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16 ottobre 2019

 

La fenomenologia dello spirito di Hegel di M. Heidegger

 

Come avevamo deciso, inizieremo la lettura del testo di Heidegger, La fenomenologia dello spirito di Hegel. Come introduzione, voglio leggervi alcune cose di Kojève (Introduzione alla lettura di Hegel, Adelphi, 1996), che sto leggendo per puro divertimento. Ho trovato delle cose interessanti e volevo leggerle perché costituiscono in un qualche modo una sorta di introduzione al discorso che farà Heidegger. Dice Kojève, nella sua Introduzione alla lettura di Hegel, a pag. 210, Perché ci sia Auto-coscienza, perché ci sia filosofia, occorre che ci sia trascendenza di sé in rapporto a sé in quanto dato. E questo è possibile, secondo Hegel, solo nel caso in cui il Desiderio si diriga non verso un essere dato, bensì verso un non-essere. Desiderare l’Essere è riempirsi di quest’Essere dato, è asservirsi a esso. Desiderare il non-Essere è liberarsi dall’Essere, realizzare la propria autonomia, la propria Libertà. Per essere antropogeno, il Desiderio deve dunque dirigersi verso un non-essere, cioè verso un altro Desiderio, verso un altro vuoto avido, verso un altro Io. Infatti il Desiderio è assenza di Essere (aver fame è essere privato del nutrimento): un Nulla che annienta nell’Essere, non è un Essere che è. In altre parole, l’Azione destinata a soddisfare un Desiderio animale, che si dirige verso una cosa data, esistente, non riesce mai a realizzare un Io umano, auto-cosciente. Il Desiderio non è umano, o, più esattamente, “umanizzante”, “antropogeno”, se non a condizione di essere orientato verso un altro Desiderio e verso un Desiderio altro. Per essere umano, l’uomo deve agire non per sottomettere a sé una cosa, ma per sottomettere a sé un altro Desiderio (della cosa). L’uomo che desidera umanamente una cosa agisce non tanto per impadronirsi della cosa quanto per far riconoscere da un altro il suo diritto, come si dirà più tardi, su questa cosa, per farsi riconoscere come proprietario della cosa. E questo, in fin dei conti, per far riconoscere dall’altro la sua superiorità su di lui. Solo il Desiderio di questo Riconoscimento (Anerkennung), solo l’Azione che deriva da un tale Desiderio, crea, realizza e rivela un Io umano, non-biologico. La PhG deve dunque ammettere una terza premessa irriducibile: l’esistenza di più Desideri capaci di desiderarsi reciprocamente, ciascuno dei quali vuol negare, assimilare, fa suo, sottomettere a sé l’altro Desiderio in quanto Desiderio. È già un primo modo per intendere ciò di cui si tratta, e cioè il motivo per cui è necessario per ciascuno che ci sia qualcuno, non qualcosa ma qualcuno, da sottomettere, da dominare, da comandare. E questo appare importante per il fatto che soltanto qualcuno, un altro Io, è desiderante, una cosa non desidera niente. Il fatto che soltanto un altro Io sia desiderante mette in moto una sorta di antagonismo. Come dire: io voglio una certa cosa, ma la vuole anche quell’altro, e, quindi, devo essere più bravo di quell’altro per ottenere quella cosa, o, meglio, per farmi riconoscere da quell’altro come più bravo di lui. Qui viene sottolineata la necessità del riconoscimento da parte dell’altro della mia capacità, mentre una cosa non mi riconoscerà mai come il più bravo. Prosegue a pag. 212. Il vinto ha subordinato il suo desiderio umano di Riconoscimento al desiderio biologico della conservazione della vita… Qui si rifà al discorso del servo e del padrone. Il vincitore ha rischiato la vita per uno scopo non vitale: questo determina e rivela, a lui e al vinto, la sua superiorità sulla vita biologica e, di conseguenza, sul vinto. Cioè: io non ho paura di morire; tu sì, quindi, vinco io. Così, la differenza tra Signore e Servo è realizzata nell’esistenza del vincitore e del vinto, ed è riconosciuta da entrambi. Qui “riconosciuta” è sempre sottolineato. È tutto improntato su questa necessità del riconoscimento da parte dell’altro. L’essere che opera… Qui con essere si intende l’uomo; infatti, è scritto minuscolo. …per soddisfare i propri istinti, che, in quanto tali, sono sempre naturali, non si eleva al di sopra della Natura: resta un essere naturale, un animale. Sarebbe il Signore. Ma agendo per soddisfare un istinto che non è mio, io agisco in funzione di ciò che, per me, non è istinto. Quindi, già non sono più animale. Agisco in funzione di un’idea, di uno scopo non biologico. Questa trasformazione della Natura in funzione di un’idea non materiale è il Lavoro nel senso proprio del termine, Lavoro che crea un Mondo non naturale, tecnico, umanizzato, adattato al Desiderio umano di un essere che ha dimostrato e realizzato la sua superiorità sulla Natura rischiando la vita per lo scopo non biologico del Riconoscimento. Questo bisogno di riconoscimento non è naturale o, come dice Kojève, biologico, non è come la sete, la fame, è qualcosa di prettamente umano. E soltanto questo Lavoro ha potuto alla fine produrre il tavolo sul quale Hegel scriveva la PhG, e che faceva parte del contenuto di quell’Io analizzato da Hegel quando rispondeva al suo: “che cosa sono?”. A pag. 225. Qui si riferisce a una cosa che aveva detto Hegel a proposito degli stoici. Gli stoici, se vi ricordate, allontanano da loro il mondo ritenendolo insensato, inutile, vuoto, e, quindi, tutto si riversa sul proprio pensiero. Diceva Hegel che questo, alla fine, fallisce perché annoia. Kojève apparentemente si mostra sorpreso di una spiegazione così banale di Hegel, che per altro verso invece è così acuto, penetrante. Dice Kojève: Quest’obiezione, o spiegazione, solo a prima vista è semplicistica. In realtà, essa ha una base metafisica profonda. L’Uomo non è Essere che è: egli è un Nulla che annienta mediante la negazione dell’Essere. Ora, la negazione dell’Essere è l’Azione. Ecco perché Hegel dice: “L’essere vero dell’uomo è la sua azione”. L’agire. Ricordate quanto Hegel abbia posto l’accento sull’operare, sull’azione. Eh, già! Perché come ottengo il superpotenziamento se non agendo su qualcosa o su qualcuno? Come posso comandare, acquisire potere, controllare, dominare, se non facendo qualcosa? Se resto immobile, in silenzio totale, sarà difficile che io ottenga una cosa del genere. Lo stoicismo provoca noia nel senso che lo stoicismo elimina il superpotenziamento. Ecco perché annoia: perché a un certo punto non c’è niente da fare, niente che interessi, mentre sappiamo che l’unica cosa che interessa è il superpotenziamento. Quindi, se lo tolgo alla radice, è chiaro che nel giro di pochi minuti sarò annoiato a morte, perché devo fare qualcosa, cioè, devo trovare qualcosa per superpotenziarmi, qualunque cosa sia, non ha importanza. Ecco da qui l’indaffararsi degli umani, che, per altro verso, ha prodotto anche cose notevoli. Cosa che è assente negli animali: nessun animale si dà da fare. Magari impulsivamente gioca, ma è un discorso diverso; sennò non è indaffarato perché non ha nulla da fare, perché non ha da superpotenziarsi, e non ce l’ha perché, molto semplicemente, non è nel linguaggio. A pag. 233. Ora, attribuire un valore assoluto a un essere non in funzione di ciò che egli fa, dei suoi atti, ma semplicemente perché egli è, in ragione del suo semplice Sein, del suo Essere, significa amarlo. Questo, secondo Kojève, che legge Hegel, è l’amore, cioè, attribuire un valore assoluto a una persona, non per quello che fa, per le sue opere, ma per ciò che è. Infatti, quante volte avrete sentito dire “Ti amo proprio per come sei”: questo è l’amore per Hegel, letto da Kojève. Dunque, si può anche dire che è l’Amore a realizzarsi nella e mediante la Famiglia antica. E poiché l’Amore non dipende dagli atti, dall’attività dell’amato, non può arrestarsi nemmeno con la sua morte. Amando l’uomo nella sua inazione, lo si considera come se fosse morto. La morte dunque non può cambiare nulla nell’Amore, nel valore attribuito nella e dalla Famiglia. Ecco perché l’Amore e il culto dei morti hanno il loro posto in seno alla Famiglia pagana. Ci sta dicendo che l’amore, così come è inteso nel discorso occidentale, è l’amore per un morto, perché se togliamo l’opera, ciò che una persona fa, e ci atteniamo solo a quello che è quella persona… che cosa è? Nulla. Una persona che non opera, che non fa nulla, che io amo solo per quello che è e non per quello che fa, è come un cadavere: è amare, secondo Hegel, un cadavere. E, infatti, dice che quando poi l’amato muore non cambia nulla… era già morto, perché solo il morto non fa più niente, non agisce più. A pag. 237. Il problema del Borghese sembra dunque insolubile: egli deve lavorare per un altro, ma può lavorare solo per se stesso. Ora, in realtà l’Uomo riesce a risolvere il suo problema, e lo risolve, ancora una volta, secondo il principio borghese della Proprietà privata. Il Borghese non lavora per un altro; non lavora però nemmeno per se stesso, considerato come entità biologica. Lavora per se stesso, considerato come “persona giuridica”, come Proprietario privato: lavora per la Proprietà considerata in quanto tale, diventata cioè denaro; lavora per il Capitale. Detto altrimenti, il Lavoratore borghese presuppone, e determina, un’Entsagung, un’Abnegazione dell’esistenza umana; l’Uomo si trascende, si supera, si proietta lontano da se stesso, proiettandosi sull’idea della Proprietà privata, del Capitale, che, pur essendo opera del Proprietario, diventa indipendente da lui e l’assoggetta proprio come il Signore assoggettava il servo, ma con la differenza che l’assoggettamento è ora cosciente e liberamente accettato dal Lavoratore. Questo discorso sul borghese e sul capitale è esattamente ciò che poi è accaduto con la tecnica, cioè, lo stesso discorso può farsi esattamente nei confronti della tecnica. (Si vede, sia detto incidentalmente, che per Hegel, come per Marx, il fenomeno centrale del Mondo borghese non è l’asservimento dell’operaio, del borghese povero, da parte del borghese ricco, ma quello di entrambi da parte del Capitale). Il Capitale viene messo al posto del trascendente. Passiamo ora a Martin Heidegger. A pag. 44. Qui Heidegger sta considerando la distinzione che fa Hegel rispetto alla scienza tra la scienza relativa e la scienza assoluta. Come sapete, Hegel cerca la scienza assoluta, il Sapere assoluto, non quello relativo. Relativa è una scientia in quanto scientia relata, vale a dire che non semplicemente in quanto riferita-a, ma in quanto è un sapere che nel suo atteggiamento di sapere è relatum – riferito – a ciò che sa, e che, condotto al di là di ciò che sa, resta sapendo presso il saputo... Un sapere, che è relato a qualche cosa, vuol dire che questo sapere, che io ho, rimane appoggiato, agganciato, al saputo, si sgancia da me. …lo sa appunto in modo tale che si lascia trattenere dal saputo – sapendo il saputo, sapendolo si dissolve in esso, si dà ad esso e così – sapendo – in esso si perde. Questo, secondo Heidegger, è il problema connesso alla scienza relativa. Come diceva lui, la scienza relativa non è tale solo in quanto riferita a qualche cosa, ma perché è un sapere che, una volta saputo, si dissolve, dice Heidegger, nel saputo; e, quindi, è un sapere che è sempre spostato, sempre dileguante. Se noi pensiamo, ad es., tutto l’ente semplicemente presente lo pensiamo in quanto creato da un Dio che è anch’egli semplicemente presente, allora questa totalità dell’essente così saputo sarà tuttavia saputa solo relativamente. Questo sapere relativo – il sapere irretito e costretto nel suo saputo – è ciò che Hegel chiama “la coscienza”. Questo sapere che è irretito nella cosa che sa: è questa la coscienza. L’autocoscienza sarebbe la coscienza che è consapevole di sé. A pag. 46. La modalità pura del sapere non-relativo sarà evidentemente soltanto quel sapere che già si distacca dall’autocoscienza, non è avvinto ad essa, ma sa ancora questa stessa, pure non in quanto qualcosa semplicemente presso per sé, accanto al quale ancora sussiste la semplice coscienza, ma in quanto autocoscienza della coscienza. Il sapersi in quanto origine non vincolata dell’unità e coappartenenza di entrambe, dell’autocoscienza e della coscienza, questo sapere è il sapere puramente non legato, puramente svincolato, il sapere assoluto – nella denominazione provvisoria: la ragione. Nella sua assolutezza, nel suo esser-sciolto è il sapere che, non sapendo in modo relativo, vincola a sé il saputo in modo relativo, sapendo lo occupa e mantiene propriamente. Mentre la coscienza è presa da ciò che sa, e quindi questo saputo rimane vincolato alla cosa, cioè, questo sapere dilegua nel saputo, invece nel sapere assoluto questo sapere non dilegua ma ritorna sulla coscienza. Il meccanismo che lui descrive è, in fondo, sempre lo stesso, che è quello che Hegel aveva descritto nelle prime pagine della Fenomenologia: l’in sé che va sul per sé e che ritorna sull’in sé, ma quando c’è questo ritorno, l’in sé non più quello di prima, perché ha acquisito il per sé. Ricordate l’esempio che facevo, del significante e del significato: il significante, dicendosi, mostra un significato; questo significato è ciò che fa del significante un significante. Questo rende anche conto di ciò su cui insiste sempre Hegel, e cioè che ciò che viene dopo è la condizione di ciò che viene prima; è ciò che viene dopo ciò che determina ciò che viene prima. A Pag. 52. Esperienza della coscienza non vuol dire in primo luogo che le esperienze vengono fatte sulla coscienza e in essa, ma che è la coscienza stessa che fa le esperienze. Essa – la coscienza – è “essa medesima immersa nell’esperienza”. In cosa fa le sue esperienze la coscienza, con cosa “deve” farle? In se stessa, con se stessa. È così che la coscienza fa esperienza: in se stessa e con se stessa, e quindi non c’è altro. Dunque è effettivamente la coscienza l’oggetto dell’esperienza e la prima interpretazione è corretta? È proprio la coscienza, dice, l’oggetto dell’esperienza? Assolutamente no, ma soltanto perché la coscienza è soggetto dell’esperienza, e questo in un senso del tutto determinato è in quanto sapere assoluto, solo per questo la coscienza è oggetto dell’esperienza, si può fare con essa un’esperienza e non il contrario. La coscienza è oggetto dell’esperienza nel senso che è la coscienza che muove tutto. La coscienza, nella misura in cui fa l’esperienza in quanto soggetto – coscienza ed esperienza intese in senso hegeliano – non può farla altrimenti che in se stessa. Se invece si prende la coscienza in primo luogo come oggetto, allora è assai possibile descriverla, esperirla in altre maniere: esperienze fenomenologiche nella coscienza, che non hanno niente a che fare con le “esperienze della coscienza” come le intende Hegel. Hegel sta dicendo, nelle parole di Heidegger, che la coscienza non fa esperienza propriamente di un qualche cosa fuori di sé; no, la coscienza esperisce in se stessa: ciò che esperisce lo esperisce in sé. Esperienza della coscienza è dunque “l’esperienza che la coscienza fa di sé”. Non è lontano da ciò che dicevamo la volta scorsa quando dicevamo che qualunque cosa io faccia, pensi o dica, è soltanto linguaggio ciò con cui ho a che fare; non con l’oggetto di ciò che penso, di ciò che dico o di ciò che faccio, ma è sempre e soltanto con il linguaggio. Quali esperienze deve dunque fare con se stessa? Sta parlando della coscienza. Nei tratti fondamentali l’abbiamo già visto. La coscienza è dapprima sapere relativo, e lo è ad un punto tale che non sa nulla di se stessa… Finché non diventa autocoscienza. …di ciò che essa è qui. Sa solo del suo oggetto, o meglio di questo in essa stessa, nemmeno dell’oggetto in quanto tale… Ma sa dell’oggetto in quanto è nella coscienza. …cioè che esso sta-di-fronte (gegensteht), appunto per un sapere di esso. Cioè: non sa della cosa, sa sempre e soltanto di sé, cioè, sa sempre e soltanto del linguaggio, non può sapere di nient’altro. Potremmo dirla così, in modo più radicale: il linguaggio non può sapere di nient’altro che di se stesso. Non appena il sapere sa del suo oggetto in quanto tale sa di esso già che l’in-sé dell’oggetto è per la coscienza: essere-per-la-coscienza, esser saputo – questo essere per… è il sapere. Questo è il sapere: è essere per la coscienza. Come dire che è essere per il linguaggio: questo è il sapere, non c’è un altro sapere, che sia fuori dal linguaggio. Nella misura in cui la coscienza sa di sé che essa, in quanto sapere di… fa esser-di-fronte (gegenstehen) l’oggetto (Gegenstand), l’oggetto perde il suo carattere di in-sé e diventa qualcosa d’altro, diventa per la coscienza, diviene un sapere; e questo sapere stesso, in quanto è saputo, diviene qualcosa d’altro da ciò che era prima, perché la coscienza si è semplicemente immersa in questo sapere dell’oggetto. Non nell’oggetto, ma in questo sapere dell’oggetto. Emerge un altro modo del sapere; e ciò che prima era saputo, l’in-sé dell’oggetto, diventa altro. Questo è il lavoro della dialettica, dall’in sé, dalla coscienza all’autocoscienza. Se dunque la coscienza fa la sua esperienza in sé, cioè in essa in quanto sapere dell’oggetto, e quindi anche in questo, allora deve esperire (erfahren) che essa stessa si fa altro. La coscienza, quando diventa autocoscienza e poi torna nella coscienza, non è più quella da cui siamo partiti, è un’altra cosa. Essa dimostra a sé la verità di ciò che effettivamente è già nel sapere immediato, non saputo oltre, dell’oggetto. Il sapere immediato dell’oggetto è soltanto il sapere del linguaggio che mi consente di sapere: non posso sapere nient’altro che non sia linguaggio, sempre e comunque. In questo inveramento essa perde la sua prima verità… Quella della coscienza. …ciò che essa riteneva dapprima e inizialmente di sé. Solo che in questo inveramento essa non perde soltanto, ma fa anche un’esperienza, si arricchisce di un’esperienza, acquisisce una verità, ed invero una verità su se stessa. Come dire che la coscienza, diventando autocoscienza e tornando sulla coscienza, acquisisce una verità, non sulla cosa ma su se stessa. Ciò che vengo a sapere quando analizzo un aggeggio non è niente che ha a che fare con l’aggeggio ma semplicemente con la mia coscienza. Questo è quello che dice Hegel. Vi rendete conto che è abbastanza inusuale ancor oggi. Il sapere, in questa esperienza scopre sempre più se stesso e viene così a se stesso, alla sua essenza più propria. Questo sapere muove dal linguaggio e torna al linguaggio: è questo il suo movimento. Così l’esperienza che la coscienza fa con se stessa… Potremmo dire: l’esperienza che fa il linguaggio con se stesso. …in corrispondenza con il concetto di esperienza precedentemente riportato al secondo posto, dà un duplice risultato, negativo e positivo: nell’esperienza che la coscienza fa con se stessa si fa altro; ma proprio questo diventar-altro-da-sé è un venire-a-se-stessa. Questa coscienza diventa altro ma questo diventare altro non è altro che il tornare a se stessa. Sta qui il movimento dialettico: tesi, antitesi e sintesi. La coscienza diventa altro da sé, questo esser diventato altro da sé ritorna: è questo il movimento, è questa l’unica verità, secondo Hegel. Poi cita Hegel: “Ed esperienza vien detto appunto quel movimento in cui l’immediato, il non sperimentato, cioè l’astratto (relativo), appartenga all’essere sensibile o al semplice solo pensato, si viene alienando e poi da questa alienazione torna a se stesso; così soltanto ora, dacché è anche proprietà della coscienza, l’immediato è presentato nella sua effettualità e verità”. Solo in questo movimento in cui la coscienza… Io conosco qualche cosa ma la conosco attraverso il linguaggio; conoscendola attraverso il linguaggio, conosco soltanto il linguaggio; ciò che ho conosciuto del linguaggio mi ritorna nel linguaggio e mi modifica. Questo movimento è continuo. Nell’esperienza che la coscienza fa con se stessa, essa deve fare la sua esperienza con sé, essa si esperisce in quanto quella che deve fare tali esperienze con se stessa, cioè esperisce la necessità della sua propria essenza, e deve fare con se stessa questa esperienza – perché essa stessa in quanto sapere è per sua essenza non relativa, ma assoluta -; che il sapere relativo è solo perché essa è assoluta. È perché questa conoscenza è assoluta che può esserci una conoscenza relativa, nel senso che l’esperienza relativa è quella che mi consente di accorgermi che la conoscenza assoluta è il linguaggio. Io faccio esperienza di questo aggeggio, ma questo aggeggio non è altro che linguaggio; quando mi ritorna a sé non ho altro che il sapere assoluto, cioè, il sapere del linguaggio; che è la sintesi fra il sapere relativo di questa cosa qui, che è comunque un sapere intorno al linguaggio ma che ancora non si sa sapere del linguaggio, e che ritorna su stesso e diventa linguaggio che sa di se stesso. Sto facendo un po’ di sovrapposizioni tra linguaggio e coscienza per rendere la cosa più comprensibile. Ciò che così nell’esperienza della coscienza circa se stessa risulta, viene alla luce, si manifesta, è lo spirito. Questo è lo spirito per Hegel: l’esperienza che la coscienza fa di se stessa; il risultato di questo lavoro è ciò che per Hegel è lo spirito. Nell’esperienza in quanto movimento caratteristico della coscienza – il diventare-altro-da-sé nel venire a se stesso – accade il venire-a-manifestazione dello spirito, la fenomenologia dello spirito. Ciò che si manifesta è il fenomeno, è lui che si manifesta, che appare. Il modo in cui si manifesta lo spirito è questo: la coscienza, il linguaggio, che si adopera verso qualcosa di relativo ma soltanto perché, adoperandosi verso qualcosa di relativo, questo qualcosa di relativo è l’occasione per tornare al linguaggio, e quindi è come dire al linguaggio “guarda che sei sempre tu che fai tutte queste cose”. L’ho detta in modo un po’ animistico, però… A pag. 55. Fenomenologia dello spirito significa la vera e propria comparsa totale dello spirito. Davanti a chi? A se stesso! Esser-fenomeno, manifestarsi significa comparire, e comparire così che si mostra con ciò qualcosa di diverso rispetto a ciò che è comparso finora, che, ciò che compare, compare di contro a ciò che è apparso finora e questo decade così a mera parvenza (Schein). È un discorso interessante quello che sta facendo il nostro amico Heidegger, che legge Hegel. Dice che ciò che compare, in seguito a questo lavoro dialettico, è qualcosa che è contro rispetto a ciò che è apparso finora, è un’altra cosa. In seguito all’accoglimento del linguaggio, dell’opera del linguaggio, del lavorare del linguaggio, riconosciuto da se stesso, ciò che è apparso finora, prima che si facesse questa operazione, è mera parvenza, illusione. E, allora, soltanto ciò che accade lungo un percorso autentico, potremmo dire a questo punto “reale” – reale nel senso che è l’unico che possa mostrare che cosa sta accadendo –… questo percorso, che possiamo anche chiamare analitico, perché no?, è l’unico percorso in cui ciò che accade è reale. Faccio un esempio molto stupido. Pensate a una conversazione analitica: ciò che accade in quella conversazione è assolutamente reale, perché autentico, concreto, per usare i termini di Severino, c’è tutto lì; cioè, c’è il confronto, almeno si spera che accada, del linguaggio con se stesso, che ritorna a se stesso e che mostra a se stesso di essere sempre altro. Ma, allora, sempre riferendoci a questo esempio molto banale, quando è terminata la conversazione, fuori da quella porta tutto ciò che si incontra è un’illusione, è mera parvenza. È questo che ci sta dicendo. Ovviamente, né Hegel né Heidegger parlavano dell’analisi, anche se Heidegger la conosceva, non così bene ma, sicuramente, Hegel no. Questo processo che Hegel descrive, della coscienza che si fa autocoscienza e poi torna presso di sé per mostrarsi così com’è – o il linguaggio che “esce” fuori di sé per poi tornare e mostrarsi per ciò che veramente è. Tutto ciò è l’unica cosa autentica, l’unica cosa concreta, l’unica cosa reale. Fuori di lì c’è soltanto Schein, mera parvenza, illusione, illusione di fantasie, costruzioni, storie varie e infinite, tutte quelle cose di cui gli umani vivono, ma in tutto ciò, seguendo Hegel, non c’è niente di autentico. Potremmo dirla così: fuori del percorso analitico, intendendolo così come ho detto prima, cioè come il linguaggio che arriva a mostrare se stesso e venire accolto per se stesso, fuori da questo c’è soltanto mera parvenza, illusione. L’illusione non è poco, badate bene; è forse la cosa più potente che ci sia per gli umani, è irresistibile. La posizione di Hegel è straordinaria, mostra la totale inesistenza di qualche cosa fuori della coscienza, fuori del linguaggio, fuori dell’autocoscienza, fuori di questo movimento dialettico, che è movimento del linguaggio, né più né meno. Il manifestarsi, in quanto questo mostrarsi comparendo del sapere è, in quanto diventar-altro-da-sé… Perché, sempre in questo movimento, diventa altro da sé. …nel venire-a-se-stesso, l’esperienza in senso hegeliano rettamente intesa – il dover-far-esperienza-con-sé. Questo è il divenire: il dovere fare esperienza con sé; quindi, il tornare all’uomo. Hegel ha fatto solo gli esempi degli stoici, degli scettici e della religione, erano modi per trovare qualcosa fuori di sé da dovere dominare poi, in fondo. Mentre, a questo punto l’unica cosa da “dominare” – perché la volontà di potenza non è eliminabile – è il linguaggio. Come lo “domino”? Agendolo anziché subirlo. Agendolo, cioè, mettendolo continuamente alla prova, letteralmente provandolo, facendogli cioè costruire cose. In questo aveva ragione anche Kojève: è l’azione, l’agire, che è fondamentale; se io non faccio niente non succede niente, quindi, mi annoio, come gli stoici. Quindi, devo sempre agire, devo sempre fare qualche cosa per il superpotenziamento; che poi sia superpotenziamento intellettuale è preferibile, certo, ma qualunque cosa gli umani facciano, in qualunque momento e che non possono non fare, è per il superpotenziamento. Cioè, un agire che deve cambiare il mondo, che deve cambiare qualche cosa, quindi, dominarla. Il manifestarsi è il comparire nella duplicità del mostrare-sé e del comparire, nel mostrarsi, di contro a ciò che si è già mostrato, e del mostrare in tal modo questo quale mera parvenza. Dice nel mostrarsi, di contro a ciò che si è già mostrato, cioè, ciò che mi si mostra è qualcosa che è sempre di contro, ma nel momento in cui mi si mostra è anche quello che è. È per questo che parla di duplicità: è quello che è ma è anche altro da sé, perché è di contro a ciò che si è già mostrato: questo aggeggio mi si mostra, però il modo in cui mi si mostra, dopo che questa cosa mi ritorna, è di contro a ciò che mi si è già mostrato, si è già alterato nel frattempo, è già diventato altro. Manifestarsi è il diventar-altro-da-sé della coscienza nel suo sapere. Questo è il divenire: il diventare continuamente altro da sé, perché c’è questo movimento. È la stessa cosa di cui parla Heidegger a proposito del mondo, del progetto: io ho un progetto, modifico questa cosa lungo questo progetto, che io stesso sono, e in questo progetto io mi modifico continuamente. A pag. 56. “Manifestarsi e scindersi è una cosa sola”. È esattamente il linguaggio che si manifesta scindendosi. Quante volte abbiamo detto che il linguaggio è questa distanza che instaura, che inaugura, tra il dire e il detto, tra ciò che voglio dire e ciò che dico, o, per dirla in modo un po' rozzo, tra ciò che vedo e ciò che mi si mostra, non è mai ciò che vedo ciò che mi si mostra. Quindi, il manifestarsi e scindersi sono la stessa cosa, perché il linguaggio si manifesta scindendosi, continuamente. È questa la ragione per cui non ho mai accesso a ciò di cui dico, perché c’è una distanza e questa distanza non è colmabile da nulla, ma è questa distanza che mi consente di dire, sennò non potrei dire niente, non ci sarebbe neanche il pensiero, come accade negli animali. Lo scindersi è l’allontanarsi e il contrapporsi, è il diventar-altro-da-sé. È la descrizione del linguaggio e del suo funzionamento in due parole. Anche il manifestarsi e il fenomeno sono in Hegel primari e riferiti esclusivamente a ciò che già venne alla luce nel suo concetto di esperienza.: il venir fuori di un negativo nella sua contraddizione con un positivo. Questo negativo, che emerge nella contraddizione, il detto rispetto al dire,… ecco, questa contraddizione viene superata modificando il dire, perché il detto non è ciò che volevo dire, e pertanto ho già detto un’altra cosa, e quindi modifica il mio dire. In questa storia fenomenica si manifesta lo spirito, l’assoluto. Perciò Hegel dice chiaramente già nel 1801, nello scritto sulla Differenza: “la contraddizione è la manifestazione puramente formale dell’assoluto”. Ciò che io dico non è ciò che voglio dire, c’è una contraddizione, dico questo ma di fatto sto dicendo un’altra cosa: questa è la manifestazione dell’assoluto, cioè del linguaggio. Nel diventar-altro al tempo stesso si dissolve e sorge qualcosa. Questa è anche l’abilità di Heidegger di mostrare con due parole e con assoluta chiarezza la cosa. Io dico qualche cosa ma questo qualche cosa diventa altro, e questo diventare altro di questa cosa fa sorgere un’altra cosa, che è quella che io sto dicendo ma cambiata, non è più la stessa. Perciò Hegel scrive, nella Prefazione alla Fenomenologia dello spirito: “L’apparenza è un sorgere e un passare che né sorge né passa, ma che è in sé e costituisce l’effettualità e il movimento della vita della verità”. Ma la verità, dobbiamo aggiungere a completamento di quanto detto a proposito del concetto di esperienza, la verità si dimostra vera solo nell’esperienza della coscienza in quanto sapere assoluto, spirito. Come dire che la verità non sta in nient’altro che nel sapere del funzionamento del linguaggio; sta qui la verità, non ce n’è un’altra perché non c’è qualcosa oltre, non c’è niente oltre il linguaggio. Questo movimento è il dimostrarsi-vero della coscienza, del sapere finito in quanto spirito, dimostrarsi-vero che è il comparire dello spirito, la fenomenologia. L’esperienza, la fenomenologia è il modo in cui il sapere assoluto si porta a se stesso, e proprio perciò esso è la scienza. Che cos’è la scienza? È il sapere assoluto, cioè, un sapere del linguaggio. Assoluto nel senso che oltre non si va, non c’è più niente. Non è scienza della esperienza, ma l’esperienza, la fenomenologia in quanto sapere assoluto nel suo movimento. Non è scienza dell’esperienza, anche se nel titolo c’era questo: Scienza dell’esperienza della coscienza. A pag. 57. L’esperienza che la coscienza fa nella scienza, in quanto cioè si porta al sapere assoluto è questa: che la coscienza è spirito e lo spirito è l’assoluto. “L’assoluto è lo spirito: questa è la più alta definizione dell’assoluto. Trovare questa definizione e comprenderne il significato e il contenuto, tale, si può dire, è stata la tendenza assoluta di ogni cultura e filosofia; a questo punto ha mirato coi suoi sforzi ogni religione e ogni scienza: solo questo impulso spiega la storia del mondo”. A pag. 58. La scienza nella sua prima presentazione fa comparire il sapere assoluto, cioè l’assoluto stesso nel suo diventar-altro-da-sé… Questo è sempre il movimento: un qualche cosa si viene a sapere in quanto altro da sé e, in quanto altro da sé, modifica il mio sapere. …in cui esso viene a se stesso, per concepire se steso nella sua essenza e natura in quanto spirito assoluto. È in questo ritorno che io vengo a sapere qualcosa, vengo a sapere rispetto all’assoluto, al linguaggio. Il linguaggio mi torna indietro e dice: “guarda che stai soltanto parlando di linguaggio, stai soltanto mettendo in atto il linguaggio, qualunque cosa tu stia facendo”. Perciò Hegel dice, alla fine dell’Introduzione: “Sospingendo la coscienza se stessa verso la sua esistenza vera, raggiungerà un punto nel quale depone la sua parvenza di essere inficiata di alcunché di estraneo, che è solo per lei ed è come un altro; o, dove l’apparenza diviene uguale all’essenza, dove, quindi, la presentazione della coscienza coincide proprio con questo punto della scienza dello spirito propriamente detta; e dove infine, col cogliere questa sua essenza, la coscienza medesima segnerà la natura dello stesso sapere assoluto”. Una di quelle frasi grandiose di Hegel, in cui lingua e spirito filosoficamente improntato sono divenuti una cosa sola. A pag. 59. L’esposizione, in e tramite la sua mobilità (della scienza) diventa essa stessa ciò che va esposto! Che è ciò che ha fatto Hegel con la Fenomenologia, cioè, ha mostrato la Fenomenologia dello spirito come un percorso in atto, che si va facendo. L’esposizione non coincide con ciò che è esposto casualmente, ma questa coincidenza è anzi necessaria: bisogna arrivare a che il sapere assoluto in quanto sapere sia ciò che è, che vuol dire però che esso stesso sappia se stesso assolutamente. Se il linguaggio non sa se stesso assolutamente allora vive di apparenze. (il sapersi assoluto non è un comportamento teoretico campato in aria, ma la modalità della effettualità dello spirito assoluto, ed in quanto tale sapere e volontà al tempo stesso). È sapere e volontà al tempo stesso, sono la stessa cosa. Potremmo dire che il sapere del linguaggio è sapere della volontà di potenza, sono la stessa cosa. Cosa si è ottenuto con ciò? Esso è così presso di sé, cioè nel suo proprio elemento, in cui esso si dispiega ora assolutamente in quanto sapere assoluto, per sapere in modo assoluto ciò che esso in quanto tale deve sapere. Ciò che deve sapere è se stesso in quanto altro: è esattamente il linguaggio, linguaggio che è se stesso in quanto è sempre altro, perché già solo per dire se stesso deve dirsi in un altro modo. A pag. 62. La fenomenologia si muove, conformemente alla sua intenzione e al suo compito interno, sin dall’inizio nell’elemento del sapere assoluto, e solo perciò può osare “preparare” tale elemento. Cioè: il sapere assoluto è già presente, il linguaggio c’è già. Ci dice Heidegger: noi nasciamo nel linguaggio, il linguaggio c’è già quando io nasco. Come ho detto varie volte: il linguaggio non l’ho inventato io. Ma non bisogna allora dire che Hegel presuppone già all’inizio della sua opera, cioè anticipa ciò che pretende di aver ottenuto solo alla fine? Certo, bisogna dirlo – chiunque voglia in generale capire qualcosa di quest’opera deve continuare a dirlo. Cercare di smorzare questo “fatto” – come vogliamo chiamarlo – testimonia oltre tutto una scarsa comprensione dell’opera. Bisogna continuare a ripetere: Hegel presuppone già all’inizio ciò che ottiene alla fine.