16 ottobre 2024
Porfirio L’antro delle Ninfe
Dunque, l’interpretazione, in greco ἑρμηνείας. Come sappiamo, è una parola che viene da ῾Ερμῆς (Ermes), il messaggero degli dei, da cui anche Ermete Trismegisto, tre volte grandissimo. Cominciamo a riflettere un momento su questo termine “interpretazione”, che ha avuto un successo strepitoso nell’ultimo secolo, attraverso l’ermeneutica. L’interpretazione gioca sul fatto che vi sia in un testo, in un discorso, una verità che è nascosta o almeno non apparente e che bisogna portare alla luce. Questa è l’idea guida perché sennò l’interpretazione serve a niente. Ora, questa idea che vi sia qualcosa di nascosto è un’idea antica, anche se bisogna aspettare il neoplatonismo perché questa idea prenda forma e diventi istituzionalizzata, se non addirittura sacralizzata. E, allora, questa idea viene autorizzata dal fatto che tutte le cose procedono da un qualche cosa, dall’Uno nel neoplatonismo, che non è determinato, non è visibile, non è dicibile, non è niente. Quindi, questo autorizza a pensare che ci sia sempre, al di là di ciò che si dice, una qualche altra cosa che è in ciò che si dice ma che bisogna estrarre, far uscire.
Intervento: Un leggere tra le righe…
Sì. Negli anni ’80 andava di moda la locuzione “sottotesto” o, se preferite dirla alla Derrida, un’“architraccia”. Come dicevo, questa idea è neoplatonica perché comporta che ci sia sempre al di là di ciò che si dice un qualche cosa da cui ciò che si dice proviene per emanazione, per processione. Uno degli autori francesi che più si è occupato di interpretazione era Paul Ricoeur, vissuto nel secolo scorso. Come dicevo prima, l’ermeneutica ha avuto un grandissimo successo, anche per via della semiotica, che è una direzione che ha preso l’ermeneutica. L’interpretazione presuppone che ci sia ovviamente un qualche cosa da interpretare. Ma il presupporre che ci sia qualcosa dietro a ciò che si dice ha una funzione ben precisa, che non era presente in modo così evidente prima del neoplatonismo. Certo, c’era questa idea, si pensi al famoso frammento di Eraclito, φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ, tradotto con “la natura ama nascondersi”. Hadot fa notare che questa traduzione è una traduzione neoplatonica; traduzione che, poi, è stata presa alla lettera dalla fisica: scoprire i segreti della natura. Vi dicevo della funzione di questa idea di una verità nascosta, che poi è stata ripresa nel Medioevo sulla scia di Plotino con la teologia negativa. Se c’è una verità nascosta allora questo mi autorizza a interpretare, cioè, mi autorizza a dare un significato a delle cose, che è quello che voglio io. Infatti, non è casuale che nel Medioevo chi controllava l’interpretazione controllava tutto. Prima era l’interpretazione biblica, l’esegesi, che è fondamentale nell’interpretazione; la Chiesa aveva il monopolio dell’esegesi biblica, non si poteva interpretare la Bibbia, era un libro messo all’indice, non lo si poteva leggere se non attraverso il canone previsto dalla Chiesa. L’esegesi ha questa funzione: ricondurre i molti all’uno. I molti, quelli dell’allegoria. L’allegoria contiene la parola greca ἄλλος (altro), è un dire altro rispetto a qualche cosa. L’esegesi è quel procedimento che deve ricondurre i molti all’uno, alla giusta e corretta interpretazione, che è quella e non altre. Dicevo prima che l’interpretazione presuppone necessariamente che ci siano i molti da ricondurre all’uno. Perché è possibile ricondurli all’uno? Questo lo spiegano Plotino e poi Porfirio: perché appartiene all’uno. Ecco perché è riconducile: a un certo punto si è separato, è caduto di sotto, ma appartiene all’uno, ed è per questo che è possibile ricondurlo all’uno, attraverso quella dottrina dell’emanazione, che è quella che consente a tutt’oggi di potere allegramente praticare l’inferenza. Senza la dottrina dell’emanazione l’inferenza si svuota di contenuto. Io posso interpretare perché l’idea è che il significato che io traggo sia già contenuto nel testo. Naturalmente, qui sorge il problema, che è quello che ha rilevato Aristotele: cosa autorizza il passaggio dall’antecedente al conseguente? L’ύμάρχειν, nulla al di fuori di questo autorizza il passaggio dall’uno ai molti. Quindi, ciò che supporta tutto quanto è questa idea della emanazione, e cioè che ciò che si interpreta appartenga già a ciò che viene interpretato. Ed è questo che convince chi interpreta della correttezza della sua interpretazione, perché lui a questo punto crede fortissimamente che la sua interpretazione sia giusta, perché è ciò che è implicito in ciò che deve interpretare. Aristotele, invece, ha messo in dubbio questo, e ci ha indotti a pensare che, non essendoci alcuna possibilità di dimostrare il passaggio dall’uno ai molti, questo passaggio sia totalmente arbitrario. Cosa che vanifica immediatamente, all’istante, ogni possibile interpretazione. L’interpretazione, a questo punto, non è altro che un racconto, che si aggiunge arbitrariamente a un altro: è un’invenzione. Cosa che emerge dalle pagine di Porfirio: la sua interpretazione di che cosa è fatta? Qual è lo strumento che utilizza? Sono i detti degli antichi, sono altri miti, cose che lui accosta arbitrariamente a ciò che vuole interpretare. Ma questo non vi richiama immediatamente Aristotele, e cioè al fatto che alla fine non c’è altro che la doxa? Noi interpretiamo attraverso la doxa e la doxa è quella cosa che ci consente di agganciare una cosa all’altra: si è sempre pensato che fosse così, ecc. Lo diceva Aristotele: presso gli antichi i più saggi sostenevano questo, quindi, presumibilmente, sarà così; i più pensano questo, quindi, dovrebbe essere così, ecc. Di questa interpretazione, tolta l’emanazione, e cioè l’idea che la mia interpretazione proceda dal testo stesso per emanazione, per processione, come direbbe Plotino, non resta che il fatto che procede attraverso quello che hanno detto i saggi, i più, ecc., non abbiamo altro, e queste cose vengono credute vere. Sono superstizioni, intendendo con superstizioni il credere qualcosa che non è fondato, non ha una ragione: non ha un principio di ragione, ma ci credo. Perché? Perché sì. Quindi, parlando di interpretazione, poniamo una questione di notevoli dimensioni per quanto riguarda la questione intellettuale, e cioè poniamo, avendone colto il problema, l’interpretazione come una invenzione, né più né meno. È un po’ come Freud, quando diceva che in un’analisi si chiede a una persona rispetto a una certa cosa “dica ciò che le viene in mente”, immaginando che ciò che sarebbe venuto in mente avesse attinenza con quella cosa. È possibile, ma non necessario. L’idea è che, invece, qualunque cosa venga in mente abbia a che fare con queslla cosa. Magari sì, ha a che fare, per un richiamo o anche soltanto per una paronomasia, cioè, per un’assonanza, ma non procede da quell’altra cosa per emanazione e, quindi, non garantisce niente; è effettivamente un racconto, che viene fatto a partire da alcune cose, ed è esattamente quello che fa Porfirio, quello che farà Filone, a partire da che cosa? Dalla doxa, e cioè questa cosa richiama un certo mito, richiama un certo credere antico, ecc., e allora lo si accosta; ma questo accostamento è sempre assolutamente arbitrario, perché non c’è emanazione, non c’è nulla che garantisca il passaggio da una cosa a un’altra. Zenone già lo aveva inteso bene. Dunque, non rimane che prendere atto del fatto che l’interpretazione è un’invenzione, cioè, non si viene a sapere nulla in più del testo, perché l’interpretazione vorrebbe questo, tutta l’ermeneutica: venire a sapere qualcosa in più del testo, che nel testo non appare, mentre noi glielo facciamo dire a forza, lo costringiamo a rispondere. Lo costringiamo a rispondere, però, quello che vogliamo noi…
Intervento: Si aggiunge un altro testo al testo…
Sì. E, poi, si incappa nel circolo ermeneutico, che consiste in questo: l’ermeneutica interpreta il testo; una volta che ha interpretato il testo, utilizza questa interpretazione per rileggere il testo, che a questo punto diventa però un altro testo, e via di seguito, sempre presupponendo che l’interpretazione colga qualcosa che è immanente al testo. È questo il punto, perché non è immanente; potremmo dire che è trascendente…
Intervento: In un certo senso, sembra che alla base di tutto ci sia il mito della caverna…
Platone è un po’ il responsabile di molte cose, come già diceva Nietzsche. Al di fuori c’è la verità. Inoltre, in più c’è anche, potremmo dire, uno sforzo: l’interpretazione allegorica richiede uno sforzo. Prendete le allegorie di Dante, le famose tre fiere che lo osteggiano quando vuole entrare là dove “lasciate ogni speranza o voi che entrate”: la lonza, il leone e la lupa. Sono allegorie, cioè, usa questi tre animali per intendere un’altra cosa: la lonza la lussuria, il leone la superbia e la lupa l’avidità. Uno può chiedersi: perché non ha parlato di lussuria, superbia e avidità e ha dovuto invece ricorre agli animali? A che scopo? Questa è una bella domanda. Scopo artistico, certo. Lo scopo artistico consiste prevalentemente in quella cosa che Aristotele nella Poetica chiama catastasi. Nella tragedia greca la catastasi è il momento ritardante: sembra che debba succedere chissà che cosa e, invece, c’è ancora qualcosa che deve arrivare. Per esempio, l’eroe, che deve salvare la principessa dal drago, inciampa e si rompe una caviglia: questa è la catastasi, perché a questo punto lui dovrà trovare il modo di superare l’ostacolo. La catastasi, questo rallentare il racconto, è implicito nell’idea dello sforzo per potere interpretare. Perché doveva interpretare? Se avesse voluto dirci qualche cosa, l’avrebbe detto chiaramente. E, invece, no, ha usato metafore, allegorie, sineddochi, metonimie, catacresi, ecc. Quindi, a che scopo? Ecco che qui ritorna il neoplatonismo, perché per guadagnare la verità, cioè, per guadagnare il bene, ci vuole lo sforzo, non quello del concetto di cui parlava Hegel, ma lo sforzo che comporta l’abbandonare il piacere terreno, materiale, quello che porta in basso, il liberarsi di tutto, così si può ascendere. Comporta lo sforzo di abbandonare il piacere: per esempio, la lussuria, la lonza (lince). Ecco perché ci vuole lo sforzo. Questa idea di rendere la vita difficile è implicita nella traduzione neoplatonica del frammento di Eraclito, la natura ama nascondersi, cioè, vuole rendere le cose difficili agli umani. Perché? È come se natura avesse la sua volontà e avesse deciso di mettere i bastoni fra le ruote agli umani che la indagano. Perché? Al di là del fatto di immaginare che la natura abbia una volontà del genere. Ma tutto questo rientra nel pensiero neoplatonico: questa idea, poi diventata cristiana, che ci sia da guadagnarsi qualcosa, come il paradiso, ad esempio, attraverso la rinuncia, la sofferenza, liberarsi di tutti i pesi, che sono quelli legati alla materia, al sensibile, quindi, ai sensi. Questo rende conto del perché di questa idea, dell’allegoria, cioè, del dire altro, del rendere le cose difficili: perché alla verità ci si accede ma con lo sforzo, deve essere guadagnata. La verità deve essere guadagnata perché non c’è, e, quindi, sono tutti questi sforzi che producono questa verità, ma questa verità non c’è da nessuna parte: questo Uno, che si deve raggiungere, non c’è. Però, se per raggiungerlo si deve fare un certo sforzo, alla fine ci credo che ci sia, perché sennò cosa mi sono sforzato a fare? Se mi sono sforzato, i miei sforzi saranno pure serviti a qualcosa o sono serviti a nulla? In effetti, non sono serviti a nulla, ma nessuno può ammettere una cosa del genere e, quindi, si rafforza la fede che ci sia: non si sa cosa, ma c’è. A questo punto, leggiamo alcune cose di Porfirio, quelle che interessano a noi, dall’Antro delle ninfe. È il commento a un passo dell’Odissea di Omero. L’antro di Itaca, descritto in questi versi da Omero, è un enigma. In capo al porto vi è un ulivo dalle ampie foglie. Vicino è un antro amabile, oscuro, sacro alle Ninfe chiamate Naiadi. In esso sono crateri e anfore di pietra. Lì le api ripongono il miele e vi sono alti telai di pietra dove le Ninfe tessono manti purpurei. Meraviglia a vedersi. Qui scorrono acque perenni, due porte vi sono: una volta a Borea (nord), è la discesa per gli uomini; l’altra, invece, che si volge a Noto (sud) è per dèi e non la varcano gli uomini, ma è il cammino degli immortali. Dice Porfirio. Il poeta non ha tratto la sua descrizione da racconti basati su dati reali, lo rivelano autori di viaggi intorno all’isola che, come afferma Cronio, non menzionano nessun antro del genere. D’altra parte, se l’antro fosse una libera finzione poetica, è evidente che Omero non sarebbe credibile se, dando forma a ciò che casualmente gli si presentava alla mente, si illudesse di poter convincere che a Itaca l’abilità di un uomo aveva costruito una via per gli uomini e una via per gli immortali, o, se non un uomo, che la natura stessa avesse lì rivelato una discesa per tutti gli uomini e un’altra via per tutti gli dèi. Un altro passo. Gli dèi consacravano opportunamente antri e caverne al cosmo, considerato nella sua totalità o nelle sue parti, poiché facevano della terra il simbolo della materia, di cui il cosmo è costituito. E, d’altra parte, gli antri rappresentavano per loro il cosmo che si forma dalla materia. Essi, infatti, per la maggior parte sono di formazione spontanea e connaturali alla terra… Gli antichi facevano così, gli antichi pensavano questo: qui incomincia a dire quali sono gli strumenti che utilizza per l’interpretazione. Poi aggiunge. A causa della materia, quindi, il cosmo è oscuro e tenebroso, ma è bello e amabile per l’intrecciarsi delle forme che lo adornano, per le quali è chiamato cosmo. Pertanto, è giusto dire che l’antro e amabile non appena vi si entra, per il fatto che esso partecipa della forma; ma per chi esamina le sue profondità e le penetra con l’intelletto, esso è oscuro. Così anche i Persiani danno il nome di antro al luogo durante i riti introducono l’iniziato al mistero della discesa delle anime sulla terra e della loro risalita da qui. Questo per dirvi come si costruisce una interpretazione. Le ninfe Naiadi sono dunque le anime che discendono nella generazione. Da qui anche l’uso di chiamare ninfe le donne che si sposano come se contraessero un vincolo al fine di generare e di cospargerle di acque attinte da fonti o sorgenti o correnti perenni. Tutte cose che lui ricava dagli antichi, dai miti. I crateri di pietra e le anfore sono simboli molto adatti alle ninfe, che presiedono all’acqua scaturente dalla roccia. E quale simbolo sarebbe più pertinente di essi alle anime che scendono nella generazione e tendono alla creazione del corpo. Perciò, il poeta osò dire che su questi telai tessono manti purpurei, meraviglia a vedersi. La carne, infatti, si forma sulle ossa e introno a essa, se il sangue purpureo… Quindi, è un accostamento che fa lui, ma che non è implicito in ciò che sta leggendo, è lui che lo aggiunge, è un racconto che fa lui. Per quale motivo, dunque, le anfore non sono piene di acqua ma di favi? In effetti, qui le api ripongono miele. Il verbo che utilizza significa “riporre cibo” e il miele è cibo e nutrimento delle api. I teologi usano il miele in numerosi e disparati simboli, perché una sostanza con molte proprietà, in quanto possiede sia il potere di purificare sia il potere di conservare. I teologi usano il miele per questo, quindi, il miele purifica. Se i teologi fanno così vuole dire che il miele è buono. Con il miele viene purificata anche la lingua da ogni errore e colpa. /…/ Per gli antichi il miele è anche simbolo di morte, ragione per la quale offrivano agli dèi libagioni di miele. La bile, invece, simbolo di vita, volendo con ciò esprimere in modo allusivo che la vita dell’anima muore a causa del piacere e ritorna alla vita con l’amarezza… È il piacere che porta alla morte, mentre l’amarezza comporta il sacrificio, comporta la sofferenza, comporta quindi uno degli strumenti di ascesa. …oppure intendendo che la morte pone fine alla sofferenza, mentre la vita terrena è amarezza e dolore dopo dolore. Così dicevano gli antichi. Numenio dice che anche Parmenide nella Fisica fa menzione di queste due porte, come i Romani e gli Egiziani. I Romani, infatti, celebrano i Saturnali quando il Sole è nel Capricorno; durante la festa gli schiavi indossano le vesti degli uomini liberi… /…/ Con tutto ciò il legislatore ha voluto significare che per questa porta del cielo coloro, che per la loro generazione sono schiavi, diventano liberi grazie alla festa in onore di Saturno. Anche il legislatore ha stabilito così. Queste sono tutte le prove, chiamiamole così, che utilizza lui per la sua interpretazione. Poiché la natura ha origine dalla diversità, ovunque l’entrata ha due porte ne è simbolo… Non è così automatico. C’è l’alterità, quindi, c’è la dualità e, allora, ecco che le due porte sono simbolo della natura. È così che si creano i simboli, per associazioni del tutto arbitrarie. Torno a dire, non c’è nessuna possibilità che ci sia una emanazione, una processione. In capo al porto vi è un ulivo dalle ampie foglie, vicino è un antro. Non si tratta, come si potrebbe pensare, di una pianta germogliata lì per caso, essa abbraccia e dà unità all’enigma dell’antro. Poiché infatti il cosmo non si è creato a caso come capitava, ma è opera perfetta, realizzata da saggezza divina e natura intelligente. L’ulivo, piantato vicino all’antro e immagine del cosmo, è simbolo della saggezza di Dio. Qui è interessante perché dice che il cosmo non si è creato a caso ma è opera perfetta, realizzata da saggezza divina. Ancora oggi si pensa così: c’è un ordine; non si parla di Dio espressamente, ma di un ordine nelle cose, nella natura, cioè, le cose non vengono a caso. C’è sempre l’allusione a un disegno superiore, che è poi quello di Dio, in fondo. Oggi non si chiama più Dio, ma l’idea è rimasta la stessa: c’è comunque un ordine delle cose, che non accadono per caso perché, se dovessero accadere per caso, sarebbe finita, un disastro totale. L’ulivo, che è sempre, ha in sé una caratteristica molto adatta alla conversione delle anime del cosmo, alle quali l’antro è consacrato. Infatti, in estate l’ulivo volge verso l’alto la parte bianca delle foglie, in inverno rivolge al suolo quella più bianca. Per tale motivo, durante le preghiere e le suppliche si tendono ramoscelli di ulivo, formulando l’augurio che le tenebre dei pericoli si mutino in luminoso candore. L’ulivo, dunque, per natura sempreverde, produce frutti che sono sostegno alle fatiche, è dedicato ad Atena e agli atleti vincitori è data in premio una corona d’ulivo, come di ulivo sono i ramoscelli dei supplici. Anche il cosmo è retto da una natura intelligente e guidato da saggezza eterna e sempre fiorente. Vedete l’analogia: così come accade nell’ulivo, così accade nel cosmo. Domanda: perché? Giunti a questo antro, dice Omero, bisogna deporre ogni possesso esterno… Qui c’è proprio Plotino. … denudarsi e assumere l’aspetto di un mendico dal corpo avvizzito, gettare ogni cosa superflua, staccarsi dalle sensazioni, e allora deliberare con Atena, seduto con lei ai piedi dell’olivo, su come eliminare tutte le passioni che traviano la propria anima. I discepoli di Numenio, non senza scopo, penso, ritennero che Odisseo, per Omero, fosse nell’Odissea l’immagine di colui che passa attraverso tutti gli stadi della generazione, per ritornare in tal modo tra coloro che sono estranei ad ogni flutto e inesperti del mare. Qui cita Omero. Fino a quando tu giunga da uomini che ignorano il mare, né mangiano cibo mescolato al sale del mare. Anche in Platone le distese delle acque, il mare e i flutti sono la materia. Per questo, penso, Omero diede al porto il nome di Porkhys. Omero, nella genealogia all’inizio dell’Odissea, ne menziona la figlia Toosa, madre di Polifemo, che Odisseo accecò. Egli voleva, dunque, che sino all’arrivo in patria Odisseo avesse qualcosa che gli ricordasse le sue colpe. Per questo a lui, supplice della divinità, si addice sedere sotto l’ulivo e sotto i suoi rami cercare di placare il demone della nascita. Non era possibile, infatti, liberarsi da questa vita dei sensi accecandola semplicemente, cercando di eliminarla rapidamente. Colui che aveva avuto tale ardire era incalzato dall’ira degli dèi del mare e della materia, divinità che si deve prima placare con sacrifici e faticose peregrinazioni e sofferenze di mendico, ora lottando con le passioni, ora valendosi di magie e astuzie, e trasformandosi completamente di fronte a esse per poter, nudo, senza stracci, distruggerle tutte. E neppure così egli si libererà delle sofferenze, ma solo quando sarà del tutto uscito dal mare e tra anime che ignorano a tal punto le opere del mare e della materia da ritenere, per la loro assoluta inesperienza degli strumenti dell’attività del mare, che il remo sia… Non bisogna pensare che tali interpretazioni siano forzose e frutto di ingenua inventiva ammantata di plausibilità, ma, pensando quanto grandi furono la sapienza degli antichi e l’intelligenza di Omero, della sua perfezione in ogni virtù, non si disconosca che egli ha nascosto l’immagine di realtà più divine sotto la finzione di una favola, perché non sarebbe riuscito a plasmare con successo l’intera narrazione se non si fosse basato su alcune verità per modellare la sua finzione. A questo problema dedicheremo uno scritto sistematico in altra occasione. Che non ci è pervenuto. Quindi, queste interpretazioni vengono da Omero e noi non possiamo pensare che Omero fosse una persona leggera. È un po’ come quando Guglielmo di Ockham dice: non possiamo pensare che Dio sia un infingardo che ci vuole imbrogliare e raggirare; no, è onesto, per cui, se ci fa vedere quella cosa in questo modo, vuole dire che quella cosa è in quel modo, ed è inutile andare a cercare oltre. Vedete come anche in Porfirio compaia in nuce quello che prima evocavo come circolo ermeneutico. Lui interpreta uno scritto di Omero in base alla teoria di Plotino, dopodiché, avendolo interpretato in questo modo, attribuisce allo scritto di Omero queste cose, come se le dicesse realmente, dimenticando che è lui che gliele ha fatte dire. A quel punto parte un’altra interpretazione, come dire “Omero ha voluto dirci questo”; che è poi quello che ha fatto la Chiesa con Platone, o Filone, quando vuole interpretare, il testo biblico attraverso Platone, cioè, facendo dire a Platone cose che ci sono nella Bibbia, quasi che Platone anticipasse o desse lui un senso alle cose. Questa è l’interpretazione: trasformare le mie fantasie in verità inconfutabili. Ora, l’interpretazione comporta tanto l’esegesi quanto l’allegoria. L’allegoria è i molti, dice molte cose; l’esegesi ha il compito di ricondurle a unità; una volta, riunificate in un’unità, quello è il loro significato. Ma torniamo a dire, ché è importante, che cosa mi autorizza a dire che questa unificazione rappresenta il significato? Perché non era presente questo significato che io attribuisco. Occorre pensare neoplatonicamente alla dottrina dell’emanazione o, come dice Plotino, della processione. Soltanto se le cose procedono dall’Uno allora è possibile interpretarle, perché dicono delle cose che rinviano comunque all’Uno perché vogliono tornare all’Uno; quindi, tutto quello che dico è riconducibile all’Uno. In fondo, tutto il pensiero, compreso quello filosofico attuale, continua a ripetere la stessa cosa, e cioè considera ciò che accade come un’allegoria, quindi come molti da ricondurre all’uno, cioè, al loro vero significato. A questo uno si riconduce necessariamente perché per parlare devo unificare, ma l’idea è che unificando i molti scompaiano, non ci siano più, perché non hanno più ragione di essere: vengono unificati e inglobati nell’uno, cioè, tornano là da dove sono arrivati, da Dio. L’interpretazione la ritrovate ovunque: quando qualcuno immagina, pensa, suppone, spera, vuole sapere che cosa l’altro sta pensando, compie un’interpretazione. Esattamente quella che descrive Porfirio rispetto all’antro delle ninfe di Omero, e cioè attribuisce fantasmaticamente le sue idee a quella cosa lì, la fa diventare quella cosa lì, perché, una volta che le ha attribuito le sue fantasie, quella cosa diventa ciò che lui crede che sia, e quindi diventa la realtà delle cose. L’interpretazione è il modo di creare la realtà, attraverso l’idea che l’allegoria possa essere ricondotta a unità e a questo punto dica necessariamente come stanno le cose. E la logica aiuta in tutto ciò, facendo pensare che, se il ragionamento è condotto correttamente, la sua conclusione sia la verità. Mercoledì leggeremo l’introduzione di Reale al testo di Filone, che mi sembra ben fatta. Poi, leggeremo il testo di Filone, magari non tutto, ma molte cose andranno lette. Anche se lo fa due secoli prima di Porfirio, fa esattamente la stessa operazione di Porfirio. Tutto ruota attorno a questo. Sia Plotino che Porfirio conoscevano bene Filone; quindi, sicuramente hanno preso da Filone una tecnica. Siccome Filone aveva qualche dubbio sull’autenticità della Bibbia, la sua idea era di supportare, avvalorare la Bibbia attraverso la parola di Platone, che era universalmente riconosciuto come il più grande pensatore. Aristotele no, lui creava solo problemi. Qui un passo preso a caso. Gli ignoranti è meglio che facciano silenzio, ma per gli uomini che aspirano alla scienza e sono amanti del loro signore, la libertà di parola è un possesso prezioso e necessario. Cioè, possono parlare solo quelli che credono in Dio, cioè, quelli che pensano come me.