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16 agosto 2017

 

M. Heidegger, Essere e Tempo 

 

Siamo a pag. 291, § 48, Mancanza, fine e totalità. Quanto abbiamo discusso finora intorno alla morte può essere riassunto in queste tre proposizioni: 1) L’Esserci porta con sé, fintano che è, un non-ancora che sarà, cioè una mancanza costante. 2) Il giungere-alla-propria-fine da parte dell’ente che è via via non-ancora-alla-fine (il venir meno della mancanza propria dell’Esserci) ha il carattere del non-esserci-più. Quando non c’è più nulla avanti a sé scompare anche l’Esserci. 3) il giungere alla fine implica, per il rispettivo esserci, un modo di essere in cui non è assolutamente possibile la sostituzione. Lo abbiamo visto, nessuno può morire al posto mio. All’Esserci è connessa una costante “non totalità”, a cui solo la morte pone termine. Heidegger cerca di raggiungere questa totalità per delimitare, per determinare l’Esserci, che è per un verso un intendimento paradossale dal momento che ovunque Heidegger non fa che dirci che l’Esserci è un essere progettato, sempre gettato avanti a sé. Quindi, com’è che lo delimitiamo? Certo, la morte lo delimita in quanto toglie la possibilità, però, togliendo la possibilità toglie anche l’Esserci e bell’è fatto. È una questione questa che può estendersi non soltanto all’Esserci, che è un ente dopotutto come gli altri, anche se è l’unico ente che esiste mentre le altre cose sono presenze. Qualunque cosa la si voglia delimitare, quindi, determinare, prendendo questo verbo alla lettera, de-terminare, cioè, tagliando fuori tutto ciò che non è quella cosa, avviene esattamente la stessa cosa che Heidegger descrive rispetto all’Esserci, cioè l’ente “muore”, nel senso che scompare, perché se io tolgo all’ente, qualunque esso sia, tutte le relazioni che intesse con altri enti, per chiuderlo, per determinarlo, per poterlo individuare, lo cancello, muore, nel senso che scompare perché non sarebbe più nel linguaggio. Non essendo più connesso con tutti gli altri elementi attraverso tutte le relazioni che intesse, questo elemento cessa di esistere, in quanto cesserebbe di essere un elemento linguistico, che per definizione è relato con tutti gli altri elementi linguistici. Questa è una questione che riguarda più l’aspetto semiotico che ontologico, e cioè il fatto che un elemento per essere un elemento linguistico deve essere necessariamente connesso, come direbbe de Saussure, con tutti gli altri elementi linguistici. Questo ci mostra come un qualunque elemento linguistico non sia determinabile, nell’accezione letterale che indicavo prima, non sia isolabile. Se non lo posso isolare non posso nemmeno determinarlo perché è come se fosse sempre aperto, esattamente come l’Esserci. Ma andiamo avanti. Ma è possibile interpretare come mancanza il dato di fatto fenomenico che all’Esserci, fintanto che è, “inerisce” questo non-ancora? Questo fatto, dice, possiamo porlo come una mancanza, il fatto che l’Esserci è sempre un non-ancora. Non-ancora non è altro che una pura possibilità. In riferimento a qual genere di ente si può parlare di mancanza? L’espressione indica qualcosa che “è proprio” di un ente, ma che gli manca ancora. Il mancare nel senso di non essere ancora presente si fonda in un far-parte-di. … Ciò che manca non è ancora disponibile. È questo che generalmente si intende quando si dice che qualcosa manca, che non è appunto disponibile. A pag. 292. L’ente a cui manca ancora qualcosa ha pertanto il modo di essere dell’utilizzabile. Perché dice una cosa del genere? Cosa manca all’utilizzabile? Il suo utilizzo. L’utilizzabile è per qualche cosa, quindi, manca sempre qualcosa, quindi, è inutilizzabile. Il non-insieme proprio di un tale insieme, il non esserci ancora come mancanza, non può assolutamente caratterizzare ontologicamente il non-ancora che è proprio dell’Esserci come morte possibile. Ci sta dicendo che queste cose che riguardano la mancanza non hanno propriamente a che fare con la morte. A pag. 293. Parimenti anche l’Esserci, fintanto che è, è già sempre il suo non-ancora. È come dire che l’Esserci è possibilità pura. Ciò che costituisce la “non totalità” nell’Esserci, il suo permanente avanti-a-sé, non è né una mancanza di un insieme sommativo né qualcosa di non-ancora-divenuto-accessibile, ma un non-ancora che l’Esserci, in quanto è l’ente che è, ha sempre da essere. Non è che questa mancanza è tale perché manca qualcosa da aggiungere, ma è perché l’Esserci, per definizione, così come lo definisce Heidegger, è sempre qualcosa che necessariamente deve raggiungere se stesso, deve compiersi compiendo le sue possibilità. Naturalmente, l’ultima possibilità è la morte, che è quella che cancella l’Esserci. A pag. 294. Finire non significa necessariamente giungere a compimento. La domanda si fa ora più incalzante: In quale senso, in generale, la morte dev’essere intesa come la fine dell’Esserci? Dice che non si tratta di un cessare qualcosa, non è l’ultimo elemento che rende la cosa completa, come l’ultima pennellata di un quadro, ma dice La morte dell’Esserci non si lascia caratterizzare adeguatamente da nessuno di questi modi del finire. Se si concepisse la morte come essere alla fine nel senso che il finire ha uno dei modi sopra esaminati, l’Esserci sarebbe assunto come semplice-presenza o come utilizzabile. Cioè, un utilizzabile che si compie nella sua appagatività, quando viene utilizzato per ciò che è utilizzabile. Nella morte l’Esserci non è né compiuto né semplicemente dissolto né, tanto meno, ultimato o disponibile come utilizzabile. Sta qui cercando di intendere come funziona la morte, ma intenderla in senso ontologico, non in senso biologico o sociologico ma come possibilità, come la estrema e più propria possibilità dell’Esserci. L’Esserci, allo stesso modo che, fintanto che è, è già costantemente il suo non-ancora, è anche già sempre la sua fine. Il finire proprio della morte non significa un essere alla fine dell’Esserci, ma un essere-per-la-fine da parte di questo ente. La morte è un modo di essere che l’Esserci assume non appena è. “L’uomo, appena nato, è già abbastanza vecchio per morire.” Vediamo, quindi, come Heidegger intende la questione della morte, e cioè come un essere-per-la-fine. L’Esserci, dal momento in cui incomincia a esserci, è per la sua fine. Questo è ciò di cui è più proprio all’Esserci: l’essere per la fine. Ciascuna cosa in Heidegger è un “essere per”, il progetto è un essere per, e il progetto più proprio dell’Esserci è l’essere per la fine. Il finire, come l’essere-per-la-fine, richiede la sua chiarificazione ontologica in base al modo di essere dell’Esserci. Paragrafo 49, a pag. 296. Nel senso più largo, la morte è un fenomeno della vita. Il vivere dev’essere inteso come un modo di essere cui appartiene l’essere-nel-mondo. La vita può essere determinata ontologicamente solo in virtù di un orientamento negativo nell’Esserci. Anche l’Esserci può essere considerato come un semplice vivente. Sottoposto a una ricerca puramente fisica e biologica, esso ricade in quella regione dell’essere che noi chiamiamo mondo animale e vegetale. Ovviamente, non è questo ciò che interessa ad Heidegger. Bisogna chiedersi in che modo l’essenza ontologica della morte determini quella della vita. Essenza ontologica della morte, cioè, qual è l’essenza della morte. È all’interno dell’ontologia dell’Esserci, preordinata a un’ontologia della vita, che l’analisi esistenziale della morte può essere subordinata a una caratterizzazione della costituzione fondamentale dell’Esserci. Ad Heidegger interessa questa questione della morte perché lui vuole trovare ciò che caratterizza propriamente l’Esserci. Ricordate che il suo obiettivo è di renderlo un tutto ed è per questo che si occupa della morte. La fine del semplice-vivente è stata definita come cessare di vivere. Poiché l’Esserci “ha” la sua morte fisiologica quale essere vivente … anch’esso può cessare, senza tuttavia che ciò significhi la morte in senso autentico. (pagg. 296-297) A pag. 298. Se già l’Esserci non è mai accessibile come semplice-presenza, perché al suo modo di essere appartiene l’esser-possibile in una maniera del tutto particolare… L’Esserci non è mai una semplice presenza, è sempre una possibilità gettata avanti a se stesso: Non può determinarsi perché è sempre un’apertura. …tanto meno ci dovremmo aspettare di poter ricavare facilmente la struttura ontologica della morte, una volta ammesso che la morte costituisce una possibilità eminente dell’Esserci. Passiamo al paragrafo 50, pag. 299, Schizzo della struttura ontologico-esistenziale della morte. Quanto siamo venuti osservando circa a mancanza, la fine e la totalità ha mostrato la necessità di interpretare il fenomeno della morte in quanto essere-per-la-fine partendo dalla costituzione fondamentale dell’Esserci. Qual è la costituzione fondamentale dell’Esserci? Quella di essere una possibilità, quindi, la più propria possibilità dell’Esserci è quella che conclude con tutte le possibilità. Abbiamo visto anche il paradosso, perché se l’Esserci si conclude con l’ultima possibilità cessa di esistere. Solo così è possibile chiarire in che misura l’Esserci stesso, conformemente alla sua struttura d’essere, può costituire una totalità mediante l’essere-per-la-fine. La Cura ci è apparsa come la costituzione fondamentale dell’Esserci. Il significato ontologico di questa espressione fu reso esplicito nella “definizione”: esser-già-avanti-a-sé nel (mondo) come essere-presso l’ente che viene incontro (come intramondano). (pagg. 299-300) Questa è la definizione di Cura, cioè, essere avanti a sé nel mondo come essere presso l’ente. Quando sono presso l’ente nel mondo di cui sono fatto, ecco, questo essere presso l’ente è qualcosa che non posso non fare, non posso non essere presso un ente, quindi, sono già avanti a me: tutto ciò per Heidegger è la Cura. Sono così espressi i caratteri fondamentali dell’essere dell’Esserci: nell’avanti-a-sé l’esistenza;… L’esistenza dell’Esserci consiste nell’essere avanti a sé. …nell’esser-già in… l’effettività;… Io sono già sempre nel mondo, questa è l’effettività. …nell’esser-presso… la deiezione. L’essere presso qualche cosa, l’essere presso le cose, comporta il modo quotidiano del vivere, perché è vero che l’esistenza è l’essere avanti a sé continuamente, però, di fatto, è nella quotidianità che l’Esserci vive. È un essere presso come deiezione: la chiacchiera, la curiosità e l’equivoco. Bisogna innanzi tutto chiarire una buona volta come nel fenomeno della morte si rivelino l’esistenza, l’effettività e la deiezione dell’Esserci. Abbiamo respinto come inadeguata l’interpretazione del non-ancora, e quindi dell’estremo non-ancora dell’Esserci, della sua fine, nel senso di una mancanza. E ciò perché tale interpretazione implica il capovolgimento dell’Esserci ina una semplice-presenza in sé. Essere alla fine significa esistenzialmente: essere-per-la-fine. L’estremo non-ancora ha il carattere di qualcosa cui l’Esserci si rapporta. La fine incombe sull’Esserci. La morte non è affatto una semplice-presenza non ancora attuatasi, non è un mancare ultimo ridotto ad minimum, ma è, prima di tutto, un’imminenza che incombe. Il che la pone, come dirà tra poco, come qualcosa che è sempre presente. Non è qualcosa che si attende, è già presente, ed è già presente in quanto il mio Esserci è tale perché è una possibilità e fra queste possibilità la più propria è la morte e, quindi, è già lì, è già una possibilità. Ma, all’Esserci, come essere-nel-mondo, incombono molte cose. Il carattere di imminenza incombente non è esclusivo della morte. Al contrario: anche questa interpretazione potrebbe far credere che la morte sia da intendere come un evento che si incontra nel mondo, minaccioso nella sua imminenza. … L’incombere della morte non ha un essere di questo genere. … La morte è una possibilità di essere che l’Esserci stesso deve sempre assumersi da sé. Nella morte l’Esserci incombe a se stesso nel suo poter essere più proprio. Quando dicevamo che l’Esserci è possibilità, tra queste possibilità la più propria è la morte, quindi, l’Esserci non è propriamente la morte ma è “per” la morte, perché la morte è una possibilità e l’Esserci è quella possibilità. In questa possibilità ne va per l’Esserci puramente e semplicemente del suo essere-nel-mondo. Sta dicendo che l’Esserci è nel mondo in quanto possibilità e la morte è la possibilità più propria, quindi, l’Esserci è nel mondo in quanto possibilità di morte. Possibilità qui non nel senso, come diceva prima, di una cosa eventuale ma qualcosa di cui l’Esserci è fatto. La possibilità non è di qualcosa ipotetica, è ciò di cui è fatto l’Esserci. A pag. 301. La morte è per l’Esserci la possibilità di non-poter-più-esserci. Poiché in questa sua possibilità l’Esserci incombe a se stesso, esso viene completamente rimandato al suo poter-essere più proprio. In questo incombere dell’Esserci a se stesso, dileguano tutti i rapporti con gli altri Esserci. Questa possibilità assolutamente propria e incondizionata è, nel contempo, l’estrema. Nella sua qualità di poter-essere, l’Esserci non può superare la possibilità della morte. La morte è la possibilità della pura e semplice impossibilità dell’Esserci. Qui pone la questione centrale: l’assoluta possibilità dell’Esserci è la sua impossibilità. Così la morte si rivela come la possibilità più propria, incondizionata e insuperabile. Come tale è un’imminenza incombente eccelsa. La sua possibilità esistenziale si fonda nel fatto che l’Esserci è in se stesso essenzialmente aperto e lo è nel modo dell’avanti-a-sé. Questo momento della struttura della Cura ha la sua concrezione più originaria nell’essere-per-la-morte. L’essere-per-la-fine si rivela fenomenicamente come l‘essere per la possibilità eccelsa dell’Esserci caratterizzata. Tutta questa storia che sta costruendo Heidegger ci dice che l’essere per la fine è, in effetti, ciò che l’Esserci più propriamente è. Però, consideriamo ciò che dicevamo prima, facciamo un piccolo spostamento sulla questione semiotica, anche perché Heidegger ci fornisce qua e là delle occasioni per riflettere. Come potremmo intendere semioticamente ciò che sta dicendo riguardo all’Esserci in quanto essere per la fine? Vi ricordate di de Saussure? Consideriamo questa affermazione: ciascuna cosa è quella che è a condizione di non essere ciò che è. Questo lo avevamo tratto da de Saussure, è lui che lo dice, anche se non in questi termini, però, ciascun significante è quello che è in quanto preso in una relazione differenziale con tutti gli altri significanti. Questo significa che il significante, per essere quello che è, è simultaneamente anche tutti gli altri, quindi, non è quello che è, nel senso della delimitazione, della determinazione, ma è quello che è in quanto aperto a tutti gli altri significanti. È esattamente questo che sta dicendo Heidegger, e cioè che ciascun significante è quello che è in quanto rivolto alla possibilità della sua fine. Un significante è quello che è in quanto incontra la sua fine nella dispersione totale dei significanti. Questo sarebbe il compimento, per proseguire questo modo di pensare di Heidegger, il compimento del significante è la sua dissoluzione, cioè, quando voglio delimitarlo, quando voglio rispondere alla domanda “che cos’è il significante?”, il significante si dissolve, in tutte le relazioni infinite di cui è fatto. Tutto questo non è nulla di particolarmente nuovo ma pone delle eventuali riflessioni ulteriori. Intendo dire che, parafrasando Heidegger, anche se queste cose le dico o e non lui, è come se su ciascun elemento, in quanto elemento linguistico, incombesse la morte, come la fine. La morte è qui intesa, rispetto al significante, come la sua dissoluzione, come la sua dispersione nella infinita relazione differenziale con gli altri significanti. Quindi, potremmo dire, e forse non diciamo male, che ciò che è di più proprio di un significante è di essere per la sua morte, cioè, di non essere ciò che è. Detta così potrebbe apparire paradossale ma intendo dire con questo che per potere, semmai uno avesse in animo di delimitare, chiudere in un tutto, come vorrebbe fare Heidegger rispetto all’Esserci, questa operazione non può evitare l’essere per la morte del significante, di essere quindi per la dispersione, per la sua cancellazione. Cancellazione da intendersi nel senso di totalità, cioè, si cancella l’idea, perché non si realizza, di una delimitazione del significante, di una sua astrazione da tutte le relazioni di cui è fatto.

Intervento: È come se il dire del significante fosse il vivere dell’Esserci. Penso al significante come a una possibilità perché dicendosi apre a delle possibilità.

Rispetto a quello che sta dicendo, può intendere il significante come un utilizzabile.

Intervento: Io lo affiancavo più all’Esserci che non all’utilizzabile, nel senso che il dire del significante è come il vivere dell’Esserci. Nel momento in cui il significante si dice è come se avesse compiuto la possibilità; in pratica, ha fatto quello che doveva fare e, quindi, muore. Una volta detto, il significante non c’è più.

Il significante ha rinviato a un’altra cosa. Nel momento in cui rinvia a un’altra cosa il significante scompare. Come quando rinvia al significato, per questo motivo c’è la barra, se c’è significante non c’è significato, anche se non possono separarsi. Quando si parla, in effetti, come diceva anche Sandro prima, il proferire un significante comporta che questo significante, dicendosi, scompaia aprendo ad altri significanti. Ora, non so fino a che punto questo potrebbe essere ciò che intende Heidegger rispetto all’essere per la fine, però, sicuramente, il “compito” del significante è quello di scomparire davanti ad altri significanti, cioè, di produrre altri significanti. È ovvio che non esiste un significante se non ci fosse un significato, perché sarebbe significante di niente, quindi, deve esserci un significato che lo supporta. Questo significato è ciò che si aggancia, per così dire, ad altri significanti. Occorre intendere che il significante è quello che è perché è portatore di significato, è un veicolo di significato. Infatti, de Saussure lo pone come immagine acustica, questa senza un significato è niente, è un suono, un rumore. Quindi, la scomparsa del significante, come dicevamo prima, non è tanto da attribuirsi al fatto che c’è un significato, perché senza significato non potrebbe esistere il significante. Il significante scompare nel momento in cui apre ad altri significanti, i quali hanno dei significati ovviamente, e questo suo (del significante) essere per la morte è il suo essere per essere altri significanti. È per questo motivo che parlavo di utilizzabile. In effetti, una proposizione, un significante, è un utilizzabile, è un qualche cosa che si utilizza parlando. E questo significante incontra la sua appagatività nel momento in cui cessa di essere quello che è ma apre ad altre cose consentendo così la prosecuzione del linguaggio, in definitiva, consentendo di parlare. Ma questa è una questione, certo, complessa, però centrale in tutto ciò. A noi interessa perché ci mostra come parlando ciascun elemento che interviene dicendosi muore, cioè, incontra il suo compimento, che è quello di aprire ad altri significanti. È questo che compie il significante: dicendosi, apre ad altri significanti. Questo comporta un effetto collaterale, e cioè una domanda: che cosa dico mentre parlo? Che cosa sto dicendo? C’è la possibilità di sapere che cosa io stia dicendo? Sì e no. C’è la possibilità ma questa possibilità è una costruzione, è un artificio. Una costruzione che, una volta costruita e detta, rinvia alla stessa questione. Tutto questo, ovviamente, manca in Heidegger, è ciò che tempo fa indicavo come il nichilismo assoluto, una pars destruens che non ha né può avere nessuna pars construens. Il fatto che sia possibile proseguire a parlare anziché arrestarsi immediatamente è dato dal fatto che è un artificio del linguaggio per potere continuare a dire. Il linguaggio non può dire ciò che sta facendo ma non può dire che cos’è in che senso? Non può dire che cos’è questa cosa fuori dal linguaggio, perché per poter dire che cos’è realmente dovrebbe porla fuori dal linguaggio e da lì esaminarla. Finché rimane all’interno del linguaggio è ovvio che ogni volta che la prendo in considerazione questa cosa muore, per usare i termini di Heidegger, perché giunge al suo compimento: una volta che la dico, che l’affermo, questa cosa si dissolve. Questo dissolversi dei significanti mentre si dicono è sicuramente ciò che rende impossibile quella cosa che nella scienza e in altre situazioni è chiamata certezza, la certezza che qualche cosa sia quella che è. Se si parla, se si è nel linguaggio, questo non è possibile, è possibile unicamente decidere, per potere utilizzare un elemento, che un certo elemento è quello che, perché io decido che lo userò così. Esattamente come si fa nella logica, questa cosa significa questo, tutte le volte che interverrà questo elemento si userà in questo modo. È una regola del gioco, regola che, di per sé, non è né vera né falsa. Questo nichilismo assoluto è ciò che caratterizza il linguaggio, è, per usare il modo di esprimersi di Heidegger, ciò che gli è più proprio, è la sua proprietà che realizza continuamente mettendo di fronte l’impossibilità di potere fermare un qualche cosa, stabilendo che cos’è, ma consente di fermarlo unicamente come decisione, cioè, come regola per giocare, un artificio. Userò questo termine in questo modo, perché? Perché sì, perché questo modo mi consente di compiere certe operazioni che voglio fare. Una cosa del genere è certamente complessa perché se utilizziamo le conclusioni di queste argomentazioni sulle argomentazioni stesse, allora tutto diventa un enorme problema, nel senso che il nichilismo assoluto si manifesta in tutta la sua devastazione. Tutto ciò che stiamo facendo, tutto ciò che Heidegger stesso dice, potremmo dire che è niente oppure, più propriamente, è la costruzione di un gioco linguistico. Che cosa questo gioco linguistico? Fornisce occasioni per potere proseguire a giocare con il linguaggio, questo è tutto ciò che fa. Altre occasioni per giocare, occasioni più interessanti, ma qui interessante che cosa significa? Che danno da pensare, pone dei problemi da risolvere, pone delle questioni da riflettere, questioni a cui non si era pensato. È necessario pensarci? Certo che no, ma non possiamo non parlare e di conseguenza, parlando, ci troviamo a costruire sequenze che, mano a mano che diventano più complesse, esigono, per costruire altre sequenze, soluzioni altrettanto complesse. Mettiamola così. Il linguaggio deve proseguire, ma come prosegue? Come sappiamo, costruendo una sequenza coerente che giunge a una conclusione. Questa conclusione sarà utilizzata per costruirci sopra altre cose. Perché questa conclusione sia utilizzata dal linguaggio per costruire altre cose è come se dovesse proporre un superpotenziamento, cioè, deve aggiungere qualche cosa che prima non c’era. Ciascuna proposizione, ciascun discorso, è sempre teso a un superpotenziamento, ed è questo il motivo per cui si elaborano questioni sempre più complesse. Non perché queste più complesse siano più vere o descrivano chissà che cosa, non descrivono assolutamente niente ma fanno parte del superpotenziamento, superpotenziamento intellettuale. Come sappiamo, già da Nietzsche, non è possibile evitare la volontà di potenza perché è ciò di cui è fatto il linguaggio. Però, è possibile, intanto saperlo, è fondamentale, poi è possibile compiere questo percorso di superpotenziamento ma a livello intellettuale. Il che significa sapere ciò che si sta facendo, sapere che c’è sempre altro da pensare (questo altro da pensare è la base del superpotenziamento) e che, di conseguenza, tutto ciò che si pensa, che si elabora, si articola, ecc., ha come unico scopo il superpotenziamento intellettuale. Vi rendete immediatamente conto che il risvolto clinico di una questione del genere è enorme, nel senso che si dissolve, scompare, irrimediabilmente e definitivamente, qualunque tentativo, qualunque fantasia, di potere fermare qualcosa, quindi, di credere qualcosa. Questo non è più possibile in nessun modo, e se non c’è questa possibilità non c’è necessariamente quella cosa che Freud chiamava nevrosi, non c’è né può in nessun modo costruirsi. Questo è il risvolto clinico. Detta così sembra semplice ma non è così semplice o immediato da ottenere, ma è l’obiettivo. I vari discorsi sono i modi con cui ciascuno, l’ossessivo, il paranoico, ecc., costruisce in qualche modo la sua volontà di potenza, in base ad alcuni criteri che Freud ha indicati, ma potrebbero essere non solo quelli oppure potrebbero essere ridotti, ecc. C’è un solo modo per evitare la volontà di potenza: cessare di parlare, per sempre. Questo è l’unico modo. Quando Heidegger parla di un’imminenza incombente, a proposito della morte, parla di una possibilità che è presente qui e adesso, non è qualcosa di futuro. La deiezione, il Si, il discorso comune, evita continuamente il confronto con questa possibilità ponendola come una eventualità remota: sì, la morte c’è ma intanto per adesso sono vivo e speriamo di andare avanti. La questione è questa: evitare in tutti i modi il confronto con questa possibilità immanente. È un altro modo di evitare il confronto con la dissoluzione del significante, con l’impossibilità di fermare il significante, di controllare, di avere il potere sul significante. Quando si sta bene è perché si suppone di avere il controllo sulle cose, quando si sta male è perché si suppone di averlo perduto, non ci sono altri modi.

Intervento: E sapere di non potere avere il controllo?

Certo, non può avere il controllo sulla cosa metafisica perché dovrebbe uscire dal linguaggio per poterlo fare. Ma, come diceva Heidegger, la questione non è tanto, parafrasandolo, sapere se si ha il controllo, come avere il controllo, ma perché lo si cerca. È questa la questione interessante, l’unica che merita di essere considerata: perché uno dovrebbe volere il controllo? Certo, per la volontà di potenza, ovviamente, ma se riflette sul perché voglio avere il controllo sulle cose, ecco che si scontra con la volontà di potenza, di cui peraltro è fatto. E, allora, naturalmente da lì si muove un’elaborazione intorno alla volontà di potenza e a ciò di cui è fatta, cioè, di linguaggio. È a questo punto che c’è la possibilità di accorgersi che, essendo fatti di linguaggio, tutto ciò che la volontà di potenza fa o non fa è prodotto dalla struttura del linguaggio. Come dicevo prima, non c’è modo di evitare la volontà di potenza se non cessando di parlare, cioè, togliendo il linguaggio. È il linguaggio che costruisce questa cosa che Nietzsche ha chiamato volontà di potenza, e cioè costruisce la necessità di assemblare delle proposizioni in modo tale che concludano in un certo modo, in un modo che la proposizione riconosca come vero, non contraddittorio con la premessa da cui è partita, non può affermare di sé di essere e di non essere, come già Parmenide aveva pensato. Questa non è una cosa che sia da evitare, semplicemente viola le regole del linguaggio. Tutto qui. Sarebbe come dire che il re di fiori vale anche la donna di quadri e l’asso di cuori. Non è che questa cosa qui sia il male, semplicemente viola le regole del gioco del poker, per cui cesso di giocare a poker. Esattamente come se violassi le regole del linguaggio, cesso di parlare, non posso più farlo. È solo questo il problema, non c’è nessun male o altre cose strane.