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16 novembre 2016

 

Volevo dire alcune cose soprattutto intorno alla volontà di potenza di Nietzsche e a ciò che Heidegger scrive intorno all’enunciato di Nietzsche “Dio è morto”. I “sentieri” lungo cui ci ha condotti Heidegger in questo ultimo testo, ma possiamo riferirci anche ai precedenti, è di grande interesse. La lettura che ne abbiamo fatto non è sicuramente una lettura né esegetica né canonica né accademica ma abbiamo sfruttato Heidegger, il suo pensiero, per ripensare a delle questioni alle quali avevamo già pensato, ma abbiamo colto l’occasione per ripensarle e trarre ancora altri elementi. La questione fondamentale, nella quale ci siamo imbattuti ormai da un po’ di tempo, riguarda sì il domandare, che è fondamentale, ma in un modo che risulta talmente radicale da essere in effetti abbastanza nuovo. Ovviamente, la lettura di Heidegger è stata da me condotta tenendo conto della psicoanalisi, della semiotica, della linguistica e marginalmente anche della logica, soprattutto della linguistica e della semiotica, questo sì, e della psicoanalisi. La psicoanalisi mostra in un modo differente da Heidegger che ciascuno è mosso da fantasie, pensieri, e che tutto ciò che lo riguarda è non solo attraversato da fantasie ma prodotto dalle sue fantasie. Le fantasie non sono altro che pensieri, idee, aspettative. Ora, Heidegger ha compiuto questa operazione: ponendo l’uomo come problema… anche, perché lui è soprattutto l’Essere, ma, rivalutando la questione dell’uomo in quanto preso nel progetto, ha mostrato che tutto ciò che accade a chiunque è costruito dal suo progetto, e cioè dal fatto che si trova preso continuamente, inesorabilmente, in pensieri, in fantasie. Ciò che dice Heidegger non è poi così lontano da ciò che dice Freud solo che, differenza fondamentale, mentre Heidegger cerca una via nel considerare tutto questo come l’Essere, dando quindi all’Essere una connotazione totalmente differente da quella che esisteva prima di lui, cioè l’Essere come l’esser-ci qui e adesso, in ciò che faccio, per Freud, che l’Essere non sapeva nemmeno che cosa fosse, la questione centrale, almeno quella più importante e che ci riguarda, è che ciascuno si trova, analogamente a ciò che dice Heidegger, nel progetto che lo riguarda, progetto che è determinato da fantasie. Freud ci mette dentro i ricordi, le emozioni, le sensazioni, una serie di cose che ad Heidegger non interessano perché per lui si tratta soltanto dell’esser-ci, quindi del progetto, progetto gettato in ciascun momento; in effetti, di fantasie lui non ne parla mai. Tuttavia, soprattutto nell’ultimo testo che abbiamo preso in considerazione, ha aperto una via che mostra qualcosa che Freud non è mai riuscito a mostrare, e cioè che il progetto, che per Freud non era altro che il desiderio, si potrebbe fare una sorta di equivalenza anche se vale sino a un certo punto. Heidegger ha mostrato, riprendendo Nietzsche, che questo progetto è fatto dalla volontà di potenza e questo Freud non l’ha mai colto se non una volta sola, di striscio, come si suole dire, in Al di là del principio di piacere, quando si accorge che le persone si trovano a ripetere eventi traumatici e non si dà ragione del motivo perché ciò va contro il principio di piacere, il quale invece dovrebbe indirizzare sempre verso ciò che è piacevole ed eliminare ciò che è sgradevole, e invece si trovava di fronte esattamente al contrario, cioè le persone perseguivano il dispiacere e, quindi, ha avuto l’idea che ci fosse qualche cosa che andasse al di là del principio di piacere, e ciò che va al di là del principio di piacere è la volontà di potenza. Come dire che, riprendendo il caso di Freud, ciò che costringe a ripetere un evento traumatico è la necessità di gestirlo, di farne un’economia, di neutralizzarlo. Gestendolo lo rende qualcosa di familiare, domestico, di non Unheimliche, di non straniante, rende l’ignoto, cioè qualcosa di spaventoso e terribile, noto, familiare, domestico, manipolabile. In effetti, dicevamo che l’evento traumatico rappresenta un momento in cui si è perso totalmente il controllo della situazione, il trauma è questo: perdere il controllo della situazione e temere di non poter recuperare questo controllo. Quindi, tutto ciò che viene messo in atto in seguito non è che il tentativo, riuscito oppure no, di gestire questa cosa, di cui si è perso il controllo, in modo da recuperarne il controllo. Una volta che si ha il controllo non c’è più problema. Questa questione consente anche di rileggere tutta la dottrina psicoanalitica, la metapsicologia, tutto l’impianto teorico psicoanalitico, in un altro modo; può essere considerato come un evento che può accadere ma il cui obiettivo non è togliere qualche cosa che produce dispiacere ma inserire nel proprio sistema un qualche cosa che consenta di avere il controllo di una certa situazione. Ciò che dice Freud rispetto alla rimozione, e cioè di qualche cosa che urta, lui fa l’esempio classico della questione sessuale, ciò che viene rimosso è sempre qualche cosa che è sessualmente inopportuno, inappropriato, sconveniente, e quindi viene rimosso, però, come dicevo qualche tempo fa, non è molto chiaro perché qualcuno debba rimuovere, cancellare una cosa del genere se non ci fosse l’idea che, perseguendo una certa via, andando in una certa direzione, si rischia di venire eliminati o allontanati o abbandonati. Ora, l’abbandono come possiamo intenderlo a questo punto? Se le persone mi abbandonano io non ho più il controllo su queste persone, non le posso più gestire, mi trovo in una situazione in cui sono in balia di altro che non gestisco più, come se ogni cosa ruotasse, come diceva Nietzsche, intorno alla volontà di potenza. Ovviamente, se non ci fosse la possibilità di intendere la volontà di potenza in termini precisi, direi quasi necessari, relativamente al funzionamento del linguaggio, anche questa volontà di potenza sarebbe un po’ come la metapsicologia di Freud, cioè una costruzione più o meno fantastica, che non ha di fatto un supporto argomentato e solido, ma è un’ipotesi, è possibile che sia così ma è anche possibile che non lo sia, come dire che è possibile che ci sia la rimozione, possibile che avvengano questi processi di cui parla Freud ma è anche è possibile che non avvengano. Dopo tutto, ciò di cui parla Freud non è nulla di necessario, assolutamente nulla, sono congetture, abduzioni per lo più, cioè quel modo di inferire qualche cosa che, pur muovendo da un universale, come la deduzione, però, al contrario della deduzione, non procede necessariamente. La deduzione parte da qualche cosa di necessario e giunge a una legge universale mentre l’abduzione rimane un’ipotesi. L’abduzione è la modalità inferenziale delle indagini di polizia. L’esempio classico di deduzione, quello di Aristotele: tutti gli animali sono mortali, Socrate è un animale, Socrate è mortale. Ora, l’abduzione mantiene la premessa in quanto universale, cioè tutti gli animali sono mortali, ma Socrate è mortale quindi Socrate è un animale, inverte il medio con la conclusione per cui non ha più quella cogenza che ha la deduzione, che mantiene la necessità delle sue affermazioni, perché se dico che tutti gli animali sono mortali e che Socrate è un mortale, non compio una deduzione propriamente ma è un’ipotesi: tutti gli animali sono mortali, anche Socrate è un mortale, sì, è possibile, per cui deduco che Socrate è un animale ma non è necessario, infatti l’abduzione è un’ipotesi e non una certezza, mentre la deduzione, se correttamente eseguita, muove da una certezza e conclude con una certezza. Questo il funzionamento della logica. Ora, per quale motivo dovremmo attenerci alla logica, questo è un altro discorso molto complesso, che in parte abbiamo fatto e che potremmo anche riprendere. Comunque sia, dicevo che Freud fa delle ipotesi, il suo sistema teorico è ipotetico, abduttivo. Ovviamente, lo è anche quello di Nietzsche, forse persino di più, però, a questo punto, se non ci fosse la possibilità di argomentare in modo forte intorno alla ineluttabilità, alla ineludibilità della volontà di potenza, anche questa rimarrebbe un’ipotesi al pari di qualunque altra, cioè una spiegazione che potrebbe anche essere ma potrebbe anche non essere. Come ci siamo mossi a questo riguardo? Ecco la questione della semiotica, della linguistica, e cioè la constatazione che per potere funzionare il linguaggio necessita di fermare un qualche cosa mentre si parla, adesso diciamola in modo molto rozzo, di fare come se ciò che dico fosse quella cosa lì in modo da potere proseguire, perché se non fosse quella cosa lì non la potrei utilizzare per fare altre cose perché sarebbe, come dicono taluni, differente da sé e, in quanto differente da sé, sarebbe non utilizzabile, perché non saprei cosa sto utilizzando. Quindi, c’è questa necessità di imporre a ciò che affermo di essere ciò che io voglio che sia e su questo abbiamo posto l’accento riguardo alla volontà di potenza, perché questa operazione che compio per potere parlare è una sorta di comando: io impongo a questa che io dico sia quella e non altre cose, ma sia quella lì. Questo è il fondamento della volontà di potenza, cioè per potere parlare occorre questo gesto, questa messa in atto della volontà di potenza che dice che ciò che io dico è ciò che io dico e non altro. A questo punto risulta chiaro che la volontà di potenza non è più solo un’ipotesi ma mostra ciò che accade, in questo caso necessariamente, mentre parlo e non può non avvenire perché se io non imponessi a una qualunque cosa di essere quella che è mentre la dico, la cosa stessa non sarebbe utilizzabile all’interno di una sequenza e quindi non potrei parlare, non potrei proseguire.

Intervento: Quindi, questo è il paradigma di qualunque forma di potere. Qual è la funzione del potere, di qualunque genere? È quello di far sì che ciò che dico sia ciò che dico.

Anche nel luogo comune: le cose stanno come dico io.

Intervento: Il potere, di qualunque genere, economico, politico, familiare, relazionale, ha questa funzione, di affermare ciò che dice, che ciò che dice sia effettivamente quello. All’interno di questa forma è possibile far rientrare qualunque forma di potere.

Certamente, non può non essere così, per questo dettaglio che siccome parlo allora, mentre parlo, ciò che dico deve essere fermato, deve essere, come diceva Heidegger, stabilizzato, deve essere in effetti stabile, perché se non fosse stabile non potrei usarlo, non potrei inserirlo in nessuna combinatoria e dunque non potrei parlare.

Il fatto che il potere debba essere riconosciuto da altri è come se consentisse una conferma del fatto che ciò che dico è quello che dico. In effetti, interviene a stabilizzare, affermare, a rendere certo che ciò che dico è quello che dico. Questa necessità di condivisione o di riconoscimento del potere dice anche qualche cosa di più, e cioè il fatto che, dicendo qualche cosa, io stabilizzo, fermo questa cosa e, una volta stabilizzata, questa cosa viene riconosciuta in prima istanza da me come essere quella cosa lì; il fatto che altri debbano riconoscerla rientra in ciò che Nietzsche chiamava superpotenziamento, e cioè quella cosa è quella che è, intanto mentre la dico, per me che la sto dicendo, ma non è sufficiente, occorre che questa cosa vada oltre per superpotenziarsi e aggiunga potenza. Come aggiunge potenza? Attraverso il riconoscimento di altri, più sono le persone che riconoscono questa cosa più il superpotenziamento è in atto. Nietzsche su questo diceva cose interessanti. Atteniamoci a questo esempio: supponiamo che io dica un qualcosa e questa cosa è quella che io voglio che sia, se la cosa rimanesse lì, se si fermasse a qualcosa che io so essere così, nel momento in cui io mi fermo ecco che Nietzsche direbbe che da lì ha inizio il depontenziamento, perché questa cosa non ha più l’opportunità di incrementare il mio potere, che deve essere continuamente incrementato.

Intervento: Volontà di potenza e rimozione…

Quando Freud parla di nevrosi di guerra non parla di rimozione ma di ripetizione. In effetti, non è rimosso l’evento traumatico, è sempre presente, ciò che viene rimosso è qualche cosa che dà dispiacere ma dà dispiacere in seguito al fatto che ciò che si vorrebbe fare, il desiderio inconscio, come direbbe lui, urta, va contro la morale sessuale civile, è questo che innesca la rimozione. Se non ci fosse la morale civile non ci sarebbe rimozione perché non avrebbe nessun senso. Invece, la ripetizione in questo caso dell’evento traumatico è ciò che gli ha fatto avvertire che la sua tesi precedente del principio di piacere non era così universale. Qui si apre un’altra questione che non riguarda tanto Freud e nemmeno Nietzsche, e cioè il fatto che ogni discorso che si fa, quindi ogni costruzione di una qualunque teoria o elaborazione, così come dicevamo la volta scorsa, se non ci fosse la volontà di potenza non ci sarebbe motivo di parlare allo stesso modo e per lo stesso motivo è la volontà di potenza che fa costruire una teoria. Una teoria non è costruita per intendere come stanno le cose se non in seconda battuta, perché se io so come stanno le cose le manipolo, le controllo, ma per una volontà di potenza, per l’impossibilità di arrestare la volontà di potenza, perché nel momento in cui l’arresto si avvia un depotenziamento. Per tornare all’esempio che facevo prima dello stabilizzare ciò che dico, quell’elemento che viene stabilizzato, se rimanesse quello che è solo per me che l’ho detto, l’ho pensato, e non venisse divulgato ad altri, si ritroverebbe nella stessa situazione in cui, raggiunto un certo livello di potere, ci si arresta. Io ho potere su quella parola perché l’ho stabilizzata o creata così com’è ma non basta. È questo che dice Nietzsche, non basta mai perché a questo punto questa parola è come se non desse più l’occasione di produrre altro. Qui la questione è ancora complessa perché si tratta di intendere bene come si può intendere il superpotenziamento rispetto alla parola, come dice Heidegger, stabilizzata, perché se viene stabilizzata questa è la condizione, come sappiamo, per potere parlare. Ci manca un elemento per potere intendere con maggiore precisione questo passaggio dalla parola stabilizzata alla necessità che questa parola stabilizzata venga riconosciuta da altri, da altri discorsi, ovviamente. Ciò che abbiamo detto fino ad adesso va bene ma non basta ancora. Innanzitutto, occorre tenere conto del fatto che se si parla è perché c’è la volontà di potenza ma questa parola che si dice per via della volontà di potenza, è diretta verso che cosa? Perché se non c’è la volontà di potenza non si parla? Sì, perché non c’è un motivo ma di che cosa è fatto questo motivo? Si parla per persuadere, convincere? Per adesso prendetela solo come un’ipotesi. Parlare per persuadere, cioè per imporre ciò che io voglio che sia, la parola stabilizzata, su altri, ma perché deve avvenire questo? È come se ci fosse implicitamente la volontà di potenza su altri, di imporsi su altri, ma perché? Manca qualcosa che ancora non abbiamo raggiunto. E se pensassimo, come abbiamo già fatto, alla volontà di potenza come la tecnica, cioè come la costruzione di strumenti in vista di fini da realizzare; il linguaggio funziona in questo modo, cioè costruisce delle cose in vista di altro, per questo motivo avevamo detto che il linguaggio è una tecnica. Quindi, costruire qualche cosa in vista di altro, che cos’è questo altro? Se dovessimo attenerci a Nietzsche è il superpotenziamento, ovviamente.

Intervento: È l’essere riconosciuti.

È quello cui stiamo tentando di arrivare. La costruzione di strumenti in vista di scopi, lo scopo è sempre il superpotenziamento. Manca ancora il passaggio fra la parola stabilizzata e il superpotenziamento, cioè ci manca ancora la cosa che ci consente di intendere perché è necessario che questa parola sia imposta, debba cioè essere riconosciuta da altri.

Intervento: Come dice Nietzsche se non ci fosse il superpotenziamento ci sarebbe immediatamente l’indebolimento. Si tratterebbe di intendere in termini linguistici che cos’è il depotenziamento come rischio. Per esempio, una persona che raggiunge un potere ha immediatamente paura di perderlo, in un primo tempo è preso dall’entusiasmo che lo porta al potere e dal momento in cui lo raggiunge subentra la paura di perderlo, da qui l’esigenza di mantenerlo o, meglio, di incrementarlo per mantenerlo. Si potrebbe dire che l’incremento è in vista della stabilizzazione del potere.

Tutto quello che dice è vero però ancora non rende conto dell’aspetto funzionale del linguaggio. È come se la parola stabilizzata non potesse rimanere una parola stabilizzata, e allora che cosa diventa?

Intervento: Non diventa obsoleta?

In alcuni casi sì, in altri no, può persino diventare una parola cardine, come nelle religioni, in politica, le stesse istituzioni. Basta pensare alla parola di Dio, che deve essere quella, deve essere sì stabilizzata perché deve essere quella che è, però non deve modificarsi.

Intervento: Però deve essere ripetuta per non depotenziarsi.

La volontà di potenza dice del motivo per cui si parla, è qui che c’è qualcosa che ci sfugge ancora, perché è come se ci stessimo domandando se si parla per persuadere qualcuno o per stabilizzare qualcosa in modo da poter proseguire e dire altro. Una volta che io dico qualche cosa e questo qualche cosa è quello che io voglio che sia allora posso utilizzare questa cosa per proseguire a dire. In effetti, l’unico motivo per stabilizzare qualche cosa è per poter utilizzare quella parola, utilizzarla per poter costruire altre cose, altri discorsi. E qui si apre la questione su cui stiamo riflettendo, cioè questo stabilizzarsi della parola in che modo necessita dell’essere imposta ad altri, se necessita di questo, che non è poi così sicuro. Eppure è importante questo aspetto perché se abbiamo inteso come funziona lo schema della volontà di potenza, cioè dell’imposizione di qualcosa che io voglio che sia quello che sia, ci manca il passo successivo, cioè la necessità che ciò che io voglio che sia, sia riconosciuto dall’altro. È necessario questo? Parrebbe di sì, ma se sì perché? È come se dovessimo inserire all’interno del funzionamento del linguaggio un qualche cosa che propriamente non fa parte del suo funzionamento, cioè fa parte sempre del linguaggio ma non propriamente del suo funzionamento.

Intervento: Riflettevo in questi giorni sul fatto che il linguaggio per potere funzionare necessita di almeno due persone, come dire che se mai fosse esistita una sola persona al mondo non ci sarebbe il linguaggio, nel senso che esige almeno il due, occorre che ci sia un altro. Questo “altro” è comunque necessario al funzionamento del linguaggio.

Sì, capisco quello che vuole dire. Dicevamo tempo fa rispetto al fatto che ciascuno impara a parlare da qualcun altro, cioè acquisisce il linguaggio da un’altra persona e rimane in qualche modo l’idea che l’altro possa essere comunque il riferimento, ciò che stabilisce se ciò che dico va bene oppure no. Però volevo tralasciare questo aspetto attenendomi unicamente al funzionamento del linguaggio. Se intendiamo con linguaggio qualcosa che appartiene unicamente agli umani e non alle macchine per esempio, allora è possibile, però una macchina può parlare, dire delle cose, in assenza di interlocuzione.

Sarebbe bello riuscire a trovare una soluzione che riguardi soltanto il funzionamento del linguaggio. Bisogna pensarci bene.

Intervento: Se riguarda solo il funzionamento del linguaggio questo “altro” può non essere un soggetto, qualcuno, ma una funzione linguistica.

Sì, stavo pensando a qualcosa del genere

Intervento: È come se, stabilizzando la parola, tutto ciò che ne segue in qualche modo fosse ciò che riconosce questa stabilizzazione, cioè io posso affermare qualcosa ma ho bisogno di altro perché questa cosa abbia il valore che gli voglio attribuire. Occorre che io prosegua a dire perché questo qualcosa che io ho stabilizzato sia veramente stabile.

Sì, cioè che questa parola sia utilizzata.

Intervento: Parlando di tecnica, se io costruisco uno strumento per fare qualcos’altro, il fatto che io sia riuscito a costruire questo qualcos’altro indica l’utilità di quello strumento, vuol dire che quello strumento ha funzionato, se invece non riesco a fare nulla ciò vuol dire che quello strumento è inutilizzabile e lo abbandono.

Sì, qualcosa del genere. In effetti, occorre trovare la necessità della conferma non in “altri” ma all’interno della combinatoria linguistica. Una via potrebbe essere questa: non si tratta di altri, cioè di altre persone, ma di altri elementi che devono confermare l’utilizzabilità di un certo elemento.

Intervento: …

Quando si impone che quella cosa sia una certa cosa, questa imposizione rende quella cosa esattamente quella cosa, non ha bisogno di altro, è come un comando: tu sei questo, punto. Non c’è l’eventualità che possa non esserlo se sono io che gli impongo di essere quella cosa lì, io dico che è quella cosa. Però la direzione è questa, ci penseremo.