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16 agosto 2023

 

Aristotele Le Categorie

 

Perché a questo punto leggere l’Organon di Aristotele? Abbiamo letto da ultimo il testo di Heidegger, in particolare l’ultima parte sulla Fisica, dove pone la questione, a partire dalla domanda relativa al movimento, della relazione. Il movimento è relazione. La relazione è, come sappiamo ciò che muove il λόγος, il λόγος è relazione. Ciò che a noi in particolare interessa è intendere come la questione della relazione, che Aristotele ha posta nella Fisica, interviene nel suo pensiero negli scritti di logica. Sono considerati scritti di logica ma vedremo che invece sono scritti di retorica, tutti, compresi gli Analitici primi e secondi. Ma questo lo vedremo a suo tempo. La questione più interessante, invece, e che Heidegger ci ha suggerito – e noi accogliamo il suo suggerimento – di leggere gli antichi, quindi anche Aristotele, non cercando di capire cosa veramente ha voluto dire, che è il lavoro di comparazione che fanno i filosofi, i filologi, ecc. il caso emblematico è quello di Trendelenburg. Non è che vada male questo metodo ma non è sufficiente. Ciò che invece ci suggerisce Heidegger è lasciarci interrogare da quelle stesse domande che Aristotele ha incontrato, quegli stessi problemi che lui si è trovato ad affrontare: noi dobbiamo lasciarci interrogare da questi problemi.

Intervento: È la differenza tra teoria e teoresi….

Presuppone che ci sia la verità, quello che il testo vuole veramente dire. Cosa che poi l’ermeneutica ha messo in discussione, così come ha fatto la semiotica, arrivando a dire che il testo in quanto tale non esiste, esiste nel momento in cui lo leggo e nel modo in cui lo leggo. Però, dicevano gli obiettori, se il testo non c’è ed esiste nel momento in cui lo leggo, allora questa particella pronominale “lo” a cosa si riferisce? Se il testo non c’è allora non si riferisce a niente, ma invece si riferisce a qualche cosa, quindi, questo qualche cosa c’è. È il problema cui ci stiamo approcciando da tempo, e cioè il problema del linguaggio, che potremmo descrivere in questo modo. Noi sappiamo che per Aristotele ciascuna cosa è quella che è in virtù di un’altra. Ora, questo aspetto crea delle complicazioni, che poi si sono riprodotte in Hegel e in parte anche in Peirce, non si sono riprodotte in de Saussure, semplicemente perché non se le pone. Il problema è questo. Usiamo i termini di de Saussure: significante, significato e parola come segno. Il significante ovviamente non c’è in assenza di significato, e viceversa. Quindi, se il significante non c’è in assenza di significato è come dire che quando trova il significato solo allora esiste. Questo è da sempre il problema filosofico, è un altro modo di porre la domanda filosofica per eccellenza, e cioè perché esiste qualcosa anziché nulla. Non dovrebbe esistere nulla, invece esiste qualcosa, come mai? Non deve esistere nulla e, invece, esiste, e con questo dobbiamo fare i conti. Da qui le varie domande: in che modo esiste, qual è l’essere dell’ente, ecc. Dicevo che questo significante non c’è finché non c’è il significato; solo allora interviene il significante. Lo stesso Aristotele con δύναμις e ἐνέργεια poneva la stessa questione: ἐνέργεια è ciò per cui la δύναμις è δύναμις, cioè, l’atto è ciò che rende la potenza la potenza di qualche cosa. Quindi, per il momento usiamo questi termini impropri, il primo elemento è condizione del secondo, ma il secondo è condizione per l’esistenza del primo. Questo è il problema del linguaggio, è quella cosa della quale Aristotele si sorprendeva parecchio: come è possibile questa cosa, che una cosa, che è condizione dell’altra, esiste dopo quell’altra? Poi, Aristotele ha risolto il problema, come poi ha fatto Hegel. Hegel lo ha risolto con l’Aufhebung, con l’integrazione, Aristotele con l’ έντελέχειᾳ.

Intervento: È interessante l’etimo di esistenza: star fuori, star separati…

Ex-sistere, letteralmente stare fuori. Infatti, quando Heidegger parla di estasi intende lo stare fuori. Per Heidegger si è sempre pro-gettati, cioè gettati fuori. Parlando si è gettati fuori, letteralmente, cioè, si è gettati verso ciò che il dire dice; il mio dire è sempre gettato fuori verso ciò che il mio dire sta dicendo. Trendelenburg è stato un filosofo tedesco, un po’ più giovane di Hegel, ed è rimasto famoso nella storia della filosofia perché si è pensato che con Trendelenburg per la prima volta si fosse messo un limite al dominio, che c’era in quegli anni, dell’idealismo hegeliano. Anzi, si è pensato che con Trendelenburg l’idealismo hegeliano fosse finito. Questo perché, secondo l’opinione dell’epoca, Trendelenburg avrebbe colpito al cuore la filosofia di Hegel. Perché? Il motivo è semplice. Hegel, come sappiamo, pone un elemento positivo, uno negativo e l’Aufhebung, l’integrazione. Trendelenburg diceva: sì, questo va bene, ma va bene nella logica formale – se scrivo A, questo A è tale perché non è non-A –, ma con la realtà come la mettiamo? Nella realtà ciò che esiste realmente non può negarsi e, quindi, non c’è modo di passare dal sistema teoretico di Hegel a un sistema che comprenda la realtà delle cose. Secondo Trendelenburg, dunque, l’idealismo hegeliano non consente la conoscenza della realtà ma soltanto della logica formale. Quindi, muovendo queste obiezioni, di fatto, non aveva inteso quello che voleva dire Hegel, che si poneva proprio questa questione della realtà. Quando lui diceva che ciò che è reale è razionale e che ciò che è razionale è reale, stava dicendo questo, che la realtà non può che essere razionale, cioè, un prodotto della ragione, e che la ragione è reale perché è l’unico reale con cui abbiamo a che fare. Se intendiamo questo di Hegel, è chiaro che l’obiezione di Trendelenburg non significa più niente, anche perché lui presuppone l’esistenza della realtà, cosa che invece andrebbe teoreticamente quanto meno argomentata. Cosa che non si può fare, non si può argomentare l’esistenza della realtà se non con pregiudizi, superstizioni, con chiacchiere: si dice che la realtà esiste, dunque esiste. Riducendolo all’osso è il massimo che si possa dire, ma non si può dimostrare. Neanche la dimostrazione si può dimostrare, è vero, ma qui il discorso si fa molto più ampio, talmente più ampio che va molto oltre le possibilità dello stesso Trendelenburg. La critica che lui fa a Hegel a mio parere vale veramente molto poco, c’è la presupposizione che esista la realtà, cosa che Hegel ha posto in discussione. Lui diceva: sì, certo, noi presupponiamo la realtà, ma con realtà che cosa intendiamo esattamente? La determiniamo come? Ecco allora la questione dei sillogismi, ma il sillogismo da cui si muove tutto ha poco a che fare con la realtà ma con la chiacchiera. Infatti, il sillogismo perfetto è quello che tiene conto che la premessa maggiore è fondata sulla chiacchiera, ed è per questo che giunge alla sua nozione di Spirito assoluto. Che cos’è lo Spirito assoluto? È il pensiero che pensa se stesso, il pensiero pensante, come diceva Gentile; che sarebbe Dio, come diceva Aristotele: colui che pensa quanto di meglio ci sia da pensare, e cioè il pensiero. Tutto il resto sono cose di nessun conto, anche se Aristotele sapeva bene che non è così per gli umani perché queste cose di nessun conto sono ciò di cui, di fatto, vivono. Questo problema del linguaggio è il problema con cui si scontra Aristotele nell’Organon, già nelle Categorie. Le Categorie sono le famose dieci: sostanza, quantità, qualità, relazione, tempo, luogo, lo stare, l’avere, l’agire e il patire. Le Categorie non sono altro che le determinazioni con cui si determina che cosa? La sostanza compare nel testo greco talvolta come ούσία, che sappiamo grazie ad Heidegger essere la forma abbreviata di παρουσία, manifestazione, altre volte appare come ύποκείμενον, per cui questa sostanza, letteralmente ciò che sta sotto, è anche soggetto, o anche sostrato. La sostanza è qualcosa che per lo stesso Aristotele costituisce un problema; un po’ come costituirà un problema negli Analitici la premessa maggiore nel sillogismo. Il sillogismo, sì, è perfetto, preciso, ma segue che cosa? Ora, Heidegger ci aveva informati sul fatto che ύποκείμενον, che generalmente viene tradotto con soggetto, sostrato, soggiacenza, può essere tradotto come con ciò che è in argomento, ciò di cui parliamo. Heidegger non va oltre, ma noi possiamo farlo, ma questo pone una bella questione: quando parliamo, di che cosa parliamo? Qual è la sostanza del nostro dire?

Intervento: La parola.

Sì, ma questo va molto oltre, Heidegger non arriva mai a dire una cosa del genere. Tutte queste categorie, tutte queste determinazioni sono quelle cose che fanno esistere la sostanza, cioè, il ciò di cui parlo esiste in quanto ne sto dicendo, nel modo in cui lo dico. Questi elenchi, queste determinazioni sono quelle attraverso cui la sostanza esiste; togliete tutte le determinazioni, cioè tutte le categorie, e scompare anche la sostanza. Ma la sostanza è la condizione di tutte le categorie. Vedete che ritorniamo sempre alla questione di prima, e cioè il primo elemento, che è la condizione di tutti gli altri – in questo caso di tutte le categorie –, non esiste senza le categorie. Questo problema, che è poi il problema del linguaggio, lo abbiamo trovato costantemente, interviene sempre perché è ineludibile, non si può aggirare, non c’è una soluzione a questo problema. Parlo di soluzione se la si intende nell’accezione aristotelica di έντελέχειᾳ o di Aufhebung, nel caso di Hegel. Il problema del linguaggio è esattamente questo. Lo abbiamo riassunto in questo modo: posso determinare – di fatto, determino continuamente, se non determino non posso utilizzare nulla – soltanto con l’indeterminabile. Posso dire un significante solo perché c’è un significato, ma questo significato sono i molti. Pensate a Platone: l’Uno è il bene, i molti sono il male. I molti che fanno? Impediscono all’Uno di essere Uno e basta. È per questo che Platone voleva l’Uno come irrelato. Anche Aristotele ci prova con la sostanza, ponendola come irrelata, ma si accorge poi che non c’è questa sostanza irrelata. Lui, certo, mette il πρός τί, cioè la relazione, tra le varie categorie, ma è qualcosa di più. Questo πρός τί indica che non c’è cosa se non c’è relazione, se tolgo la relazione viene giù tutto come un castello di carte. Un altro elemento, un’altra parola che compare spessissimo nell’Organon, ma già anche nella Metafisica, è il τόδε τί, il che cos’è questo. Con τόδε τί si intende generalmente l’oggetto, cioè il qualche cosa che è immanente, che esiste nello spazio-tempo, che è qui e adesso. So che questo libro è qualcosa, ma è questo qualcosa in questo momento, è questo qualcosa qui e non un altro: è questo il τόδε τί, che spesso viene usato al posto di “sostanza”. Vedete come per Aristotele le questioni sono tutt’altro che così precise, decise, stabilite, certe; spesso si oscilla tra il sembra, il pare, dovrebbe, potrebbe. Anche in quello che ci ha mostrato Heidegger, Aristotele è molto lontano da quella immagine aristotelica che ci è stata tramandata sin dal Medioevo, soprattutto il Medioevo di Tommaso, che era un grande lettore, commentatore e traduttore di Aristotele. L’immagine che sorge da Heidegger è che Aristotele stesse lavorando con il linguaggio ed è questo che ha indotto Trendelenburg a pensare che Aristotele abbia costruito le categorie a partire da categorie grammaticali, per cui la sostanza è il soggetto, la quantità e la qualità sono gli attributi. Si è trattato di trasportare il lavoro di Aristotele sulle categorie a un lavoro linguistico. Reale fa notare che non va tanto bene perché Aristotele, che non era un linguista ma un filosofo, voleva sapere esattamente quali sono le categorie che intervengono perché qualcosa sia quello che è – in questo caso la sostanza. Però, questo lavoro di Trendelenburg, un lavoro da tedesco, in effetti è interessante perché mette in evidenza alcuni aspetti, aspetti che curiosamente vengono ripresi da un linguista francese, Benveniste, che era ignaro del lavoro di Trendelenburg, il quale Benveniste fa tuttavia un lavoro molto vicino a quello di Trendelenburg, cioè utilizza le categorie di Aristotele per costruire una sorta di linguistica. In questo libro, al fondo, c’è uno scritto di Vincenzo Cicero, filosofo contemporaneo, il quale riprende la questione di Benveniste perché pone in modo interessante come la linguistica debba molto alle categorie aristoteliche, sapendolo oppure no, ma sono quelle cose che uno non sa direttamente ma che però ha orecchiato o sono presenti in altri libri che ha letto, che sono in un modo o nell’altro presenti. Benveniste era un linguista, conosceva molto bene il greco, quindi poteva accedere al testo greco con estrema facilità e verificare termini, ecc. Infatti, leggeremo alcune cose che ci riporta lui. Trendelenburg ha ragione sino a un certo punto. Aristotele, sì, è vero, parla continuamente del linguaggio, ma il suo intento non era questo, mentre per Trendelenburg l’intento specifico di Aristotele era di costruire le sue categorie a partire da categorie grammaticali. Ma l’intendimento di Aristotele non era questo, il suo intendimento era metafisico: voleva sapere come stanno le cose. Però, si è trovato invece di fronte il linguaggio. Cosa si è trovato esattamente di fronte? Si è trovato ciò che già nella Fisica, quando studiava il movimento, non ha potuto evitare, e cioè la relazione. Una relazione che appare sempre arbitraria. Nello stesso de Saussure la relazione tra significante e significato è arbitraria; non è arbitrario il fatto che ci siano entrambi, questo è necessario, ma è arbitrario il tipo di relazione. Infatti, l’albero lo chiamo albero in italiano, mentre lo chiamo tree in inglese e arbre in francese. Quindi, scontrarsi con il linguaggio è scontrarsi con il problema della relazione, cioè, con la priorità della relazione su qualunque altra cosa. Il linguaggio è relazione; se si toglie la relazione si toglie il linguaggio. Ma questa relazione è garantita da che cosa? Qui sorge il problema. È il discorso che faremo a tempo opportuno e che sarà quello che ci farà intendere come tutta la logica non sia altro che retorica, perché tutte le connessioni, che la logica vorrebbe necessarie, sono totalmente arbitrarie. Anche la matematica vorrebbe necessario il passaggio dall’1 al 2, ma non è necessario, non c’è niente al mondo che lo garantisca – Zenone docet–, è retorico, cioè decido, stabilisco che è così. In base a che cosa? In base all’uso, al costume, alla tradizione, a quello che ho appreso, a quello che ho pensato, a quello che mi è parso opportuno, a quello che mi raccontava la nonna, tutte queste cose sono quelle che garantiscono che all’1 succeda il 2. Lo stesso Peano, che fu un grande matematico e logico, pose questa connessione come idea primitiva, non ulteriormente indagabile. Lui dice che il successore di un numero è un numero. Domanda: perché? Perché è un numero anziché una caffettiera? Non c’è una risposta soddisfacente, per cui la pone come un’idea primitiva: è così e tanto basta. Che è esattamente la stessa cosa che fece Aristotele quando cercava il principio primo e trova la δόξα, per cui dice: è così ed è inutile andare oltre, perché oltre troviamo altra δόξα, all’infinito. La ricerca della garanzia, di qualcosa di fermo, di stabile, tale che sia possibile imporre al prossimo – è questa poi l’idea finale, per cui se non ci fosse questa idea non importerebbe un accidente a nessuno né della verità né di tutti i suoi orpelli – ebbene, questa necessità di garanzia può intervenire solo se si fa come fece Platone: qui ci sono i buoni e di là ci sono i cattivi, i molti, ben separati, distinti tra di loro. E questo è il fondamento di ogni religione: la religione deve sapere che cosa è bene e cosa è male, sennò non è una religione, e per poterlo fare deve distinguere il bene da male, non può essere qualcosa che fa confusione. Il bene, l’Uno, deve stare da una parte, il male, i molti, dall’altra, e non l’Uno e le cose, come voleva Eraclito. Sappiamo: l’Uno non è affatto tutte le cose; al massimo, l’Uno è il tutto, πάντον, come poi veniva tradotto dagli stessi Diels e Kranz. Heidegger se la prende con loro perché avevano tradotto il famoso frammento ἒν πάντα εἰναι con “l’uno è il tutto”, ma lui fa notare giustamente che πάντα non è singolare ma plurale e, quindi, non possiamo tradurre il frammento con “l’uno è il tutto”, perché se avesse voluto dire questo avrebbe scritto πάντον e non πάντα. Πάντα è tutte le cose, i molti appunto: l’uno è i molti. Quindi, non c’è più l’uno da una parte e dall’altra i molti, ma l’uno è i molti e i molti sono l’uno. Dunque, il problema del linguaggio è questo: il problema dell’uno e dei molti. Tutto ciò che è seguito… Si fa presto a dire seguito, da che cosa è stato seguito? Sono seguiti questi due filoni, queste due direttrici: aristotelismo e platonismo. Ora, però, verrebbe da pensare che in realtà abbia sempre dominato il platonismo e mai l’aristotelismo, neanche nel basso Medioevo quando c’era la rilettura di Aristotele e la logica veniva posta in prima istanza su tutto. Era comunque una lettura platonica di Aristotele. Quindi, il platonismo. Qui si gioca una questione importante. Il platonismo serve a cancellare Aristotele. Tutti i problemi che lui incontra rispetto al linguaggio vengono cancellati dal platonismo. Come viene risolto il problema che c’è ancora per Aristotele rispetto al linguaggio? Lo vedremo, perché letto come ci suggerisce Heidegger lo troveremo. Per Aristotele il linguaggio era un problema, per Platone no. Più per il neoplatonismo che per Platone, quindi, per Plotino, Porfirio, Proclo, Giamblico. Giamblico aveva preso quella via del misticismo, dell’esoterismo, della magia, era un periodo in cui andava di moda, ripreso poi nel Rinascimento. Dunque, la lettura platonica di Aristotele. Aristotele appare letto sempre platonicamente. Che cosa vuol dire letto platonicamente? Vuol dire che è stato letto a partire dall’idea che ci sia necessariamente un qualche cosa che è quella che è per virtù propria: questa è l’idea portante di Platone, che l’ente è. Anche Aristotele dice che l’ente è, ma non per virtù propria ma per un altro. Cambia tutto. Quindi, leggere Aristotele attraverso Platone significa che il problema, che lui incontra, per es., con la premessa maggiore del sillogismo, scompare, perché la premessa maggiore è quella che è, è ciò che ci appare, è il fenomeno, la φαίνεσταί, ciò che si mostra, è quello che vedo, e quello che vedo non mente, perché la natura non è infingarda. Quindi, ecco, leggere Aristotele con Platone significa cogliere la problematicità che c’è in Aristotele e mano a mano lo vedremo. Nelle Categorie si accorge che questa sostanza non c’è senza il ciò che se ne dice, cioè senza le determinazioni o le categorie, che sono poi la stessa cosa. Non c’è, e lui ha un bel cercare di stabilirla, ma gli scappa dalle mani, perché senza queste categorie, i praedicamenta, di che cosa parlo? È questa la domanda che alla fine si faceva Aristotele: di che cosa sto parlando se tolgo tutte le categorie, cioè tutte le determinazioni? E la sostanza è il ciò di cui stiamo parlando, è il τόδε τί, cioè il qualche cosa che è questo qui, ma questo qualcosa, che è questo qui e non un altro, è questo qui per via delle sue determinazioni, perché so che cos’è un libro, so che cos’è un tavolo, ecc. So un sacco di cose grazie a tutte queste cose. In fondo, il messaggio di Heidegger quando parla del mondo – ciascuno è il mondo in cui è inserito – è questo: questo libro è perché è inserito nel mondo, è inserito in tutto ciò che so, è il mondo che fa esistere questo libro, cioè tutti i praedicamenta, tutte le categorie, tutte le determinazioni; tolte le determinazioni tutto scompare. Questo è anche il problema della religione, perché in questo modo se io pongo Dio come sostanza prima allora Dio esiste per via di ciò che io ne dico, quindi esiste grazie a me, e questo alla religione non va bene. Poi, ci sono delle varianti panteistiche, per es. Spinoza e altri. Quindi, Dio deve essere irrelato, ma se è irrelato allora Dio non esiste. È il problema, almeno in parte, che aveva sollevato Severino. Ricordate l’eterno: l’eterno è irrelato, perché se è relato vuol dire che c’è un prima e un dopo, è in movimento rispetto a qualche cosa, c’è una relazione e, quindi, è in movimento, e se è in movimento allora non è eterno. Ma se è irrelato non esiste. Di questo dettaglio Severino non tiene conto: che per esistere deve esistere per qualche cos’altro. È questo che continua a dire Aristotele, anche e soprattutto nell’Organon, ed è per questo che probabilmente è stato sempre letto attraverso Platone. Come se, in un certo senso, Platone fosse l’antidoto alla teoreticità del pensiero di Aristotele, ai problemi che aveva posto Aristotele senza risolverli; ché lui non è che li risolve, non è che risolve il problema della δύναμις e dell’ἐνέργεια, però dice che c’è una simultaneità di questi due elementi. Soltanto così si possono intendere, perché se uno non c’è senza l’altro allora devono coappartenersi; un po’ come l’infinito e il finito: non posso parlare del finito senza l’infinito.

Intervento: Verrebbe da pensare che Platone abbia riscosso maggiori consensi perché la sua è una teoria e, quindi, maggiormente utilizzabile dalla volontà di potenza.

Sì, questo è vero. In effetti, con Platone tutta la metafisica è sorretta dal fatto che l’ente sia quello che è per virtù propria. È un’idea che consente – potremmo addirittura azzardare – la volontà di potenza, cioè, che esista qualcosa di finito, perché l’ente è ciò che è in quanto finito, conchiuso in sé. Per Aristotele, invece, non è conchiuso in sé, ma è conchiuso nel momento in cui è in relazione con altro, ed è la relazione con l’altro, che è sì conchiusa con l’έντελέχειᾳ, ma è una relazione, c’è un movimento, quindi, non è quello che è se non in virtù di quell’altro e, quindi, è quello che è in virtù di ciò che non è. Platone e poi il platonismo, Plotino… Plotino considera, sì, l’Uno, però compie quella operazione che recupera i molti. Mentre Platone separa i buoni dai cattivi, Plotino li recupera. E come li recupera? Attraverso l’Uno. Questo Uno produce per emanazione, anzi, come dice Plotino, per processione: prima l’intelligenza, poi l’anima e poi tutto il resto, ma sono una produzione dell’Uno. Perché questo Uno, che poi diventa Dio, senta la necessità di riprodursi c’è qualche problema: lui lo descrive come un Uno che deborda, uno strabordare dell’intelligenza, della bontà divina, che non riesce più a essere contenuta perché troppo grande. Verrebbe da pensare che è troppo grande anche per lui, ma se è così che razza di Dio è? Ciò che a noi interessa è che con Plotino e il neoplatonismo vengono assorbiti i molti in quanto devono essere gestiti, dominati dall’Uno. Ecco la svolta di Plotino rispetto a Platone. Platone tiene separati i buoni dai cattivi, Plotino no, con Plotino l’Uno domina sui molti, necessariamente, perché lui è bontà, intelligenza infinita. A questo punto, i molti, i vari enti, trovano in qualche modo una loro legittimità: vengono accolti dall’Uno in quanto qualche cosa che procede dall’Uno.

Intervento: …

Ma soprattutto lo pone in modo assolutamente differente da come lo pose Aristotele: il pensiero che pensa la cosa più alta che si possa pensare, cioè, il pensiero stesso. In Plotino no, l’Uno è talmente intelligente, buono ecc., che deborda e produce appunto questi derivati. Quindi, l’utilizzo di Plotino è stato fondamentale, perché gli enti, certo, ci sono, ma ci sono in quanto devono essere dominati dall’Uno; poi, l’Uno diventa Dio, poi diventa il re, l’imperatore, lo Stato, il governo. È un’immagine piramidale quella di Plotino: un Uno e poi a discendere tutti gli enti, che però ricordano, secondo lui, questa cosa, per cui c’è questo tendere verso l’infinito, il divino, ecc.

Intervento: Questione anche legata alla scienza, cioè, questo procedere all’unificazione. Le cose si spiegano nel momento in cui si fornisce un’idea unitaria.

Questo è sempre stato presente nel pensiero. È soltanto la sintesi che consente la conoscenza. La διαίρεσις, la divisione, deve essere ricondotta all’Uno, cioè al determinato. Che è quello che fa ciascuno parlando…

Intervento: E le domina con una regola.

Sì, solo che questa regola in Aristotele c’è, naturalmente. È l’έπαγωγή, l’induzione, che è la chiacchiera, né più né meno. Per Platone e per Plotino no, questa regola è dettata dall’onniscienza dell’Uno. Questo rende conto della fortuna di Platone e dei neoplatonici in tutto il corso del pensiero umano, perché Aristotele, come dicevamo, non è mai stato letto, almeno così appare, se non attraverso Platone, cioè fornendo un supporto, poi in definitiva, alla premessa maggiore di ogni sillogismo, un supporto, reale, concreto, che è quello che è, perché Deus vult. Aristotele no, Aristotele in fondo è quello che crea problemi. Dice che la premessa maggiore la troviamo per induzione, non per deduzione perché in questo caso a cosa la riferiamo? A un’altra deduzione? Ci ritroveremmo presi in un regresso all’infinito, non ne usciamo mai più. La premessa deve essere creata, quasi dal nulla. Come? Attraverso una decisione, un’induzione in fondo è una decisione: decido che è così, perché mi sta bene così, decido che è così perché solo così posso dominare gli enti, sennò non li domino. E se non li domino che sto a fare al mondo?