singolare e nel suo distinguersi da divenire, dovere, pensare e parvenza; posto che non solo non comprendessimo queste espressioni linguistiche, ma soprattutto ciò che vogliono dire – che cosa accadrebbe allora? Accadrebbe che assolutamente nessun ente potrebbe venirci incontro, nessun ente potrebbe, in quanto tale, né opprimerci né rallegrarci, né obbligarci né intrattenerci né occuparci… Non ci sarebbe niente se non ci fosse l’essere, se cioè non ci fosse linguaggio. Naturalmente, il linguaggio non è solo l’essere, il linguaggio è la relazione simultanea di essere ed ente. Cosa che sfugge anche ad Heidegger, che invece tende a mantenerli separati. Infatti, la sua differenza ontologica consiste proprio in questo. Ma l’essere, così come lo sta ponendo, anche se non se ne accorge sempre, comunque ha a che fare con il linguaggio, con quello che poi Severino chiamerà il concreto, l’ᾂπειρον, l’indelimitato, concreto che è la condizione di esistenza di tutti gli astratti, cioè di tutti gli enti. A pag. 118. In definitiva, non potremmo nemmeno chiederci se l’ente dunque sia, e che cosa sia, poiché anche in questo caso dovremmo indubbiamente già comprendere l’essere. Se io mi chiedo che cos’è l’ente, sto chiedendo che cosa “è”, dando per acquisito che sia, quindi, do già per acquisito l’essere. Heidegger poneva prima l’essere come presenza, come facevano gli antichi greci, per i quali l’essere è ciò che appare così come appare. Ma che cos’è che appare? Appare ciò che dico, in prima istanza, e questo ha una ragione precisa, perché qualcuno potrebbe obiettare che prima appaiono le cose che vedo così come sono. Invece no…
Intervento: La percezione…
Sì, la percezione, quella che Hegel chiamava l’aspetto intellettivo, poi c’erano quello dialettico e quello speculativo a formare la triade. Io non percepisco Cesare se non so che cosa è Cesare, non percepisco niente. Per percepire, così come lo intendiamo, devo sapere già che cos’è; così per un significante, perché sia un significante io devo conoscerne il significato, sennò non è un significante. Devo sapere che cos’è Cesare, sennò non è Cesare, sennò non percepisco nulla, perché non so nemmeno che cosa c’è da percepire. Si percepisce a partire da che? Dai sensi? Saremmo come un bruco. Potremmo anche dirlo, ma lo diciamo comunque noi che un bruco percepisce un ostacolo e lo aggira, ma non sappiamo niente di quello che “pensa” il bruco, perché non abbiamo modo di chiacchierare con lui.
Intervento: La telecamera vede ma non può dire di vedere.
Il dire è l’essere. Dicendo che l’essere è ciò che appare così come appare, può apparirmi così come mi appare perché io lo significo, perché per me è qualche cosa, e già questo è un significato, lo percepisco come qualcosa, che non sono io, per esempio. Poi Heidegger insiste sul che cosa accadrebbe se non ci fosse la comprensione dell’essere. A pag. 118. La nostra esistenza sarebbe fondamentalmente impossibile. La comprensione dell’essere è il fondamento della possibilità della nostra esistenza. Non ci sarebbe neanche il concetto stesso di esistenza. Bisogna dirlo con più precisione. Tanto più che queste espressioni vengono usate con significati differenti e sono diventate oggi parole alla moda. C’è poi un capitoletto dove parla di Kierkegaard e di Jaspers, a proposito delle parole “esistere” ed “esistenza”. A pag. 119. “Esistere” ed “esistenza” derivano da existentia; da molto tempo questa parola viene usata come termine tecnico distinto da essentia. Ciò che si intende con questi due termini lo sappiamo già: l’essentia è il “che cosa” (l’essere di un ente che intendiamo quando domandiamo della essenza, del suo “che cosa”); invece, l’exsistentia è quell’essere dell’ente che intendiamo quando domandiamo se un ente avente una determinata essenza è oppure non è – cioè domandiamo del suo “che è”, del suo essere lì presente nel senso più ampio. In base a questo logoro significato ciò vuol dire semplicemente la realtà effettiva di un che di reale di qualche genere. È con questo significato che anche Kant utilizza ancora la parola esistenza, che nel suo caso equivale tout court a “realtà” e a “esserci”… C’è poi una critica a Jaspers. A pag. 120. Al centro del filosofare di Jaspers sta soltanto l’esistenza, l’esistente, vale a dire l’uomo che si rapporta a se stesso e, in ciò, al fondamento del mondo. Da questo punto di vista la definizione di tale filosofia – che Jaspers stesso utilizza – come “filosofia dell’esistenza” è del tutto appropriata. È però al tempo stesso insensato e superficiale definire (cioè concepire) così le mie opere – del tutto a prescindere dal fatto che io non utilizzo assolutamente la parola esistenza nel senso di Kierkegaard e di Jaspers, cioè, per l’appunto, determino oggettivamente in modo diverso l’essenza dell’uomo. Qual è la questione? Per Jaspers l’esistenza è l’esistenza dell’uomo che si rapporta a sé; per Heidegger l’esistenza è, prendendo lo spunto dall’etimo, ex-sistere, stare fuori. Mentre l’esistenza in Jaspers è il riflettere su di sé, per Heidegger è l’uscire fuori di sé, cioè il trovarsi nella relazione. Lui parla del progetto-gettato che caratterizza l’esserci, il Dasein, l’uomo, è l’essere sempre gettato fuori di sé. Quindi, questa esistenza, che per Jaspers è una riflessione su sé, per Heidegger è esattamente il contrario, cioè è un estroflettersi da sé, un uscire fuori da sé e, quindi, trovarsi continuamente in relazione con altro. Ve l’ho riassunta in tre parole. A pag. 121. Qui Heidegger lo precisa. Noi (Heidegger) infatti usiamo questa parola in un senso che ne fa emergere al tempo stesso il significato radicale: ex-sistere – del tutto a prescindere se in precedenza sia mai già stata usata in questo modo (e in effetti non è mai accaduto): ex-sistere significa “uscire fuori”, “ex-por-si”. Questo ex-sistere deve cogliere linguisticamente il modo di essere di quell’uomo all’interno della cui storia, noi stessi stiamo e siamo. L’esistenza è il modo di essere di quell’uomo che noi stessi siamo. Chiamo “esistenziali” i caratteri di questo modo di essere, e “analisi (analitica) esistenziale” l’interrogare, indagare e analizzare l’uomo in riferimento al suo essere, nonché all’articolazione e al carattere articolato di tale essere. Così in Essere e tempo I. Nondimeno, in questo trattato il concetto di esistenza non viene impiegato con la necessaria univocità e determinatezza, e rimane indietro riguardo alla chiarezza del problema dominante. A pag. 123. Qui lo precisa forse meglio. Per noi ciò che è caratteristico dell’esistenza non è il comportamento in quanto rapporto a se stessi… Questo è ciò che intendeva Jaspers. … né nel senso del sé in quanto persona, né altrimenti del sé in quanto proprio corpo o propria anima – ma il comportamento in quanto rapporto tout court, cioè in quanto quell’essere-in-relazione con l’ente, nel cui caso l’ente, in qualche modo, si rivela in quanto tale. L’essere è sempre essere in relazione con l’ente. Il significante è sempre in relazione con il significato, non c’è senza questa relazione. Questa relazione è ciò che poi Peirce chiamerà segno, così come de Saussure. Hegel, dopo avere individuato il momento dell’intellettività, cioè della percezione, dell’in sé, indica poi la dialettica, il ritorno del per sé sull’in sé, dopodiché c’è la consapevolezza della relazione. A pag. 124. Ma che cosa significa allora esistenza? L’ha già indirizzata la risposta: l’esistenza è relazione. La determinazione della sua essenza non può esaurirsi nell’essere un comportamento nel senso sopra illustrato. Oppure sì? La questione è che dimentichiamo lo stato di fatto a cui tutta la nostra riflessione è alla fine pervenuta: la comprensione dell’essere. La comprensione, cioè, del fatto che siamo ζοον λογον εχων. Se il comportarsi è un essere-in-relazione con l’ente, allora facendone la prova risulta evidente che proprio il comportarsi in quanto tale può essere ciò che è solo in base alla relativa comprensione dell’essere e alla sua priorità. Il comportarsi è un essere in relazione con l’ente. Può intendersi in due modi, cioè, come l’essere che è in relazione con l’ente, ma anche il trovarsi continuamente in relazione con l’ente, noi siamo in relazione con l’ente. È questo che intendeva Heidegger quando parlava di essere-nel-mondo: essere in continua relazione con gli enti, perché l’essere è essere in relazione con l’ente. All’essenza del sé appartiene l’uscire-fuori da, l’esser-fuori da sé, l’ex-sistere. Solo ciò che si comporta, cioè è ex-sistente, può essere un sé. Soltanto ciò che è in relazione con altro è se stesso. È questo che sta dicendo: la condizione perché sia se stesso è che sia in relazione con altro; in altri termini, che non sia se stesso se non a condizione di essere se stesso. A pag. 125. Il comportarsi in rapporto a se stessi non costituisce l’essenza dell’esistenza, ma la presuppone, solo ciò che esiste, ovvero solo ciò che comprende l’essere, può comportarsi in rapporto se stesso. Se non si comprende l’essere non si comprende nemmeno se stessi – ne parlerà a breve a proposito della libertà –, cioè, se non so di essere nel linguaggio non ho nessuna possibilità di essere quello che sono, perché non so che cosa sono; se, invece, lo so, so che sono in relazione con infinite altre cose, ininterrottamente. È anche questo, in parte, che fece pensare ad alcuni a una sorta di “comunismo” di Heidegger – oltre al fatto che è sempre stato accusato di nazismo –, cioè il fatto che l’uomo, l’esserci, è tale perché è in relazione con altri; è in questa continua relazione, in questo continuo discutere, parlare con altri, che è quello che è; quindi, in questa comunanza continua con gli altri. È l’opposto del solipsismo, di cui alcuni, non avendolo ben inteso, hanno accusato Heidegger; no, è proprio il contrario, l’esserci è esserci nel mondo, cioè, in una continua relazione con tutti gli altri, perché l’essere è essere in relazione. A pag. 126. La comprensione dell’essere ha il predominio su ogni comportamento, nella misura in cui soltanto la comprensione preliminare dell’essere rende accessibile, per un comportarsi, qualcosa in quanto ente. È questo lo stato di fatto, che ci appare ora come il fondamento essenziale dell’esistenza, cioè, di volta in volta, di noi stessi. Dice che la comprensione dell’essere ha il predominio su tutto il mio comportamento, che cambia naturalmente dal fatto che io sappia di essere linguaggio oppure no; se non so di essere linguaggio, cioè, se non ho nessuna conoscenza dell’essere, sono in balia dell’ente che credo che sia quello che è per virtù propria. Se, invece, c’è la comprensione dell’essere, allora mi rendo conto che l’ente non è altro che ciò che è in relazione con l’essere, si relaziona continuamente all’essere, dipende dall’essere, cioè, l’ente è quello che è per via del fatto che il suo essere, il suo significato, è l’ᾂπειρον, è l’infinito: è questo che caratterizza la comprensione dell’essere e che rende impossibile il continuare a pensare all’ente come a qualcosa che è in quanto tale. L’ente non è nulla senza l’essere, ma l’essere è l’infinito. A pag. 127. Da questo punto di vista anche il vecchio problema platonico di sapere come si possa superare l’abisso – il χωρισμός (separazione) – che si spalanca tra il singolare e l’universale, è una domanda impossibile, poiché se non sussistesse ciò tra cui si spalanca l’abisso, allora non sussisterebbe nemmeno l’abisso stesso. Se non ci fosse la parola, l’atto di parola, il linguaggio, non ci sarebbe neanche l’abisso che si spalanca nell’atto di parola. Riportiamo la cosa all’uno e ai molti: se non ci fosse la parola che parla dell’uno e dei molti non ci sarebbe questo χωρισμός, questa divisione, questo abisso tra i due, abisso che non è colmabile. Non è che per comprendere l’essere abbiamo anzitutto bisogno di attendere l’ente e l’incontro con l’ente, poiché, al contrario, siamo sempre già al di là e al di fuori dell’ente in quanto tale, oltre esso e via da esso, lo abbiamo già sempre anticipato d’un balzo nella comprensione, e solo in seguito a ciò abbiamo la possibilità che ciò che si fa incontro venga da noi lasciato-essere come un ente e in quanto quell’ente che esso è, e come esso è. Il fatto cioè che essa, oltrepassando l’ente, anticipatamente salga al di là di esso, lo chiamiamo la trascendenza. La trascendenza è ciò che in un certo senso determina l’essere stesso, cioè l’essere sempre in relazione: è questo la trascendenza, è l’essere sempre fuori. Quella cosa che prima chiamava existentia, cioè, l’essere, come essere in relazione a, è sempre un essere fuori, è sempre un essere verso l’ente. È per questo che parla di una sorta di pre-comprensione dell’ente: io conosco già l’ente perché “so” che l’essere è essere in relazione all’ente, necessariamente. Quindi, l’ente è già compreso nel suo essere, non posso non comprenderlo, sennò non c’è neanche l’ente, non c’è niente. Ogni comportamento può dirsi tale solo sul fondamento della trascendenza della comprensione dell’essere. Esistenza è, nel suo fondamento essenziale, trascendenza. Esistere significa questo: essere in relazione a, e il non potere non essere in relazione a, perché è questo l’essere: essere è essere in relazione. L’essenza dell’uomo consiste nella sua esistenza. E questa sua essenza è possibile sul fondamento della trascendenza. La trascendenza accade come comprensione dell’essere. Quando comprendo l’essere mi accorgo della trascendenza, mi accorgo di essere in relazione, di esistere in quanto in relazione a, e che quindi ciascun ente esiste in relazione a. Non c’è l’ente in quanto tale per virtù propria, ma quell’ente appare perché è in relazione, in una relazione con l’essere, cioè, con l’ᾂπειρον da cui sorge, ma in relazione continua con altri enti. Qui approccia la questione della domanda. A pag. 129. Ciò che ha in se stesso rango e dignità non dovremmo piuttosto riconoscerlo e lasciarlo valere senz’altro, cioè senza domanda? Non è forse vero che il domandare appare qui solo come un volersi immischiare, un invadente voler metter mano, a discapito di ogni distanza? Non è evidente che, interrogando, non possiamo che attirare l’interrogato entro la nostra cerchia, abbassandolo al nostro livello? Ne deriva quanto segue: 1) in quanto tali, il domandare e l’interrogare non costituiscono per nulla senz’altro un riconoscimento della dignità; 2) non è deciso se e come la comprensione dell’essere, benché abbia in sé un rango e una dignità, richieda in effetti, come modalità di adeguato riconoscimento della sua dignità, uno specifico domandare. Tuttavia, dobbiamo dire che richiede un domandare, cioè, non può darsi senza linguaggio. Il linguaggio è domandare continuamente dell’essere dell’ente; ogni domanda, dalla più banale alla più elaborata, è sempre una domanda che domanda dell’essere dell’ente, cioè, domanda che cos’è; il chiedersi che cos’è è il domandare dell’essere dell’ente. A pag. 131. Posto che l’essere dell’uomo sia giunto all’esistenza, allora è accaduta una trasformazione dell’uomo. Nel passaggio all’esistenza egli viene determinato a partire da essa. Quando giunge all’esistenza, quando se ne accorge, naturalmente. In quanto comprensione dell’essere, l’esistenza è lasciar-essere: libertà. Il passaggio alla libertà conduce alla svelatezza, dunque a una liberazione da… per…. Ciò accade solo nel contegno e nel “comportarsi in rapporto a se stessi”. Contegno e ipseità. Da intendersi non in termini morali… /…/ C’è libertà solo in base alla liberazione e in quanto liberazione. La liberazione per la libertà può, secondo la sua essenza, essere guidata solo da ciò in vista di cui essa propriamente si libera, quindi dall’esistenza e da ciò che in essa ha la priorità, cioè dalla comprensione dell’essere e da ciò che in essa si manifesta. Mette in stretta connessione la libertà e la comprensione dell’essere. La questione qui è che ciascuno incontra la libertà nel momento in cui – la dico in un modo che Heidegger non dice, ma lo dico io – libera l’ente da quella fissità, di cui parlava prima, dall’insistenza per condurlo nell’existentia. L’ente non è quello che io credo che sia, non lo è mai stato né lo sarà mai, ma l’ente è quello che è in quanto sempre in relazione; solo che è in relazione a ciò che è indeterminato. Ma perché e a quale scopo ne deve andare dell’essere e della comprensione dell’essere? Che ce ne facciamo di questa cosa? Che cosa accade, dunque, qualora ne vada di queste cose? Accade niente di meno che quell’ente nel suo insieme che, prima, rimaneva ancora velato nella manifestazione, trova per la prima volta – e per il futuro –, in un modo o nell’altro, il luogo e il margine in cui può uscire fuori dalla sua velatezza per essere, in assoluto, l’ente che è. Solo così gli viene procurata anzitutto la velatezza stessa, giacché prima non aveva nemmeno questa. La comprensione dell’essere ci mostra l’ente per quello che è, cioè il fatto di essere in relazione necessariamente con l’essere, che è ᾂπειρον. Ora, questo ci libera dall’insistenza nell’ente e libera l’ente a svelarsi per quell’ente che è, cioè, relazione. Tutte le cose che vediamo, tocchiamo, pensiamo, ecc., non sono altro che relazioni, relazioni continue. Potrà apparire bizzarro, ma toccare qualcosa è toccare una relazione, ogni cosa che tocco, mangio, ecc., è relazione, sennò non esisterebbe, non esisterebbe neanche il mangiare, perché il mangiare è comunque un concetto. Quello che noi chiamiamo mangiare non è quello che, per esempio, fa l’animale, lui non mangia, così come non vive e non muore, non ha né il concetto di vita né di morte, quindi, non ci sono queste cose, che sono appunto concetti, quindi, relazioni e non enti di natura. La vita e la morte non sono enti di natura, non esistono fuori dal linguaggio, perché non sarebbero neanche pensabili. A pag. 132. L’essere insomma non è mai e in nessun luogo rinvenibile tout court, quindi va cercato – ovvero appreso tramite la domanda – originariamente e assolutamente per se stesso. Tramite la domanda, soltanto nella domanda, quindi nel linguaggio, noi troviamo l’essere, troviamo l’infinito. È l’uomo a doversi fare carico di questo domandare. E la forma più immediata in cui tale domandare in genere inizia consiste nella domanda: che cos’è l’ente? Una domanda che ne implica già un’altra: che ne è dell’essere? Se mi chiedo che cos’è l’ente, do per acquisito che l’ente sia: “che cos’è l’ente?” e, quindi, “qual è l’essere dell’ente?”. In questo modo l’essere viene posto anticipatamente in questione, il cercato viene formato in quanto tale, e per la precisione come ciò di cui ne va quando a essere in gioco è l’ente in quanto ente. Solo ed esclusivamente in virtù di questo domandare originario l’essere diviene ciò di cui ne va prima di ogni ente e per ogni ente. Cioè, nella domanda, il fatto di pormi la domanda: se io mi domando qualche cosa è perché, appunto, c’è un qualche cosa a cui domando. C’è qualche cosa, qualche cosa è (la parola), quindi, ho già stabilito l’essere. In questo caso è la mia domanda che impone l’essere. Solo nella misura in cui perviene a una comprensione siffatta l’ente in quanto tale si trova autorizzato a essere ciò che è. D’ora in poi esso può venire alla luce come quell’ente che è. C’è una Nota: Chiarire meglio – l’essenza del cercare – il cercare originario – cercare di nuovo – è in questo cercare che esso scaturisce – riceve una forma. A pag. 133. Viceversa, solo ora può anche farsi avanti come quell’ente che esso non è, quindi venire contraffatto e occultato. Soltanto se è qualcosa io posso negarlo, posso contraffarlo, posso fare tutto quello che voglio, ma occorre che sia, occorre cioè l’essere.