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16 settembre 2020

 

L’attualismo di G. Gentile

 

Questa sera iniziamo a leggere il testo di Giovanni Gentile. Capitolo I, La soggettività del reale. Dice alcune cose rispetto a Berkeley, filosofo inglese del XVIII secolo. Fin dal principio del secolo XVIII, con la dottrina di Giorgio Berkeley, si pone chiaramente questo concetto: che la realtà non è pensabile se non in relazione coll’attività pensante per cui è pensabile; e in relazione con la quale non è solamente oggetto possibile, ma oggetto reale, attuale di conoscenza. Per modo che concepire una realtà è concepire anzi tutto la mente in cui questa realtà si rappresenta; e quindi è assurdo il concetto di una realtà materiale. Per Berkeley è evidente che il concetto di sostanza materiale, corporea, estesa, di corpi cioè che esistano fuori dalla mente in generale, è un concetto in se stesso contraddittorio, poiché noi possiamo parlare soltanto di cose che sono percepite, e sono quindi oggetti di coscienza, idee. /…/ L’oggetto, insomma, che, quantunque pensato fuori d’ogni mente, è sempre mentale. C’è una contraddizione di Berkeley. Lo stesso Berkeley, insomma, pur dicendo che esse est percipi, pur facendo coincidere la realtà con la percezione, distingue tra pensiero che pensa attualmente il mondo, e Pensiero assoluto, eterno, trascendente le singole menti, il quale renderebbe possibile lo sviluppo delle singole menti. Sarebbe Dio. Paragrafo 3. Ora è evidente che, se noi pensiamo il pensiero umano come condizionato dal pensiero divino (ancorché questo non ci si presenti come una realtà immediata), noi riproduciamo per il pensiero umano quella medesima situazione, per cui esso si trova di fronte alla natura materiale, cioè alla natura considerata come la considerava la filosofia antica, presupposta dal pensiero, realtà che non riceve incremento dallo sviluppo del pensiero. Realtà, concepita la quale, non sarà più possibile concepire il pensiero umano; poiché una realtà che, di fronte al pensiero, non cresca, non continui a realizzarsi, è una realtà la quale non si può concepire se non escludendo la possibilità di concepire questa presunta o apparente nuova realtà, che sarebbe il pensiero. Paragrafo 6. Il pensiero in atto. Il punto di vista trascendentale è quello che si coglie nella realtà del nostro pensiero quando il pensiero si consideri non come atto compiuto, ma, per così dire, quasi atto in atto atto, che non si può assolutamente trascendere, poiché esso è la nostra stessa soggettività, cioè noi stessi; atto, che non si può mai e in nessun modo oggettivare. Il punto di vista nuovo, infatti, a cui conviene collocarsi, è questo dell’attualità dell’Io, per cui non è possibile mai che si concepisca l’Io come oggetto di se medesimo. Ogni tentativo che si faccia, si può avvertirlo fin da ora, di oggettivare l’Io, il pensare, l’attività nostra interiore, in cui consiste la nostra spiritualità, è un tentativo destinato a fallire, che lascerà sempre fuori di sé quello appunto che vorrà contenere; poiché nel definire come oggetto determinato di un nostro pensiero la nostra stessa attività pensante, dobbiamo sempre ricordare che la definizione è resa possibile dal rimanere la nostra attività pensante, non come oggetto, ma come soggetto della nostra stessa definizione, in qualunque modo noi si concepisca questo concetto della nostra attività pensante. La vera attività pensante non è quella che definiamo, ma lo stesso pensiero che definisce. Qui c’è un problema, che a Gentile è sfuggito. Pensateci bene. Il pensiero pensante, che lui, per usare le sue categorie, contrappone al pensiero pensato, il pensiero pensante è quello in atto; quindi, io non posso mai riferirmi al pensiero pensante se non come pensato. Il che è la medesima cosa che dire che non si può pensare il concreto se non come astratto: se io penso il concreto, se lo determino, se me lo rappresento, lo penso come astratto, come definito. Quindi, qui avviene un fenomeno singolare, e cioè che il pensiero pensante non può mai apparire se non come pensato, perché se lo penso è pensato. Posso immaginarlo, rappresentarlo, supporlo in atto, ma non posso pensarlo, non posso approcciarlo se non come pensato, come astratto. Questo potrebbe indurci a considerare che il pensiero pensante, in quanto tale, non c’è se ogni volta comunque è pensato. E così anche il pensiero pensato: non posso se non pensarlo, pensarlo adesso – il pensato lo sto pensando adesso. Quindi, per pensare il pensato scompare il pensante; per pensare il pensante scompare il pensato. Come dire che una cosa è vera soltanto se non c’è, cioè posso immaginare il pensiero pensante a condizione di pensarlo come pensato; ma a questo punto non sto più pensando il pensante, sto pensando il pensato. Quindi, se posta in questo modo, come la sta ponendo Gentile, c’è una sorta di paradosso, e cioè il pensiero pensante in realtà non può essere pensato se non come pensato, cioè come un’altra cosa. È chiaro che la questione si risolve con Hegel, ma non con Gentile. Gentile tiene separati il pensiero pensante e il pensiero pensato; tenendoli separati è come se tenesse separato l’astratto dal concreto, e in questo modo è chiaro che sorgono problemi. Ora, il rilevare un paradosso nella teoria di Gentile invalida la teoria di Gentile? Sì e no. Sì, se si considera la logica formale, il criterio di verità: se così è, è chiaro che affermare che qualcosa esiste a condizione che non esista è paradossale, e quindi tutta la teoria verrebbe invalidata. Oppure, anziché appoggiarci alla logica formale, come criterio di verità, consideriamo invece che una cosa del genere è una cosa da pensare, qualcosa che dà da riflettere, cioè, qualcosa che apre a nuovi pensieri, a nuove considerazioni.

Intervento: Non ho inteso la differenza tra pensiero pensante e pensiero pensato.

Il pensiero pensante è quello che è in atto; il pensiero pensato è il pensiero che hai pensato. Potremmo avvicinare la cosa a ciò che diceva de Saussure: il significante è ciò che sta significando; il significato invece è ciò a cui si riferisce. Così anche il pensiero pensante è in atto, ma si riferisce al pensiero pensato, che appunto, se lo penso, diventa immediatamente pensiero pensato. Capitolo II. La realtà spirituale. Quando Gentile parla di spirituale intende il pensiero, usando termini che si utilizzavano nella filosofia del Settecento e dell’Ottocento. Per spirituale, usando termini più recenti, potremmo intendere il concreto. Così la lingua, pur essendo un prodotto storico, si comincia a distaccare da ogni soggetto particolare che è unico, e di cui è, momento per momento, un linguaggio unico; si estende ad un popolo. Si stacca mentalmente anche da tutti i popoli; e parliamo, non più di una determinata lingua, ma del linguaggio in generale, mezzo, come si dice, di espressione degli stati d’animo, forma del pensiero. La lingua, così concepita e fissata dalla nostra mente, pare si liberi da ogni contingenza o particolare determinazione, e si libri nel mondo dei concetti, che non è soltanto il mondo che si realizza, ma anche il mondo che, semplicemente, si può realizzare. La lingua allora diventa un fatto ideale. Ed ecco, da una parte, la lingua sonante sulle labbra dell’uomo, che è un uomo vivo, e carne ed ossa: lingua la cui realtà consiste nell’uomo stesso che parla; e dall’altra parte, la lingua in sé, che può essere parlata, ma che è quel che è, anche se nessuno la parli. Ovviamente ci sarebbero molte obiezioni da fare. Innanzitutto, come fa a non accorgersi di quella cosa, di cui in realtà nessuno si accorge, e cioè che sta parlando, con tutto ciò che questo comporta. Ma adesso ci dirà una cosa più interessante. Paragrafo 2. La verità è che la lingua, quando la si voglia conoscere in concreto, si presenta come lo svolgimento della lingua; ed è la lingua che suona sulla bocca degli uomini che la usano. La quale lingua non si stacca più dal soggetto, non è un fatto spirituale che si ossa distinguere dallo spirito in cui avviene. Quest’atto spirituale, che si chiama linguaggio, è appunto lo spirito nella sua concretezza. Sarebbe il pensiero pensante, la lingua parlante. Così quando, anzi che parlare di una lingua storica, crediamo di parlare della lingua come fatto psicologico, o come fatto ideale concepibile fuori della storia, quasi inerente ala stessa natura dello spirito quale idealmente è da ricostruire quando se ne sia inteso il principio; anche in questo caso, noi crediamo di esserci staccati dall’individuo, che è quello che parla a volta a volta un determinato linguaggio; e invece non facciamo altro se non, nel nostro concetto del linguaggio, ricostruire un momento della nostra coscienza, della nostra esperienza spirituale. Tolto il filosofo che ricostruisce il linguaggio, il linguaggio stesso come omento dello spirito vien meno; poiché questo linguaggio, per quanto ideale, trascendente e fuori del tempo e dello spazio, è il linguaggio così concepito dall’uomo, dall’individuo, che non può effettivamente rappresentarselo altrimenti che parlandolo; e tato se lo rappresenterà, quanto lo parlerà. Lo sta dicendo, ma non se ne accorge: del linguaggio posso solo parlarne. È il parlarne che è il linguaggio, non è quello di cui sto parlando, è il parlarne che è il linguaggio. Distinguiamo pure la Divina Commedia da Dante che la scrisse e da noi che la leggiamo; ma avvertiamo poi che questa Divina Commedia, che così distinguiamo da noi, è da noi e in noi, dentro la nostra mente, pensata come distinta da noi. È cioè, essa stessa, in noi, malgrado la distinzione: in noi, in quanto la pensiamo. Sicché non è nulla di estraneo a noi che la pensiamo. Staccare, dunque, i fati dello spirito dalla vita reale di questo, è come perderli di vista e non ravvisarli più nella loro intima natura, per quel che essi sono quando si realizzano. Gentile qui è preciso: la lingua è ciò che si sta dicendo, e non posso non tenere conto che, quando parlo della lingua ideale, in realtà sto parlando e, quindi, sto mettendo in atto la “mia” lingua – tra virgolette perché non è mai propriamente mia, è sempre un prodotto storico. E qui ci troviamo di fronte a un’altra questione, che un po’ ricalca quella precedente, e cioè è vero che ciascuna volta che parlo del linguaggio sto parlando di una cosa ideale, ma questa cosa ideale pure è presente in ciò che sto dicendo, stabilisce il modo in cui sto parlando. La storicità della mia lingua, il fatto che stia parlando un italiano del 2020, e non un italiano del 1800, già non è indifferente.

Intervento: Perché è sempre in atto.

Esattamente. È sempre in atto. Quindi, parlando, sì, certo, è in atto ciò che sto dicendo della lingua ideale, ma la lingua ideale è anche ciò che sta costruendo ciò che io dico. La mia lingua personale non viene dal nulla. Paragrafo 4. Gli altri e noi. Un mondo spirituale è concepibile soltanto in questo modo: che non si contrapponga all’attività di chi lo concepisce, se ha da concepirlo veramente come spirituale. Qui sta parlando di quello che Heidegger chiamava il “mondo”, il mio mondo. Non posso concepirlo se non attraverso il mondo, cioè attraverso tutte le cose di cui sono fatto; quindi, parlo delle cose di cui sono fatto attraverso le cose di cui sono fatto. Altri, oltre di noi, non ci può essere, parlando a rigore, se noi lo conosciamo, e ne parliamo. Questo è già presente in Hegel: l’in sé non può parlare del per sé se non integrandolo e, quindi, integrandolo in sé. L’altro è semplicemente una tappa attraverso la quale dobbiamo passare, se dobbiamo obbedire alla natura immanente del nostro spirito. Passare, non fermarci. Quando ci troviamo dinanzi a quest’essere spirituale come a qualche cosa di diverso da noi, da cui ci dobbiamo distinguere, e che presupponiamo anteriore alla nostra nascita, e talee che, se anche noi non ci pensiamo più, rimanga pur sempre, possesso, almeno possibile, degli altri uomini: allora è segno che noi non siamo ancora propriamente in presenza di quest’essere come essere spirituale, e non ne scorgiamo propriamente la spiritualità. Noi possiamo considerare qualcuno, ma considerandolo lo consideriamo come un astratto, e, se è astratto, è astratto da un concreto, che deve esserci perché ci sia un astratto, così come l’astratto è indispensabile perché ci sia il concreto. L’astratto non è altro che il modo in cui io penso il concreto. Gentile, sin dai primi paragrafi, pone la questione che gli preme, e cioè stabilire che è il mio pensiero che è necessario perché le cose esistano. Come dicevamo tempo fa, domandarsi se la realtà esiste fuori dal linguaggio, è, parafrasando Wittgenstein, un non-senso, cioè, non significa niente questa domanda, perché se io penso la realtà già la sto pensando, non può darsi una realtà se non la sto pensando. È l’esempio che fa Gentile, ripreso da Severino nella Prefazione: se penso a un qualche cosa a cui nessuno pensa, e dico che questa cosa esiste anche se nessuno la sta pensando, in quel momento ci sono io che la sto pensando. Paragrafo 7. Processo costruttivo dell’Io trascendentale. Affinché si possa intendere la natura di questo stesso soggetto che risolve sempre ogni oggettività degli esseri spirituali, e non è possibile che si arresti dinanzi a un essere spirituale diverso da sé, e non ha perciò dinanzi a sé se non se medesimo, bisogna prima di tutto considerare che questo soggetto unico e unificatore non è un essere o uno stato, m un processo costruttivo. Questa questione del processo, del divenire, c’è sempre in Gentile. Questo soggetto unico e unificatore non è nient’altro che l’in sé che si unifica con il per sé di Hegel, e l’unificazione è l’Aufhebung, l’integrazione. Il nostro Giambattista Vico nel De antiquissima Italorum sapientia (1710) disse una profonda verità in quel famoso motto: verum et factum convertuntur. Il vero e il fatto si convertono tra loro: se è vero, è un fatto, se è un fatto, è vero. Il concetto della verità coincide con quello del fatto. Vero è quel che si fa: il vero della natura è, secondo il Vico, per l’intelligenza divina che è creatrice della natura stessa; e il vero per l’uomo non può essere quello della natura, che non è fatta da lui, e nei cui segreti perciò non è dato a lui penetrare. Possiamo vederne solamente i fenomeni nei loro legami estrinseci di fatto (come dirà indi a poco David Hume), ma non possiamo sapere perché un fenomeno debba succedere a un altro, né in generale perché quel che è, sia. La domanda fondamentale della filosofia, formulata da Leibniz e poi ripresa da Heidegger: perché esiste qualcosa anziché nulla? La risposta che non è mai stata formulata, in realtà, è molto semplice: perché esiste qualcosa anziché nulla? Perché stiamo parlando, sennò tutto questo non sarebbe mai esistito, né avrebbe mai la possibilità di esistere, compreso il concetto stesso di esistenza. Dentro alla natura non vediamo se non buio, mistero. Di tutto quello invece che noi intendiamo come opera nostra, evidentemente il criterio della verità sta dentro di noi. Che cosa è, per esempio, la linea retta? Noi lo sappiamo perché siamo noi a costruirla per mezzo della nostra stessa fantasia, nel seno stesso del pensiero. La retta non è in natura, e noi la intendiamo mentalmente, non immediatamente, sibbene costruendola. Così nella Scienza nuova (1725) lo stesso Vico dirà che può la mente umana conoscere la legge dell’eterno processo storico (ossia dello svolgimento dello spirito), perché nella stessa mente umana è la causa e la prima origine di tutti gli avvenimenti storici. È una questione importante per Gentile, come dicevo prima, quella del processo, perché con questa parola è come se mostrasse, tra poco lo dirà, che non si tratta del fatto in quanto tale ma di qualcosa che è sempre in fieri, cioè che si sta sempre facendo, non è mai fatto ma sempre facentesi. Ebbene, qual è il significato di codesta dottrina del Vico? Essa c’insegna che noi possiamo dire di conoscere un oggetto soltanto se questo oggetto non è niente di immediato:… Direbbe Hegel: è mediato. Noi potremmo aggiungere: è mediato dal linguaggio. …niente che il pensiero nostro trovi innanzi a sé già incominciando a conoscerlo, reale perciò prima ancora che sia conosciuto. Qui c’è tutta la dottrina di Gentile: non c’è nulla di reale prima che questo sia conosciuto. Immediata conoscenza è contradictio in adiecto. Questo già Hegel lo sapeva: non posso conoscere immediatamente, perché questo immediato, se fosse veramente immediato, sarebbe irrelato; e se non è in relazione con nulla non rinvia a nulla; se non rinvia a nulla non è un elemento linguistico e, quindi, è nulla. volete sapere che cosa è una lingua? Ricordatevi dell’avvertenza geniale di Guglielmo Humboldt: la lingua vera non è ργον (opus), ma νέργεια (opera)… L’opus sarebbe il fatto; l’opera è l’energia, è l’essere in atto di qualche cosa. …non è il risultato del processo linguistico, ma appunto questo processo, che è sviluppo in atto. Questo è ciò che già diceva Humboldt, e cioè la lingua è un continuo processo in atto. È impossibile determinarla, è impossibile localizzarla, anche se, come sappiamo, per poterne parlare dobbiamo determinarla, dobbiamo cioè necessariamente trasformarla in un astratto. Dunque, la lingua, qualunque essa sia, non si conosce, nel suo essere definitivo (che non ha mai), ma a grado a grado nel suo concreto svolgimento. E come la lingua, tutto che sia realtà spirituale; e che voi conoscerete sì, come s’è detto, risolvendolo nella vostra attività spirituale; ma a grado a grado instaurando quella medesimezza o unità, in cui la cognizione consiste. Potete, sì, pensarlo, ma mentre lo pensate è già un’altra cosa. Distruggete i gradi dello svolgimento, e avrete distrutto lo svolgimento, ossia la stessa realtà che si tratta di realizzare, e d’intendere. Che è esattamente come dire che se isolo l’astratto dal tutto cancello anche l’astratto, e viceversa. Vero è che il fatto, con cui si converte il vero, essendo la stessa realtà spirituale che realizza (o che intende realizzando) se stessa, non è propriamente un fatto, ma un farsi. Sicché piuttosto dovrebbe dirsi: verum et fieri convertuntur. Il vero è il farsi sono lo stesso. Capitolo III, L’unità dello spirito e la molteplicità delle cose. Paragrafo 1. Verum factum quatenus fit. Il soggetto che risolve in sé l’oggetto… Quando parla di risolvere pensate sempre all’Aufhebung. …almeno quando quest’oggetto è realtà spirituale, non è essere, né stato dell’essere: non è niente d’immediato, come dicemmo, ma processo costruttivo. Questa parola “processo” comparirà sempre in Gentile. Processo costruttivo dell’oggetto in quanto processo costruttivo dello stesso soggetto. Il soggetto integra in sé l’oggetto, lo pone come altro da sé; una volta posto, lo ha costruito, lo costruisce ponendolo; a questo punto l’oggetto, integrandosi nel soggetto – siamo pienamente in Hegel – costruisce anche il soggetto. Ecco perché il primo elemento, in questo caso il soggetto, esiste solo a posteriori. E perciò, invece di verum et factum convertuntur, si dovrebbe dire, come s’è notato, verum et fieri convertuntur, ovvero: verum est factum quatenus fit. Il vero è il fatto intanto che si fa; il vero è il fatto in quanto questo fatto si sta facendo. Il soggetto è sempre soggetto di un oggetto, in quanto si costruisce soggetto del suo atto rispettivo. Questo è uno dei concetti vitali della nostra dottrina, e del quale occorre acquistare sicuro possesso, se non si vuol cadere negli equivoci grossolani di cui van gloriosi molti facili critici di questo idealismo.

Intervento: …

Il pensiero pensato per Gentile è qualcosa che deve scomparire a vantaggio del pensiero pensante. Io ho posto la questione rispetto al pensiero pensante che, in effetti, non posso pensarlo se non come pensiero pensato, cioè, non posso pensare il concreto se non come astratto. Paragrafo 4. Spirito-sostanza e spirito-atto. Noi non conosciamo nessuno spirito che sia di là dalle sue manifestazioni; e consideriamo queste manifestazioni come la sua stessa interiore ed essenziale realizzazione. Il nostro spirito, possiamo anche dire, è solo lo spirito della nostra esperienza: badando bensì a non intendere per esperienza (come volgarmente s’intende, per un’interpretazione inesatta), il contenuto suo, ma l’atto stesso dell’esperienza, o la nostra esperienza pura: ciò che v’ha di più vivo, anzi che solamente è vivo e reale, nella nostra esperienza. Ogni cosa per Gentile comporta l’essere in atto: questo è il criterio fondamentale. Naturalmente, trae tutto ciò da Hegel, e tra poco ne parlerà, ma ciascuna cosa è in atto, cioè, si sta facendo. Hegel diceva che tutto ciò accade in un processo dialettico, cioè ha sempre e necessariamente il suo opponente.

Intervento: …

In effetti, tu pensi astrattamente ed è come se togliessi il concreto, ma per pensare astrattamente hai bisogno del concreto, cioè hai bisogno che questo elemento esista, e esiste solo in quanto esiste tutto il resto.

Intervento: …

La questione è fondamentale, così come lo era per Hegel. Ecco, come potremmo pensare l’attualismo rispetto ad Hegel? In Hegel è presente questa cosa, non la chiama attualismo, ma parlando della dialettica dice che, mentre io pongo qualcosa, nel porlo pongo il suo opponente (il suo contrario, ciò che lui non è). Quindi, è nell’atto di porre qualche cosa che questo qualche cosa dilegua e ritorna come qualche cos’altro. Quindi, Hegel non ne parlava ovviamente, ma era già presente tutta la questione dell’attualismo. Paragrafo 7. Per trovare lo spirito. Per trovare la realtà spirituale bisogna cercarla: e cercarla significa, non averla dinanzi a sé, ma lavorare, noi che la vogliamo trovare, per trovarla: e se per trovarla bisogna cercarla, e trovarla significa appunto cercarla, noi non l’avremo mai trovata, e l’avremo trovata sempre. Qui sta dicendo una cosa importante, perché in effetti dicendo questo, trovarla significa appunto cercarla, noi non l’avremo mai trovata, e l’avremo trovata sempre: sta parlando del linguaggio, in realtà. Noi possiamo cercare il linguaggio, nel senso di definirlo, individuarlo, determinarlo, ecc., ma non lo potremo mai determinare, proprio perché lo stiamo parlando; parlandolo, lo modifichiamo continuamente, incessantemente. Quindi, non lo troveremo mai come l’astratto dell’astratto, per usare i termini di Severino, ma è già sempre trovato, perché è la condizione perché possiamo fare tutte queste cose. Se vogliamo sapere quello che noi siamo, dobbiamo pensare, riflettere su quel che siamo; il trovare dura tanto quanto dura la costruzione dell’oggetto che i trova; tanto si trova quanto si cerca; quando si è cessato di cercare e si dice di aver trovato, non si è trovato nulla, non si ha più niente! Qui Gentile è preciso perché, in effetti, quando ho trovato, o credo di aver trovato, che cosa ho trovato? Come direbbe Severino, l’astratto dell’astratto: è questo che ho trovato. Non ho trovato il concreto; il concreto non è altro che la condizione di tutte queste operazioni, ma quella non la trovo, è già sempre in atto, è sempre qui; se sto parlando, vuole dire che è qui. Nolite iudicare, dice il Vangelo; perché quando avrete giudicato un uomo, voi non lo considerate più come uomo, come spirito, ma vi siete collocati al punto di vista da cui si ravvisa bensì ciò che è materiale e appartiene al mondo naturale, ma non lo spirito che si sta facendo, e che non si può intendere se non guardato nell’atto, che non è atto compiuto, ma atto nel suo prodursi. Gentile utilizza qualunque cosa che torni a suo vantaggio, come accade sempre quando si formula una teoria. Anche il Vangelo torna comodo; ovviamente, le parti che non fanno comodo vengono cassate: è così che si costruisce una teoria, non ci sono altri modi. Paragrafo 8. Il pericolo delle definizioni dello spirito. Anche la menzionata verità, dell’equivalenza degli angoli interni d’un triangolo a due retti, soltanto per astrazione è un che di chiuso e per sé state; in realtà si articola nel processo della geometria attraverso tutte le menti, in cui questa geometria del mondo si attua. E cioè, questa proprietà degli angoli esiste perché esiste tutta la geometria. Paragrafo 9. L’intuizione dello spirito. La conclusione è, che il concetto dello spirito come processo è un concetto difficile. Contro il quale operano di continuo tutte le astrazioni fissate dal pensiero comune e dalla scienza (che per sua natura si muove sempre nell’astratto) affollandosi incessantemente al nostro intelletto e traendolo di qua e di là, e non lasciandogli mantenere senza un’aspra fatica l’esatta intuizione della vita spirituale. Potremmo dire, l’esatta intuizione o consapevolezza del linguaggio. Paragrafo 13. L’infinità della coscienza. La coscienza infatti non si pone se non come una sfera il cui raggio è infinito; e qualunque sforzo si faccia per pensare o immaginare altre cose e coscienze al di là della nostra coscienza, quelle cose e coscienze rimangono dentro di essa, per ciò appunto che sono poste da noi, sia pure come esterne a noi. Qualunque cosa io voglia pensare al di là del mio pensiero è sempre comunque il mio pensiero. Questo fuori è sempre dentro. Designa cioè un rapporto tra due termini, che, esterni l’uno all’altro, sono tuttavia interni entrambi alla coscienza. Niente c’è per noi, senza che noi ci se n’accorga, e cioè che si ammetta, comunque definito (esterno o interno), dentro alla sfera del nostro oggetto. Qualunque cosa penso, anche se penso qualcosa che è fuori del mio pensiero, comunque lo sto pensando nel mio pensiero. Paragrafo 14. L’infinità del pensiero secondo Spinoza. Movendoci col pensiero lungo tutto il pensabile, noi non troviamo mai né il margine del pensiero stesso, né l’altro che sia di là dal nostro pensiero, e innanzi a cui perciò il nostro pensiero si arresti. Di guisa che lo spirito non solo è uno psicologicamente, in se stesso, ma è uno anche gnoseologicamente e metafisicamente considerato, non potendo riferirsi a un oggetto che gli sia esterno, né potendo perciò concepirsi reale tra i reali come una parte sola della realtà. Paragrafo 15. La molteplicità degli oggetti. Ma ciò non basta. Noi abbiamo guardato finora un laro solo della questione; e una profonda esigenza, invincibile, ha fatto in ogni tempo arretrare la mente umana innanzi a quest’affermazione dell’unità immoltiplicabile e infinita dello spirito nella sua soggettività assoluta. Il pensiero è un tutto. Il pensiero è linguaggio e, essendo linguaggio, è il tutto, è il concreto. Lo spirito non può staccare niente da sé nel suo proprio seno, e non può uscir da sé:… Il linguaggio non può staccare da sé un pezzo e dire che è fuori dal linguaggio, non lo può fare. …ma intanto questo stesso concetto del Sé, di questo centro attorno al quale ognuno seco stesso raccoglie tutti gli oggetti della propria esperienza, reale o possibile, accenna a qualche cosa di diverso come a termine correlativo essenziale. Chi dice soggetto, dice insieme oggetto. Nella stessa autocoscienza il soggetto oppone sé come oggetto a sé come soggetto: e se nel soggetto è l’attività della coscienza, l’oggetto suo, nella stessa autocoscienza, gli si oppone come negazione della coscienza, ossia come realtà inconsapevole (relativamente, almeno, alla coscienza che è propria del soggetto). E sempre l’oggetto si contrappone al soggetto in guisa che, quantunque concepito come dipendente dalla stessa attività di questo, non gli sia dato partecipare alla vita ond’è animato il soggetto. Giacché questo è attività, ricerca, movimento verso l’oggetto; e l’oggetto, sia che si consideri come oggetto di ricerca, sia che si consideri come oggetto di scoperta e di conoscenza attuale, è inerte, sta. Ne consegue che all’unità realizzata dall’attività del soggetto si oppone nell’oggetto la molteplicità propria del reale, appena si prescinda dalla forma sintetica che gli imprime il soggetto. È chiaro che se io penso il soggetto come unitario penso all’oggetto come a una molteplicità di elementi. L’oggetto, infatti, è fatto di moltissime cose. Le cose infatti nella loro oggettività, termine presupposto dall’attività teoretica dello spirito, sono molte: essenzialmente molte, in guisa che una cosa sola non sia pensabile se non come risultante dalla composizione di molti elementi. Una cosa unica e infinita non sarebbe conoscibile; perché conoscere è distinguere una cosa da un’altra: omnis determinatio est negatio. E tutta la nostra esperienza si libra tra l’unità del suo centro, che è lo spirito, e la infinita molteplicità dei punti costituenti la sfera dei suoi oggetti. Questa è una cosa su cui aveva lavorato molto Hegel, questione che è poi quella di Parmenide, dell’uno e dei molti o, come la pone anche Hegel, del finito e dell’infinito. Sono tutti aspetti della stessa questione: non posso pensare l’infinito se non come finito: lo sto pensando io che sono finito e, quindi, è finito; e non posso pensare l’infinito se non in contrapposizione con qualcosa che non è finito, cioè l’infinito. Quindi, pensando l’uno penso l’altro, non c’è l’uno senza l’altro; pensando l’uno nego l’altro, lo nego ponendolo. Pensando il finito io pongo necessariamente l’infinito, sennò non posso pensare il finito, ma lo pongo in quanto negato, come prima negazione, direbbe Hegel; poi, con la seconda negazione, l’infinito ritorna sul finito e diventa un finito che comprende in sé anche l’infinito, come sua condizione di esistenza. Paragrafo 16. Rapporto tra l’unità dello spirito e la molteplicità delle cose. Gli oggetti dell’esperienza non possono avere tra sé anche il soggetto, perché sono tutti esso. Qui è arrivato a dire che tutti gli oggetti sono il soggetto, cioè, è il soggetto che è tutti gli oggetti. È una questione che poi, in modo differente e con altri termini, Heidegger poneva rispetto al mondo: ciascuno è il mondo in cui si trova, è tutte le cose perché tutte quelle cose partecipano dell’esserci; l’esserci è tutte queste cose che mi circondano continuamente e necessariamente, e non esisto senza tutte queste altre cose. Esattamente così come se tolgo il finito tolgo anche l’infinito, e viceversa. Paragrafo 17. Apparente limite dello spirito come attività pratica. Lo spirito, si badi, non è mi propriamente quella pura attività teoretica che si immagina in opposizione all’attività pratica: non è mai teoria, contemplazione della realtà, che non sia intanto azione, e però creazione di realtà. Perché una teoria, così come la sta ponendo Gentile, non è mai una contemplazione della realtà? Perché la teoria la crea. Per questo non la contempla. Può anche contemplarla se vuole, ma solo dopo averla posta; dopo averla posta, e quindi negata, allora la contempla ma la contempla in quanto qualche cos’altro. Infatti non c’è atto conoscitivo che non abbia un valore, ossia che non si giudichi, in quanto appunto atto conoscitivo, come conforme appunto a una su legge, per essere riconosciuto o no quale dev’essere. Volgarmente pensiamo che si sia responsabili di quel che si fa, e non di quel che si pensa, quasi non si potesse pensare altrimenti da come si pensa, e noi fossimo bensì padroni della nostra condotta, non però delle nostre idee. Mi è venuto in mente questo, e di ciò non sono responsabile. Non è proprio così. Le quali sarebbero soltanto quelle che possono essere, quelle che la realtà le fa essere. Ma questa volgare credenza, quantunque accettata anche da filosofi insigni, è un errore gravissimo. Se noi non fossimo autori delle nostre idee, se cioè le nostre idee non fossero pure azioni nostre, esse non sarebbero nostre, e non si potrebbero giudicare, non avrebbero valore: non sarebbero né vere né false. Sarebbero, sempre e tutte, quelle certe idee che una necessità naturale e irrazionale le farebbe essere: tutte e sempre indistintamente concorrenti nella mente umana impotente a ogni discriminazione e scelta. Il che è assurdo: perché questa stessa tesi scettica non si può pensare, se si vuole, se non ad un patto: che cioè la si tenga per vera, investita cioè d’un valore di verità, per cui essa deve pensarsi, e la sua contraria rifiutarsi. Capitolo IV. Lo spirito come svolgimento. Paragrafo 2. Concetto astratto dello svolgimento. Qui fa un esempio, riferito al concreto, cioè al pensare le cose come facenti parte di un tutto, che si possono astrarre, certo, ma perché c’è un tutto. Un altro esempio, non tolto da vaghe immaginazioni, ma da sistemi scientifici e filosofici, è quello che ci fornisce da una parte la vecchia fisiologia vitalista, e dall’altra la recente fisiologia meccanica prevalsa nel secolo scorso per reazione alla prima, e incorsa nell’identico errore di questa, poiché sempre gli estremi si toccano. Il vitalismo poneva la vita come l’antecedente necessario o il principio delle varie funzioni organiche, forza organizzatrice, trascendente tutte le single specificazioni di struttura e funzione. Il meccanismo abolì quell’unità antecedente ai differenti processi organici; i quali, sottratta quella base, divennero semplici processi fisico-chimici. E vagheggiò un’unità postuma, conseguente al gioco molteplice delle forze fisiche e chimiche, che l’analisi positiva scopre in tutti i processi vitali. La vita non fu più il principio, ma il risultato; e parve che a una spiegazione metafisica movente da un’idea o ente puramente ideale, sottentrasse una vera e propria spiegazione scientifica e positiva, poiché punto di partenza divennero fenomeni particolari, oggetto dell’esperienza. In verità, auna metafisica spiritualistica e finalistica si sostituiva una metafisica materialista e meccanistica: e una metafisica valeva l’altra, perché né l’unità da cui movevano i vitalisti né quella a cui pervenivano i nuovi meccanisti, era unità: e gli uni e l’altri adoperavano l’astrazione per intendere il concreto. Paragrafo 7. Dialettica del pensiero pensante. Qui fa una critica alla posizione platonica e aristotelica. Questa la posizione platonica e aristotelica, dove il principio di non contraddizione è condizione imprescindibile del pensiero. Per noi invece il vero pensiero non è il pensiero pensato, che Patone e tutta l’antica filosofia considerano per sé stante, presupposto del pensiero nostro che aspira ad adeguarvisi. Per noi il pensiero pensato suppone il pensiero pensante; e la vita e verità di quello sta nell’atto di questo. Il quale nella sua attuosità, che è divenire o svolgimento, pone bensì come suo proprio oggetto l’identico, ma appunto mercé il processo del suo svolgimento, che non è identità, cioè unità astratta, ma, come si è detto, unità e molteplicità insieme, identità e differenza. Il pensiero pensante sta nell’attuosità, è in atto. Certo, rimangono le obiezioni che ho rivolte all’inizio: il pensiero pensante non può darsi se non come pensiero pensato, e viceversa.