16-11-2011
La questione del potere è importante, abbiamo tratteggiato come funziona fra i governi, fra gli stati, c’è la necessità di imporre il potere, che si riscontra nelle persone nella necessità, nell’urgenza, nella frenesia di dovere dire le proprie verità. In alcuni casi una vera e propria frenesia, come se fosse qualcosa di irrinunciabile, impossibile trattenersi dal dire la propria verità, e questa è una questione notevole, perché rende conto molto probabilmente anche del perché si producono le fantasie. Le fantasie sono quelle scene che una persona si costruisce dove le cose avvengono “come vuole lui”, le cose a questo punto sono gestite interamente per cui verrebbe da pensare che il discorso, le parole, costruiscano queste fantasie solo a questo scopo. Quando Freud ha considerato le fantasie, non è che abbia inteso un granché sul perché ci sono le fantasie, sì, ha inteso come si muovono, cosa producono, da dove vengono ma parzialmente, vengono dalla questione sessuale, sì però qui si sposta soltanto sulla questione sessuale: perché c’è la questione sessuale? A che scopo? Sposta una fantasia su un’altra fantasia, mentre ciò che abbiamo costruito in questi anni è in condizioni di rendere conto di che cosa per esempio costruisce le fantasie: il discorso deve concludere con affermazioni vere, è la cosa più importante, è l’unica cosa che deve fare, costruisce proposizioni perché concludano in modo vero, non ha altri obiettivi, però questo lo persegue con tenacia e perseguendolo con tenacia costruisce una serie di sequenze che chiamiamo fantasie che costruiscono, fabbricano, questa scena dove la persona si trova ad avere ragione su tutto per esempio, in vario modo questo è irrilevante, però le persone quando parlano non fanno altro che questo, e cioè affermare le loro fantasie per il solo scopo, primo di enunciare delle verità, secondo persuadere gli altri che queste sono le verità più vere di tutte e che quindi anche gli altri, se fossero persone a modo, dovrebbero accogliere. La fantasia è la costruzione di una scena dove la verità si impone sul mondo, la propria verità ovviamente, si impone sul mondo, questa fantasia ha una sua ragione di essere perché quando la confronto con quella realtà che ho costruita, può andare sì contro alle cose in cui credo, ma in quel caso è abbastanza gestibile, se invece è un discorso che impone delle verità cioè propone delle verità in modo più cospicuo, più determinato di quanto può farlo un aggeggio, allora questo comporta che le verità che quel discorso propone possano andare in conflitto con le mie, e allora accade quello che accade spesso, cioè o l’altra persona non capisce niente quindi faccio in modo che le sue verità scompaiano, oppure, se sono importanti e non riesco a demolirle in qualche modo allora ci sto male, sto male perché questa verità con cui mi scontro mi produce una sensazione di impotenza, di frustrazione. Verrebbe da domandarsi se ciò che Freud ha chiamato nevrosi non sia in realtà qualcosa che procede da un fenomeno del genere, cioè dall’impossibilità di fare valere la propria ragione per un motivo o per l’altro, in qualunque campo sia: la propria verità in questo caso non riesce a trovare una conclusione che possa imporsi e questo costituisce per gli umani un problema, un problema perché il discorso deve concludere, e se non riesce a concludere resta in sospeso, ogni cosa è incompiuta, non essendo compiuta crea disagio appunto. Come dicevo probabilmente il disagio che gli umani provano in generale procede da questo, dall’impossibilità, dal non riuscire a concludere nel modo in cui il proprio discorso deve concludere: il mio discorso ha a certe premesse che devono concludere all’interno di questo ambito in un certo modo, se non riesce a concludere in quel modo all’interno di questo ambito è un problema. Ciò che spesso gli psicanalisti hanno chiamato “mancanza”, per Lacan la “manque a être”, la mancanza a essere, o il problema dei fondamenti, cioè l’impossibilità di giungere a una conclusione, con tutta la devastazione che questo comporta, ha a che fare con la difficoltà di concludere un discorso …
Intervento: allora anche il desiderio?
Il desiderio è di raggiungere qualcosa, è un desiderio di raggiungere la verità, quindi di portare a compimento qualcosa, e qualcosa è portato a compimento quando dalle premesse attraverso passaggi coerenti con la premessa si giunge alla conclusione che afferma qualcosa che è, come abbiamo detto varie volte, coerente con se stessa e coerente con le premesse da cui è partita. Questa è una delle cose più difficili per le persone da considerare, e soprattutto da gestire, cioè la difficoltà che procede dalla necessità assoluta, totale, frenetica di dovere dire la propria, come si suol dire generalmente, come se fosse impossibile resistere a questo impulso di dire assolutamente la propria verità, soprattutto là dove ci sono altri discorsi che pongono questioni differenti, che pongono eventualmente conclusioni differenti e, dicevo, abbandonare questa necessità appare straordinariamente difficile. Non avere più la necessità di imporre la verità del proprio discorso, della propria fede e quindi non avere più una fede da difendere, questo comporta il perdere la frenesia di dire subito la propria cosa, non ha più nessuna importanza perché non si parla più per persuadere, per sopraffare, per vincere l’altro, ma semplicemente per esporre delle questioni all’interrogazione, perché l’interrogazione possa procedere, possa proseguire, questo è l’unico motivo, non ce n’è nessun altro …
Intervento: in fondo non c’è più bisogno della verifica da parte dell’altro e il proprio pensiero può trarre da sé le conclusioni rispetto al suo percorso teorico, intellettuale …
Certo, la necessità di affermare questo procede dalla struttura stessa del linguaggio, linguaggio che è fatto da istruzioni che costruiscono le parole, quindi discorsi, quindi racconti eccetera, però per potere proseguire ci deve essere un elemento che si attesta, che è così, solo a questa condizione può proseguire, che è la stessa condizione che lo ha prodotto, l’istruzione dice “questo è questo”, all’inizio non ci sono neanche molti strumenti per mettere in discussione un’affermazione del genere, solo che non è un’affermazione ontologica, metafisica, è semplicemente un comando, un’istruzione. Quando definisco una certa cosa in un certo modo, non sto dicendo che quella cosa è quello, significa soltanto che uso questo significante in quel modo, nient’altro che questo, indico l’utilizzo che ne faccio, come il dizionario, né più né meno, solo che è questo l’elemento da cui si parte, quando per esempio voglio parlare del mare devo sapere che cos’è il mare e per saperlo c’è il dizionario che mi dice come si usa questa cosa. Se immagino invece che il punto di partenza su cui costruire qualcosa debba essere necessariamente vero, intrinsecamente vero, un vero in sé, come direbbe Sartre “l’in sé” quella grigia stabilità dell’essere, impermeabile a tutto, se suppongo questo e cioè che il punto di partenza debba essere così fatto allora ecco tutta la catastrofe della metafisica, perché una cosa del genere non è reperibile da nessuna parte. Il certo è tale perché è un comando, nient’altro, non ha altre certezze alle spalle per garantirlo, così come un re di picche non ha certezze alle spalle che lo garantiscono di essere un valore superiore a un sette di fiori nel gioco del poker, è solo una regola del gioco, né più né meno. Quando una persona discute muove dall’idea che le premesse da cui parte abbiano invece questa certezza, questa garanzia metafisica, e che sia proprio così, e da qui la necessità di difenderle fino al proprio sacrificio, perché è la verità assoluta, indiscutibile, da qui le guerre e tutta una serie di cose. La cosa che importa è intendere, all’interno del proprio discorso, come questa questione intervenga in modo da poterla mettere a frutto in un certo senso, anziché subirla, agirla: sapere che in questo momento ciò che conta è soltanto imporre la propria verità, la propria fede, questo può consentire di riflettere, se ci si accorge naturalmente, di riflettere su ciò che sta accadendo nel proprio discorso, come dire che a questo punto c’è una verità assoluta che sta funzionando, il mio discorso è all’interno di un ambito metafisico, occorre tirarlo fuori da lì perché se no se resta in ambito metafisico e si va poco lontani, per trarlo fuori occorre considerare che ciò che si immagina di dovere difendere è soltanto un’istruzione che di per sé non significa niente, è soltanto un modo per potere continuare, un modo per giocare quel gioco che chiamiamo linguaggio …
Intervento: quindi prescindendo dal contenuto?
Sì, possiamo anche metterci dentro il contenuto, ma questo stesso contenuto è costruito da qualcosa che è arbitrario. È il gioco che deve procedere, e se questa cosa è stata stabilita in un certo modo è soltanto per fare procedere il gioco, non ha altre funzioni, e quindi non ha da difenderla, non c’è niente più da difendere posta la questione in questi termini: ecco che c’è l’uscita dal discorso metafisico, perché non c’è più la cosa in sé come voleva Kant, o l’Essere, ma ci sono soltanto istruzioni che costruiscono proposizioni che devono procedere in modo tale da potere concludere con un’affermazione che non sia autocontraddittoria, che non contraddica le premesse da cui è partita, a questo punto si attesta, ma all’interno del gioco non fuori, fuori non significa niente, si attesta solo per potere da lì costruire altre sequenze …
Intervento: a questo punto dovrei definire un discorso metafisico …
Un discorso metafisico è un discorso che procede dall’idea che un qualche cosa sia se stesso in base a una qualche cosa, l’Essere, quello di cui parlano i filosofi, che è tale per se stesso cioè esiste per sé. L’Essere nella filosofia tradizionalmente è qualche cosa che appartiene a qualunque ente ma appartiene in modo permanente, immobile, duraturo, eterno. Tutta la tradizione filosofica, possiamo farla arrivare fino ad Heidegger volendo, ha cercato di verificare che le cose siano proprio così, cioè che ci sia questo Essere, e qui è cominciata la catastrofe che si è portata appresso tutto il discorso occidentale, perché non c’è nessun modo per potere stabilire una cosa del genere, cioè che esiste un Essere che è fatto in quel modo che sta da qualche parte. I cristiani lo hanno risolto con dio ma è la stessa storia, ecco quindi il discorso metafisico è quello che è fondato sul concetto di Essere necessario, stabile, immobile, duraturo, eterno, infinito, che non diviene, che è sempre assolutamente identico a sé e questo, questo principio, è stato quello su cui si è costruita tutta la metafisica, cioè un pensiero che cerca di giustificare questo Essere oppure lo dà per acquisito e dopo averlo acquisito ne trae tutte le derivazioni, conseguenze eccetera, ma lo lascia lì, immobile dov’è, per Plotino era L’Uno, ma non l’uno del calcolo numerico, è l’Uno, è l’Essere, la causa dell’Essente per antonomasia. Questo pensiero metafisico ha prodotto la devastazione del discorso occidentale perché a un certo punto ci si è resi conto che tutto questo non stava in piedi, non era possibile più sostenerlo, e allora si è inventata l’ermeneutica, dopo Heidegger non c’è più l’Essere come quell’elemento immutabile e fisso, la sostanza in quanto tale, ma ciascuno si fa interprete di qualche cosa, per cui ci sono soltanto interpretazioni ma non c’è la cosa in sé, che è soltanto un altro modo di pensare la cosa, di vedere la cosa, sposta la questione dall’Essere all’interpretazione. L’interpretazione occorre che sia interpretazione di qualche cosa, questo qualche cosa quindi comunque lo si dà per acquisito, che permane, anche se non si lascia cogliere né individuare, ma questo già l’aveva detto Kant, e non si è riusciti a uscire comunque dal pensiero metafisico in nessun modo, alla fine, citavo forse qualche volta fa, Heidegger ha considerato che effettivamente tutta la metafisica non ha fatto nient’altro che cercare di afferrare l’Essere, ma a che scopo? Non era solo una questione teoretica, astratta, da anima bella, ma era una questione di potere perché chi controlla l’ente controlla le cose, controlla tutto. Anche gli esseri umani sono enti, sono cose, e Heidegger lo dice in modo molto chiaro che il tentativo di sapere di che cosa è fatto l’ente, sapere che cosa sia l’ente e quindi trovare l’Essere ha lo scopo di potere controllare l’ente, una fantasia di potenza, è questo che ha innescato tutto, è questo che gli umani, e qui torniamo al discorso che facevo prima del potere, dell’avere ragione, è questo, lui l’ha colto a modo suo, è questo che muove tutto, dio è il potere estremo e quindi la filosofia da sempre ha cercato questo: la conoscenza dell’ente, la manipolazione e l’elaborazione, letteralmente la fabbrica dell’ente con l’informatica, la cibernetica, per questo dice Heidegger che la filosofia ha compiuto il suo percorso e si consegna alla tecnica, è la tecnica che fa questo, non più la filosofia, la filosofia ci ha provato e a questo punto consegna il testimone alla tecnica, la quale fa esattamente questo: conoscenza, manipolazione, elaborazione dell’ente, lo produce addirittura, avete presente gli ologrammi? Sono bellissimi, sono fatti da raggi laser ma producono un immagine tale e quale, che si muove, che parla eccetera, è la raffigurazione cibernetica di ciò che la retorica aveva indicato come ipotiposi, la figura retorica che serve per fare apparire, utilizzando le parole, l’immagine, fare proprio vedere le cose, visualizzarle in modo che sembrano veramente lì, ecco l’ipotiposi, è la formulazione retorica di ciò che l’informatica ha prodotto come ologramma. Dunque la questione del potere risulta determinante, è ciò che muove letteralmente il discorso, il potere cioè della verità, ovviamente il potere è solo una delle figure della verità, ciò che lo muove, ma ciò che lo traina, ciò che lo fa esistere in quanto tale è la struttura del linguaggio, che è fatta in modo tale da dovere compiersi ciascuna volta attraverso una sequenza, compiersi con una conclusione e poi di lì costruire altre cose, e quindi è imprescindibile dal funzionamento del linguaggio, è una parte integrante. Perché debba fare questo, questo è difficile a dirsi, però intanto occorre sapere esattamente se è così e come compie questa operazione che rende conto del fatto che gli umani da quando esistono da sempre non possono fare nient’altro che stabilire la verità. La loro verità, nient’altro che questo, e da qui tutta la ricerca per avere potere, come diceva Nietzsche, il potere sull’altro, sulle cose, sul mondo, governare il mondo e magari l’universo se ci riusciranno, a che scopo? Per soddisfare un’esigenza, una richiesta, un modo del funzionamento del linguaggio, solo per questo, non c’è nessuna curiosità, come dicevo prima e come ricorda Nietzsche, non c’è il desiderio puramente teoretico esente da ogni altra considerazione, ma è una volontà di potenza né più né meno, una volontà di avere potere sulle cose. Se tutto questo è perfettamente consapevole, e non può non sapersi in ciascun atto di parola, allora c’è l’eventualità di utilizzare il linguaggio non più per una volontà di potenza, ma per continuare a produrlo, ma a questo punto agendolo: il linguaggio che agisce se stesso anziché subire il proprio funzionamento e continuare a costruire cose per avere potere, ma continuare a costruire cose al solo fine di costruirle, cioè per intendere fino a che punto può spingersi il linguaggio senza più avere la necessità di avere potere su qualche cosa, almeno non necessariamente, ma è ancora tutto da considerare naturalmente …
Intervento: …
Il discorso comune non ha grossi problemi a proseguire, semplicemente immagina che “vede” sia il reale, e su questo costruisce tutto. Una persona che ha una fantasia di abbandono, crede che il fatto di essere abbandonata sia una cosa reale e quindi su questo costruisce tutta la sua esistenza, questo già lo sapeva Freud. Le fantasie pilotano l’esistenza delle persone, letteralmente, ciò che uno crede, ma questo Freud non lo poteva sapere perché non sapeva niente né di linguistica, né di semiotica, ciò che funziona come vero all’interno di una struttura pilota questa struttura e quindi se credo vera una certa cosa il discorso andrà in quella direzione, e la direzione non è altro che il senso, un’inferenza: “se a allora b, se b allora c, allora se a allora c” questa è la direzione, è un modo per indicare di fatto uno degli elementi attraverso cui il linguaggio funziona, per esempio il sistema inferenziale …
Intervento: non è che fa parte del linguaggio la direzione?
Perché ci sia direzione occorre che ci sia linguaggio, perché è questa struttura che fornisce gli elementi tali per cui da una certa cosa che intendo come premessa faccio dei passaggi e giungo a un’altra che chiamo conclusione, e quindi ho fatto un percorso, questo percorso ha una direzione, ma in assenza di questa struttura cioè di quelle istruzioni che incominciano a costruire le parole, parlare di direzione tecnicamente non avrebbe neanche senso perché non può esserci niente, è un po’ come il domandarsi che cosa c’è fuori della parola, fuori dal linguaggio, è una domanda che non ha nessun senso né nessuna possibilità di avere una risposta. La direzione appartiene al linguaggio, è uno degli effetti del funzionamento del linguaggio, muove da una cosa e arriva a un’altra, e questo muoversi da una cosa all’altra è quello che gli antichi chiamavano il divenire, e si produce la direzione, un senso, letteralmente il senso è una direzione e questo senso va sempre in quella stessa direzione, e cioè concludere con un’affermazione vera, se no non può essere accolta per potere proseguire, e questo è dettato dal modo in cui il linguaggio stesso funziona …
Intervento: di rimandare ogni volta questo sarebbe un modo per giocare con il linguaggio …
Questo è complicato, lei dice: “evitare di raggiungere una conclusione” però per potere proseguire una direzione occorre che il discorso si attesti su un qualche cosa per potere passare ad altro, altro che magari è lo stesso proseguimento …
Intervento: anche quello di non voler dire potrebbe essere una direzione …
Ma se non la chiude è come se invece di utilizzare i vari connettivi ne utilizzasse soltanto uno, la “e”: e questo, e questo, e questo, e questo, e questo, e questo … ad un certo punto le manca, non perché manca a lei, ma perché manca alla struttura un qualche cosa, e quindi cosa conclude?
Direi che la prima cosa che importa è rendersi conto del funzionamento del linguaggio, e cioè non subire più questa cosa ma agirla, praticarla, è chiaro che non posso parlando evitare di concludere, dopo una certa sequenza, concludere una certa cosa, ma so benissimo che cos’è questa conclusione, da che cosa è prodotta, e quindi prendo quella conclusione non come un dato di fatto, assoluto, ma semplicemente come un modo per potere proseguire questo gioco, come una partita di carte a poker, a un certo punto non soltanto la partita deve avere una conclusione ma anche all’interno della partita ci sono delle conclusioni, c’è una conclusione all’interno del gioco che consente al giocare di passare o di fare quello che vuole, ma questa conclusione, all’interno del gioco, gli consente di continuare a giocare …
Intervento: anche quando all’interno di un discorso capita di voler dire una certa cosa e invece “mi sono dimenticata quello che volevo dire” questo è un gioco all’interno di un gioco che comunque è funzionale alle premesse che sostengono quel gioco e quindi alle conclusioni … perché anche il fatto di interrompere il discorso dimenticando quello che si voleva dire sembra che il discorso rimanga in sospeso, non concluso è come se azzerasse gli elementi nuovi che intervengono …
Si sta interrogando sulla dimenticanza?
Intervento: sì certo tradurre queste cose in funzionamento del discorso non è semplicissimo comunque a questo punto questa sembra un non conclusione del discorso ma il discorso ha concluso nel modo abituale per poter affermare che non può concludere per esempio …
Questo è un gioco che prevede molti giochi all’interno di sé, perché una cosa che uno dimentica può dare un gran fastidio come quando uno dice “ce l’ho sulla punta della lingua ma non mi viene in mente” cosa che da fastidio tremendissimo per i motivi che abbiamo già esposti, in quel caso rimane in sospeso quel gioco, altri vengono conclusi ma quello è come se non trovasse una conclusione …
Intervento: è “come se” non trovasse una conclusione …
È il caso di lavorare su questo aspetto, e cioè come funziona, diciamola alla Nietzsche, la volontà di potenza all’interno del discorso e che funzione ha, e come interviene, che peso ha all’interno di qualunque discorso, come se effettivamente il discorso fosse pilotato da questa esigenza sempre e comunque, come se fosse l’esigenza prioritaria su tutto, potere stabilire, affermare qualcosa, affermare qualcosa che è la ripetizione del gesto inaugurale del linguaggio, quando viene stabilito qualcosa, stabilito soltanto come il modo di usare un termine, però è stabilito. Ecco, questo è il modello che si ripete all’infinito, ma nessuno spiega che questo primo elemento è tale perché è un modo di usare quel termine, non è che sia quello che è per magia, di per sé non è niente, e non spiegando questo si incappa in un terribile equivoco, perché immagina che sia di per sé quella cosa, e allora bisogna ripetere questa scena cioè trovare sempre qualche cosa che possa dimostrare di sé di essere quello che è, con tutti i problemi che questo comporta.