16-9-2015
Dal testo di Heidegger “Nietzsche”: Il pensiero produce effetti non solo in quanto in tempi successivi lascia dietro di sé conseguenze, ma anche in quanto venendo esso pensato, mettendosi colui che lo pensa in questa verità dell’ente nel suo insieme, essendo coloro che in tal modo pensano si trasforma già anche l’ente nel suo insieme (ciò che sta dicendo è molto simile a ciò che dicevo la volta scorsa, ciascuna volta in cui si pensa, riprendendo un po’ Gentile, ciò che si pensa, l’atto del pensiero che lui chiama l’“atto puro” ma è l’atto linguistico, in questo atto è tutto in gioco, ogni cosa si gioca lì, in questo atto, e qui lo dice lo dice Heidegger “colui che pensa si mette all’interno di questo atto di pensiero e mettendosi in questo atto di pensiero pensando, è l’ente”, è l’ente tutto, infatti dice “mettendosi colui che lo pensa in questa verità dell’ente nel suo insieme, essendo (chi sta pensando) coloro che in tal modo pensano (come tutti gli altri che pensano) si trasforma già anche l’ente nel suo insieme” (cioè pensando trasforma l’ente, mentre pensa l’ente come dire “pensando l’ente diventa l’ente, diventando l’ente lo trasforma”, che è curioso se si tiene conto anche di ciò che la psicanalisi in quegli anni grosso modo andava dicendo, è chiaro che Nietzsche parla dell’ente ovviamente e del pensiero ma questo pensiero per Freud sono fantasie, e l’unico modo per rapportarsi all’ente freudianamente è la fantasia. Una “fantasia”, un’idea che non ha un fondamento, questo lo abbiamo già visto precedentemente, non ha fondamento e non è fondabile, semplicemente è qualche cosa che si fissa, si fissa e a questo punto è questa fantasia che determina l’ente, che lo fa essere quello che è, anche se Heidegger non sarebbe del tutto d’accordo, dopo tutto se questo ente non ha fondamento, non è fondabile in nessun modo perché la verità come dice già Nietzsche che Heidegger riprende è l’inganno per antonomasia, è ovvio che questo ente non può essere vero, potrà soltanto essere ciò che io penso che sia. Facciamo un salto notevole arriviamo a pag. 450). Possiamo dire la verità è l’essenza del vero, il vero è l’ente, (tenete sempre conto di che cos’è la verità per Nietzsche anche se qui è Heidegger che sta parlando) l’essenza del vero sta originariamente in questo “prendere per fisso e sicuro” questo “prendere per” non è però un’attività arbitraria ma è comportamento necessario per assicurare la sussistenza della vita stessa, questo comportamento in quanto “tenere per” e in quanto posizione di una condizione di vita ha il carattere di una posizione di valori e di un giudizio di valore, la verità è nell’essenza un giudizio di valore. L’antitesi di ente vero ed ente apparente è un rapporto di valore scaturito da questo giudizio di valore (sta dicendo che la verità non è un giudizio di esistenza ma un giudizio di valore, cioè qualcosa è vero se ha un valore e su questo Nietzsche è abbastanza preciso quando dice a un certo punto che cosa ha valore per gli umani la volontà di potenza, quindi è vero tutto ciò che ha valore per la volontà di potenza cioè tutto ciò che serve, per così dire, alla volontà di potenza, se serve alla volontà di potenza allora questo è il suo valore e questo valore è ciò che determina la verità, che non è poco se ci pensate bene rispetto a tutto ciò che da sempre la metafisica pensa come verità, pensa la verità come un giudizio di esistenza non un giudizio di valore, “l’ente è, e se è, è vero”, per esempio tutto il discorso che fa Severino rispetto alla verità e all’incontrovertibile riguarda un giudizio di esistenza, non di valore, perché il giudizio di valore propone sempre l’eventualità che ci sia un qualche cosa che da valore, cioè qualche cosa d’altro che da valore mentre per esempio nel “principio primo” così come ne parla Severino non c’è qualche cosa d’altro che da valore al principio primo, ha valore di per sé e basta se ci fosse un qualche cosa d’altro che desse valore non sarebbe più il principio primo ma sarebbe un principio derivato quindi ci sarebbe un qualche cosa che ha più valore dell’incontrovertibile, cosa che per Severino non può essere …
Intervento: come dire che l’esistenza dipende da un giudizio di valore?
Anche se Heidegger non dice proprio questo però in effetti sì se è la verità ad attribuire l’esistenza, come molti hanno pensato allora sì certo, perché per lo più la verità è considerata come l’essere della cosa “l’ente è e questo è il vero” ma se “l’ente è” non è più il vero perché è soltanto il valore attribuito dalla volontà di potenza allora certo il giudizio di esistenza segue il giudizio di valore, ha valore quindi esiste, (come vero e falso. Falso sta generalmente come non esistente) “falso” come non esistente, se è falso è un qualche cosa perché si dice di falso che è falso un qualche cosa, è il nulla che propriamente /…/ Il rappresentare qualcosa come essente nel senso di ciò che è stabile e fisso è una posizione di valore (quindi non di esistenza ma di valore) elevare il vero del mondo a qualcosa di stabile, eterno e immutabile significa al tempo stesso trasporre la verità come una condizione di vita necessaria è la vita stessa, (c’è questo stabile, questo fisso è ciò che diventa la verità, ciò che serve, l’abbiamo visto prima, serve per costruire il divenire, serve per, detta in modo molto rozzo, per un punto di appoggio per potere affermare qualcosa, questo diventa la vita stessa, quindi qualcosa di stabile, di fermo, di sicuro) se ora però il mondo dovesse essere un mondo continuamente mutevole e transeunte, se dovesse avere la sua essenza nel carattere più transeunte di ciò che è fugace e instabile allora la verità nel senso di ciò che è stabile e fisso sarebbe una mera fissazione e un mero consolidamento di ciò che è in sé diveniente, e questa fissazione sarebbe commisurata a ciò che diviene, ad esso inadeguata e ne sarebbe soltanto la deformazione, il vero nel senso del corretto non si regolerebbe appunto sul divenire, la verità sarebbe allora non correttezza, errore, una illusione anche se fosse necessaria (questa è la tesi di Nietzsche, praticamente dice che tutto è divenire e allora come è possibile stabilire una verità se non fissando un qualche cosa? Ma fissandola si altera, il concetto stesso di “divenire” è l’unica cosa di cui siamo sicuri, quindi giunge a dire che la verità è un inganno, il sommo inganno). Con ciò guardiamo per la prima volta nella direzione dalla quale parla quello strano detto secondo il quale la verità è un’illusione, vediamo però contemporaneamente in questo detto viene fissata l’essenza della verità nel senso della correttezza, dove “correttezza” vuol dire rappresentare l’ente nel senso dell’adeguazione a ciò che è (Se dico che la verità è un’illusione mi trovo nella strana situazione in cui per potere dire che la verità è una illusione continuo a utilizzare la verità come adeguamento, in questo caso la verità sarebbe adeguata a ciò che la verità è, e cioè un’ illusione, e dicendo che la verità è un’illusione opero questo adeguamento come correttezza, adæquatio rei et intellectus). Infatti solo se la verità è nell’essenza “correttezza” può essere, secondo l’interpretazione di Nietzsche, non correttezza e illusione (cioè soltanto se questa verità che dice Nietzsche è corretta allora può dire che la verità non è corretta) se il mondo non è un mondo che è ma un mondo che diviene allora la verità, nel senso del vero, inteso come ciò che si pretende ente nel senso di stabile fisso e immutabile, è illusione. // Una conoscenza che in quanto vera prende qualcosa per “essente” nel senso di ciò che è stabile e fisso si attiene all’ente e tuttavia non coglie il reale cioè il mondo in quanto diveniente (questo potrebbe intendersi anche molto bene come obiezione, per esempio alla scienza, poi arriverà anche a dire, e forse l’abbiamo già visto, che la scienza si fonda sulla fede, sulla fede che questa cosa che io ho di fronte sia quella che io penso che sia, ma facendo questo, dice Heidegger sulla scorta di Nietzsche, non coglie il reale questa cosa che chiamiamo “reale” perché il reale sarebbe il mondo in quanto diveniente, e in quanto diveniente non può essere fissato in nessun modo, se lo fisso compio un’operazione che rende questo fissaggio un’illusione, ma lo faccio perché mi serve, ma non è così, quindi tutto il lavoro della scienza è un lavoro che si fonda su un’illusione, illusione che le cose siano così come si pensa che siano). È esso in verità un mondo diveniente? Nietzsche da effettivamente una risposta affermativa e dice: il mondo è in verità un mondo diveniente non c’è niente di essente. Ma egli non solo afferma il mondo come un mondo del divenire, egli sa pure che questa affermazione e interpretazione del mondo è altresì una posizione di valore, così si appunta una volta nel periodo della stesura della annotazione discussa (qui c’è una citazione di Nietzsche, dalla Volontà di potenza:)contro il valore di ciò che rimane eternamente uguale, vedi l’ingenuità di Spinoza oppure di Descartes, c’è il valore di ciò che è più breve e transeunte il seducente scintillio dorato sul ventre del serpente “vita” (che in effetti quando Nietzsche, come ci fa notare Heidegger, risponde affermativamente alla domanda se tutto il mondo è transeunte, è divenire, di fatto effettivamente non potrebbe affermarlo perché se tutto è divenire anche ciò che Nietzsche sta dicendo in quell’istante è diveniente)
Intervento: è come se fosse un paradosso.
(Esatto, per cui per potere affermare che la verità “tutto è diveniente” occorre che qualche cosa non lo sia, anche se il fatto che non lo è, è un’illusione, ma occorre che non lo sia, per cui lo so che non è quella frase ma devo tenerla come se fosse quella frase, come se fosse stabile, come se fosse ferma, come se fosse la verità, per questo inevitabilmente Nietzsche è stato condotto a dire che la verità è un’illusione, perché se io fisso qualche cosa che non può essere fissato e mi illudo che sia la verità, è ovvio che si tratta di un’illusione se io immagino che quella cosa debba essere la verità, se invece la prendo soltanto come un comando allora non è più un’illusione perché so che cos’è, è un comando, è un comando che interviene e dice che quella certa proposizione va presa in quel certo modo e quindi non si tratta più di una verità, un qualche cosa viene stabilito, viene fermato. Questo Nietzsche lo sapeva bene per potere proseguire il transeunte, ma è un artificio al quale sono costretto per così dire, dal funzionamento stesso del linguaggio che mi costringe a fare questo, non posso non farlo, ed è l’aspetto metafisico del linguaggio. Non posso non fermare qualche cosa per cui il linguaggio funziona così: io per potere affermare qualcosa deve “affermarlo” cioè fermarlo ma nel fermarlo, nel dire che è questo, per potere dire che è questo cioè per potere affermarlo, sono costretto a rivolgermi a qualche altra cosa che dice che cos’è quello. Vi rendete conto quindi del movimento incessante che c’è nel linguaggio e che definisce poi il suo funzionamento, cioè per fermare qualche cosa, perché sia ferma deve comunque rivolgersi a un’altra cosa quindi muoversi verso quest’altra cosa, solo così può fermarsi e dire quello che è, perché se no sarebbe quell’elemento che è fuori dal linguaggio perché non è connesso con nessun altro elemento linguistico quindi fuori dal linguaggio, se è fuori dal linguaggio non sappiamo neanche cosa farcene …
Intervento: mi viene in mente l’affermazione che facevamo tanti anni fa “qualsiasi cosa è un elemento linguistico” questa potrebbe sembrare una verità assoluta quindi fuori dal linguaggio, è il funzionamento del linguaggio che ci obbliga a fare affermazioni certo se sappiamo che è un comando per poter giocare …
Per questo già allora io non dicevo che fosse una verità ma una costrizione logica ché non possiamo affermare una qualunque cosa se non fermandola, è una costrizione logica indotta dal funzionamento del linguaggio …
Intervento: un insieme contiene se stesso?
Il linguaggio? In un certo senso sì, anche se definirlo come insieme è complicato perché lo poniamo come insieme dobbiamo considerarlo un insieme che al tempo stesso è un insieme aperto e un insieme chiuso. È un insieme aperto perché la possibilità di costruire elementi all’interno dell’insieme è infinita non c’è possibilità di trovare un limite, ma è anche un insieme chiuso nel senso che non c’è uscita dal linguaggio. Per questo è un insieme un po’ particolare, comunque) Nietzsche oppone all’essere il divenire come valore superiore (questo l’abbiamo già visto fa sempre parte del famoso capovolgimento del platonismo e cioè l’ente diventa ciò che sta sopra e l’essere ciò che sta sotto, l’ente cioè il diveniente mentre l’essere è lo stabile) ne desumiamo in un primo momento quest’unica cosa: la verità non è il valore supremo. La credenza è così e così, deve essere trasformata nella volontà così e così deve diventare, (dall’ “essere” che dice “è così” deve diventare per Nietzsche non “così è” ma “così deve essere, così deve diventare”) La verità come “tenere per vero” il fissarsi su “così è” stabilito e assodato non può essere il sommo della vita perché rinnega il carattere vivente della vita, il suo volere andare oltre se stessa e il suo divenire. Concedere alla vita il suo carattere vivente, concederle di diventare qualcosa di diveniente e in quanto divenire e di non essere meramente un ente cioè di stare fissa come un che di fissamente presente, a ciò mira evidentemente quella posizione di valori commisurata alla quale la verità può essere soltanto un valore inferiore (questo si desume abbastanza facilmente da Nietzsche e poi da tutto ciò che Heidegger dice di Nietzsche. Cioè la verità è quello stabilire, tenere fermo un qualche cosa che di per sé non è fermo, né stabile perché è diveniente, ora se questa è la verità è chiaro che non può più essere un valore assoluto e neanche un valore superiore tant’è che ne parla come di una illusione, non possiamo mettere l’illusione come un valore supremo). Nietzsche esprime spesso questo pensiero portato all’estremo e esagerato nella forma assai equivocabile “non c’è verità” (Perché è equivocabile? Perché si ricade nel problema degli scettici “tutto è relativo” compresa quindi questa affermazione). Questa verità è in base alla sua essenza una illusione ma in quanto è siffatta illusione è una condizione necessaria della vita (cioè è un illusione ma non possiamo farne a meno perché non possiamo fare a meno di fermare qualcosa quando affermiamo qualcosa) Dunque c’è verità? Certo, e Nietzsche sarebbe l’ultimo a volerlo negare perciò il suo detto “non c’è verità” significa qualcosa di più essenziale ossia la verità non può essere ciò che è primariamente e propriamente determinante, la verità come abbiamo detto è qualche cosa che si decide essere tale in base a un valore, ma chi determina il valore? La volontà di potenza. Ma per capire questo nel senso di Nietzsche per valutare perché la verità non può essere il valore supremo è necessario prima ancora domandare più decisamente in che senso e in che modo essa è non di meno un valore necessario, solo se la verità è un valore necessario e solo per questo lo sforzo speculativo di provare che essa non può essere il valore supremo ha importanza, poiché per Nietzsche “il vero” ha lo stesso significato di ente, con la risposta alla domanda, alle domande poste verremmo a sapere pure in quale senso Nietzsche comprende l’ente, cioè che cosa intende quando dice “essente” e “essere”, di più se il vero non può essere il valore supremo e se il vero significa però lo stesso che l’ente allora nemmeno l’ente può costituire l’essenza del mondo cioè la realtà di quest’ultimo non può consistere in un essere (sta dicendo che al punto in cui siamo l’ente non può essere l’essere, cosa che ad Heidegger piace perché lui distingue l’ente dall’essere, è la famosa differenza ontologica. Non può essere l’ente, l’ente è qualcosa che si muove, l’ente, dice, non può costituire l’essenza del mondo, perché qual è l’essenza del mondo? La volontà di potenza, è questo che lui intende con l’ente, non l’ente così come lo intende il platonismo, come qualche cosa che è sì diveniente che però ciò che appare, ciò che si manifesta eccetera, ciò che in definitiva ha una sua garanzia nell’essere. Se per Nietzsche questa garanzia non c’è più, questo ente di che cosa è fatto a questo punto? Sembra svuotarsi completamente e in un certo senso sì però ciò che rimane è il fatto che l’ente non è altro che volontà di potenza). C’è stata finora un’unica interpretazione dell’essenza della conoscenza (qui stiamo in un certo senso sempre parlando della conoscenza direttamente o indirettamente) quella di cui i primi pensatori greci hanno posto il fondamento determinando in modo decisivo l’essere dell’ente, dell’ente in mezzo al quale ogni conoscere è in gioco come comportamento essente di un ente in rapporto a degli enti (e cioè la conoscenza non è nient’altro che il trovarsi l’ente in mezzo ad altri enti, non è la conoscenza un qualche cosa che si applica, qui un’altra obiezione alla scienza, qualcosa che si applica da parte di un soggetto a un oggetto, qui c’è tutta la critica che fa a Cartesio, ma la conoscenza non è altro che, e questo l’ho trovato interessante, l’essere in relazione l’ente con gli altri enti e cioè una combinatoria, una relazione di elementi fra loro. Nietzsche è molto critico nei confronti di Cartesio a questo riguardo, dice che il soggetto è stata un’invenzione ed è stata questa invenzione da parte di Cartesio a consentire la nascita della scienza, infatti si fa nascere da lì, grosso modo, non la scienza in quanto metodo scientifico quella generalmente si fa risalire a Galilei, ma la scienza come pensiero, cioè come metodo di pensiero, il “soggetto” diventa ciò che è contrapposto all’oggetto. Nietzsche non vede di buon occhio Cartesio, contro il pensiero greco antico, meglio se pre socratico, che non considerava affatto il soggetto, non c’è un soggetto di fronte a un oggetto ma la “cosa” si disvela, si disvela per chi ascolta, per chi è in condizione di ascoltare, di “vedere” questa cosa anche ma non c’è il soggetto contrapposto all’oggetto, ma piuttosto uno svelarsi nell’ambito dell’orizzonte dell’essere di un qualche cosa che rivelandosi fa in modo che chi si trova all’interno di questo orizzonte sia lui stesso parte di questo orizzonte, per questo non c’è più contrapposizione, infatti Heidegger non parla mai di soggetto parla di Dasein …
Intervento:il soggetto come qualche cosa di immobile di statico …
Per Heidegger non c’è necessariamente questa distinzione tra soggetto e oggetto, quando lui parla di “esserci” il famoso “Dasein” questo “esserci” è un orizzonte all’interno nel quale ciò che appare l’¡λήθεια è ciò che si disvela, fa parte a questo punto di colui che si trova di fronte a questo “disvelato”, non c’è più una distinzione fra colui, all’interno del Dasein, dell’esserci, fra il soggetto e l’oggetto ma quello che comunemente si chiama l’“oggetto” non sarebbe nient’altro che l’essere che appare e che consente e che è la condizione per ciascun ente di apparire in qualche modo, ma a chi appare questo ente? Non al soggetto, abbiamo detto che Heidegger non parla mai di soggetto o di oggetto, appare semplicemente a colui che si pone in ascolto e non è il soggetto perché parlare di soggetto è sempre, per questo non usa questo termine, sempre porlo in contrapposizione a qualche cosa, soggetto/oggetto, qui ci sono io e qua c’è il libro, ma “io e il libro siamo all’interno di un orizzonte che ci fa essere qualche cosa”. Sta qui il pensiero innovativo di Heidegger, cioè io sono sempre in quanto progetto gettato: “ho questo libro perché lo sto leggendo insieme con voi perché voglio dire delle cose” Il libro è qualcosa perché inserito all’interno di un progetto, diventa ciò che voglio fare. Non c’è l’oggetto in quanto tale supportato da un essere …
Intervento: per Cartesio invece l’oggetto, la res estensa, e nello stesso tempo universale “quel libro deve essere libro per chiunque”. Siamo partiti dalla constatazione nelle asserzioni dirette su un oggetto quotidiano come la lavagna, vi è già alla base una conoscenza, la lavagna, per caratterizzare il conoscere si è dovuto prima domandare che cosa è insito nella conoscenza di ciò che è già dato e ci si presenta in tal modo, il farlo si è chiarito in che misura ciò che si presenta la molteplicità delle sensazioni può essere colto come caos, contemporaneamente si è dovuto indicare quanto ampia ed essenziale sia l’accezione in cui Nietzsche prende il concetto di “caos” (cioè il divenire) ciò che va conosciuto ed è conoscibile è caos questo però ci si presenta corporalmente cioè in stati corporali essendo in essi incluso e in essi riferito, il caos non ci si presenta soltanto negli stati corporali ma il nostro corpo vive ed è corpo come onda nella corrente del caos (qui già il concetto di oggetto si fa problematico, come è possibile bloccare un qualche cosa se questo qualche cosa vive delle sensazioni, delle emozioni, di tutto ciò che poi coglie, l’ha espresso molto bene, cioè le fantasie, i pensieri per conoscere la lavagna che ho di fronte devo già sapere che un qualche cosa è qualche cosa e per sapere questo ovviamente ho già dovuto acquisire una serie di informazioni tali che mi consentono di dire che qualche cosa è qualche cosa, queste informazioni mi sono state fornite insieme con il linguaggio, questa è la differenza tra la metafisica e la scienza della parola, anche se la scienza della parola si occupa di metafisica perché si occupa di linguaggio in quale ha una struttura metafisica, c’è poco da fare. Dicevo prima dell’essere, della vita come essere, del corpo come vita. Infatti nella pagina dopo dice:) “Vita” è tuttavia la denominazione per indicare l’essere ed essere vuol dire “essere presente” resistere allo scomparire e allo svanire, sussistere, stabilità. Se dunque la vita è questo caotico essere corpo e incalzare pressato da ogni parte, se essa deve essere ciò che è in senso vero e proprio, allora è importante per il vivente contemporaneamente e in modo parimenti originario, esistere all’impulso e al suo impellere, sempre che questo impulso non spinga al mero annientamento, il che non può accadere perché altrimenti l’impulso rimuoverebbe se stesso e non potrebbe nemmeno essere mai un impulso (cioè l’impulso si cancellerebbe da solo, sarebbe quello che accade per Severino quando si nega il principio di non contraddizione, si dissolve da sé in questo tentativo) è perciò insito nell’essenza dell’impulso impellente qualcosa a lui conforme cioè impulsivo che spinge a non soggiacere all’impeto ma stare in esso sia pure soltanto per potere essere incalzabile e incalzantesi, solo ciò che sta può cadere ma un resistere all’impeto spinge in direzione della stabilità e dello stabile, lo stabile e l’impulso che ad esso spinge non sono perciò qualcosa di estraneo e di contraddicente l’impulso vitale ma corrispondo all’essenza della vita e del corpo vivente, il vivente per vivere deve per resistere a se stesso spingere a qualcosa di stabile (ora lasciate stare il “vivente” e pensate a una struttura linguistica la quale per potere proseguire continuare a vivere deve rendere stabile qualche cosa cioè fermarlo e cioè tutto ciò che un discorso fa, un discorso che è diveniente, produce sempre cose, “spinge” per usare le parole di Heidegger, spinge a che cosa? A una conclusione, spinge cioè allo stabile, a qualcosa di fermo soltanto a questa condizione, direbbe Heidegger, direbbe “a questo punto può continuare a spingere ancora, a spingere ancora nel senso di costruire altre sequenze …
Intervento: si potrebbe parlare allegoricamente di “superpotenziamento”?
Intervento: L’essere per la morte di Heidegger?
(L’“essere per la morte” in Heidegger non è propriamente un istinto di morte. Il discorso che fa Heidegger intorno alla morte è un po’ differente perché lui si domanda, tenendo conto di tutto ciò che dice in “Essere e tempo” e cioè della necessità per l’uomo di essere autentico e quindi di progettarsi in ciò che è più autentico, ora si domanda lui “che cosa c’è di più autentico, di più proprio a ciascuno?” è la morte. Quindi a questo punto la morte diventa ciò che è più proprio a ciascuno quindi a questo punto il progetto di cui parla Heidegger è un progetto che tiene conto della finitudine cioè tiene conto di ciò che non può non essere, e cioè il fatto che gli umani sono mortali, ora se ciascuno tiene conto della sua finitudine e cioè agisce sapendo che ciò che sta facendo il progetto avrà una fine a questo punto il suo progetto sarà più autentico di chi invece vive come se il suo progetto fosse senza fine, “tieni conto che questo progetto ha una fine” dice Heidegger e questa fine non è niente di negativo è semplicemente ciò che è più proprio agli umani, ciò di cui non possono non tenere conto). La verità non è il vero, il vero di questa verità significa lo stabile che era presentato, cioè fissato come ente, questo fisso si rivela nella prospettiva direttrice mirante al caos come una fissazione di ciò che diviene, la fissazione diventa rinnegamento di ciò che fluisce e si accavalla, la fissazione è distoglimento dell’autentica realtà (che per Nietzsche è sempre il divenire) il vero di questa verità in considerazione del caos non è a esso adeguato dunque non vero, dunque errore (perché la verità è adeguamento, se non è adeguata è falsa) Nietzsche lo enuncia chiaramente nella tesi già citata, la verità è la specie di errore senza la quale una determinata specie di essere viventi non potrebbe vivere (possiamo dirla così, la verità è quella specie di “errore” senza il quale il linguaggio non potrebbe procedere, naturalmente tenendo per buono il fatto che dice Nietzsche che la realtà è un niente, che nulla ci costringe a fare nostra questa tesi, ci stiamo attenendo a ciò che dice Nietzsche, trarre altri spunti per continuare a interrogare in un altro modo, ma sempre tenendo conto che le cose che dice Nietzsche o quelle che dice Heidegger non sono appunto la verità, quindi che cosa sono? Altri modi di interrogare, altri modi per trovarsi di fronte a un problema, come direbbe Heidegger a “problematizzare” un qualche cosa, sapendo che non c’è la soluzione del problema, il problema non ha soluzione in questo Verdiglione non aveva torto, “analisi” come, piegando a suo piacimento gli etimi, “analisi, come assenza di soluzione, da ἀνά e lÚsij, una possibile interpretazione è “senza soluzione”. Però la soluzione più propriamente, se vogliamo dirla così per rivalutare un pochino Cartesio, sulla scia anche di Sini: questa soluzione che si trova non è altro che un fermare illusorio, finto, momentaneo, un qualche cosa per potere continuare a dire, a costruire, a fare, quindi anche la soluzione può intervenire, ovviamente non come la soluzione finale ma come un qualche cosa che consente, esattamente così come accade nel discorso, consente di arrestare un processo diveniente per potere da lì trovare gli elementi per cominciare a costruire qualche cosa, perché questo è il funzionamento del linguaggio, la sua struttura metafisica, metafisica che ha bisogno di trovare, di fermare qualche cosa per potere dire che cos’è l’ente, ma “per potere dire che cos’è” va inteso perché sì la filosofia ha pensato questo “per potere dire che cos’è”, ma per potere dire. Non che cos’è, ma per potere dire, per potere continuare a parlare …
Intervento: interessante la questione del giudizio di valore, della verità come giudizio di valore è anche una questione clinica se vogliamo pensavo alla formulazione che c’è in una certa psicanalisi “della verità del soggetto” cioè l’analisi dovrebbe condurre in qualche modo a formulare questa verità però …
Per Lacan già la verità non può dirsi tutta, come faccia a sapere che non può dirsi tutta …
Intervento: la verità è un rimando a qualche cos’altro …
Dice “la verità non può essere detta tutta perché c’è sempre qualche cos’altro da dire, ma ciò che si dice della verità emerge, lo diceva già Freud, nell’atto mancato, nel lapsus, nel motto di spirito e nel sogno in particolare, quindi c’è della verità, ma questa verità non può dirsi in quanto tale e neanche tutta perché è sempre da dirsi, è sempre qualche cosa che sì rinvia ad altro però c’è, in ciò che si dice, della verità, se non ci fosse questa verità che emerge nei lapsus, negli atti mancati eccetera tutta la psicanalisi così come è impostata crollerebbe, non avrebbe più nessun senso di esistere.