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16-7-2014

 

Questa sera leggeremo un articolo di Umberto Eco nel quale dice qual è la sua posizione nei confronti della semiotica, che è ciò che a noi interessa. È un testo del ‘94, dunque dice è giunto il momento di chiedersi se la semiotica sia una scienza, una disciplina particolare col proprio metodo, o una confederazioni di ricerche con poca connessione tra loro, sarei d’accordo nel definire la semiotica per lo studio della semiosi in tutte le sue forme – cioè la significazione - la semiosi è un processo che si trova a molti livelli ogni qual volta qualcosa sta al posto di qualche cos’altro sotto qualche rispetto o capacità, questo stabilisce un rapporto tra un segno, il proprio oggetto e il proprio interpretante come avrebbe detto Peirce –magari un giorno leggeremo qualcosa. Dice che nel suo scritto - “Semiotica e filosofia del linguaggio” dell’ 84 - asserivo che la semiotica come disciplina pone il proprio oggetto anziché trovarlo come un dato, allo stesso titolo per esempio la fisica pone i concetti di atomo, forza, inerzia, tempo eccetera e la zoologia non potrebbe decidere se l’organismo è o no di sua competenza senza porre un concetto di organismo animale, ora dice - che è facile asserire che esiste per esempio una storia della letteratura spagnola, pensate invece all’imbarazzo di una disciplina come l’estetica al di là del settore tutto sommato impreciso di quelle che gli umani presentano come opere d’arte, pare che gli umani denuncino esperienze estetiche nei casi più disparati, di fronte a un tramonto, a una rana, a un cibo, a un altro essere umano spesso per altri di dubbia bellezza magari e dicono “belli” dei sentimenti, dei ragionamenti matematici o l’esperienza del divino, l’unica decisione empiricamente giustificabile sarebbe accettare come oggetto di una teoria estetica tutte le esperienze rispetto alle quali gli esseri umani pronunciano la parola “bello”, ammesso e non concesso che i suoi equivalenti in ogni lingua siano sinonimicamente tali, ma accade che gli esseri umani non pronuncino questa parola di fronte a esperienze che molti definirebbero come estetiche o la pronunciano in situazioni che nessuna teoria estetica esistente troverebbe adeguate – questo per dirci intanto il problema della definizione di semiotica cioè qual è l’oggetto della semiotica, qual è l’oggetto anche dell’insegnamento della semiotica cioè in termini più precisi sarebbe il “matema” cioè l’oggetto dell’insegnamento – e ora veniamo alla semiotica per il laico – lui distingue fra il laico e il chierico. Il laico sarebbe quello che non si occupa di semiotica, il chierico invece il semiotico di professione. – per il laico può apparire sovente incongruo che si trovino riuniti sotto la stessa egida studiosi che parlano delle strutture sintattiche dello swahili e altri che analizzano la direzione di uno sguardo in un quadro del rinascimento eccetera, e non solo il laico ma anche il chierico talora si chiede se la semiotica debba occuparsi oltre che dei processi comunicativi intenzionali anche di quelli nel corso dei quali si tratta di un sintomo naturale come se fosse intenzionalmente emesso a fini comunicativi – qui si chiede se c’è qualche cosa fuori dal linguaggio, e cioè se la semiotica debba occuparsi anche di cose che sono fuori dal linguaggio, per lui è così, in effetti considera un sintomo naturale un qualche cosa che non fa parte del linguaggio ma della quale cosa la semiotica comunque deve occuparsi. - tuttavia potremmo enunciare alcuni principi che non ritengo indispensabile riassumere in questa sede eccetera, ci provengano da De Saussure, da Hjelmslev o da altri, questi principi permettono a chi si dice semiotico di asserire che esso vede un fenomeno empiricamente verificabile comune a molti fenomeni al di là di moltissime evidentissime differenze, il semiologo è colui che si lascia incuriosire dal fatto che per lo meno gli esseri umani usano fonazioni, gesti, oggetti naturali o artificiali per riferirsi ad altri fenomeni che non sono percepibili durante quella interazione specifica eccetera – questa è una prerogativa che si attribuisce da sempre agli umani, e cioè parlare di cose che sono in “assenza”, questa cosa gli animali non la possano fare, riferirsi a qualche cosa che non c’è. Ora l’obiezione più comune è quella delle api che fanno la famosa danza per indicare in effetti qualche cosa che non è presente ma non è proprio così, in effetti comunicano semplicemente delle coordinate, non parlano di quella cosa che non c’è, danno delle coordinate in modo che altri possano, seguendo queste coordinate, reperire quello che loro cercano ma non c’è un dire in “absentia” di qualche cosa, né la possibilità di agire differentemente, questo solo gli umani possono farlo. Proprio perché posseggono dei segni e attraverso un segno possono rinviare a una cosa che può anche non essere presente - esiste una semiotica generale che non può e non intende investigare in meccanismi di funzionamento di specifici processi di semiosi – quando si parla di processi di semiosi si intende sempre e soltanto processi di significazione cioè di produzione di significato - questa semiotica generale ha per scopo di mostrare la fondamentale unità di esperienze per altri versi assai diverse, per quanto generalissimo sia il suo punto di vista e lontano l’obiettivo con cui mette a fuoco i dati molteplici delle nostre varie esperienze. Questa semiotica generale è una branca della filosofia o meglio è la filosofia intera in quanto impegnata a riflettere sui problemi della semiosi. - La sua posizione in effetti, quella di Eco, è che qualunque cosa sia meno importante della semiotica, la semiotica è quella scienza generale la quale trova i significati di tutte le altre discipline, il problema dice: – se si accetta la mia definizione di semiotica generale come riflessione filosofica sul fenomeno della semiosi ci si può legittimamente chiedere in che cosa una semiotica generale differisca da una filosofia del linguaggio. Qualsiasi teoria generale dei sistemi di segni che si ponesse come grammatica generale o universale sarebbe una grammatica nella misura in cui, pur riducendo le proprie categorie ad alcune ascisse generali che si presumono presenti in ogni sistema di segni, tentasse di articolare queste categorie in un sovra sistema che voglia rendere ragione del perché i vari sistemi di segni funzionano in un certo modo – questo è il motivo per cui lui ritiene che la semiotica sia quella disciplina al di sopra di tutte le altre perché è quella che fornisce la grammatica per intendere il funzionamento, la struttura di qualunque altra – in tal senso la filosofia del linguaggio assumerebbe come date le ricerche delle grammatiche – quindi sarebbe a posteriori – darebbe per definite le grammatiche e rifletterebbe sull’uomo in quanto usa, costruisce e trasforma le grammatiche onde parlare dell’universo – quando parla di “grammatiche” parla di semiotica – in tal senso problemi come quello dell’origine del linguaggio, perché è una filosofia del linguaggio anche quella di Vico o della valutazione del loro uso in termini vero funzionali, sfuggirebbe alla presa delle grammatiche e cadrebbe sotto l’egida di una filosofia del linguaggio, se quella di Heidegger è una filosofia del linguaggio – essa costituisce l’esempio principe di una filosofia del linguaggio che ignora ogni problema grammaticale e quando lo sfiora almeno a livello etimologico si permette licenze che avrebbero scandalizzato Isidoro di Siviglia per ragioni storiche la semiotica contemporanea sarebbe invece anzitutto come “grammatica”, vuoi come grammatica universale, vuoi come confederazione di grammatiche specifiche, è indubbio che così sia avvenuto con la semiotica strutturale lungo le linee che da De Saussure fino a Hjelmslev, va su fino a Barthes, Roland Barthes che ha tentato persino una grammatica “della moda” in quanto descritta o della “cucina giapponese” – cioè la semiotica, come vedete ha il compito di occuparsi di qualunque cosa gli umani facciano o non facciano, questo sempre secondo Eco, – quella di Levy Strauss è una grammatica dei “rapporti parentali” e per questo ha avuto tanto influenza sullo sviluppo della semiotica strutturale, Greimas nasce come lessicografo e fonda una grammatica persino troppo rigorosa della generazione di discorsi narrativi. Peirce è tuttavia l’esempio di come la distinzione tra indagine filosofica e indagine grammaticale non sia così netta, se si ricostruisce una storia della semiotica, come storia delle varie dottrine dei vari tipi di segni, è possibile separare il momento grammaticale da un momento filosofico in Aristotele o negli Stoici? ritengo dunque che esistano delle semiotiche specifiche che sono appunto quelle che ho chiamato “grammatiche” di un particolare sistema di segni – quindi anche la “moda” è un sistema di segni quindi ha una grammatica e cioè un insieme di regole che determinano il modo in cui degli elementi si connettono fra loro, “c’è un modo” la grammatica dice questo, infatti senza grammatica non è possibile costruire proposizioni provviste di senso - che molte di queste grammatiche hanno sempre una componente descrittiva, talora una componente prescrittiva e in qualche misura una componente predittiva almeno in senso statistico, in quanto dovrebbero essere in grado di prevedere come in circostanze normali l’utente di un dato sistema genererebbe o interpreterebbe messaggi emessi secondo le regole di quel sistema – qui incomincia a dire un po’ di che cosa si occupa la semiotica, cioè ha una componente descrittiva, cioè descrive come funzionano le cose, come funziona il significato, come si produce eccetera, quella prescrittiva dice come bisogna fare perché una cosa abbia un senso, e poi predittiva perché in effetti se si conoscono le regole di un gioco si può prevedere grosso modo come andrà quel gioco. – questa semiotica generale torno a dire è una branca della filosofia o meglio la filosofia intera in quanto impegnata a riflettere su problema della semiosi – cioè per lui l’intera filosofia non fa altro che questo, è un sistema il cui unico obiettivo è quello di stabilire qual è la produzione di significato, come si produce il significato, non tanto che cos’è un significato, questo lo vedremo tra poco, ma come accade che certe cose, certe parole, certi enunciati abbiano un senso. – Credo che si possa individuare in due tratti che distinguono l’impresa semiotica da quella di altre filosofie del linguaggio, – qui vuole tenere separate la semiotica e la filosofia del linguaggio – esse sono primo: la decisione di generalizzare le proprie categorie in modo da portarle e definire non solo le lingue naturali o i linguaggi formalizzati ma ogni forma espressiva anche le meno grammaticalizzabili, anche i processi aurorali di grammaticalizzazione, anche le operazioni di sgrammaticalizzazione di un linguaggio ideato, anche i fenomeni che non appaiono intenzionalmente prodotti a fini espressivi ma che si pongono all’origine di un’inferenza interpretativa – sta dicendo che la differenza fondamentale, almeno la prima che coglie è che nei linguaggi di scienze naturali o nei linguaggi formalizzati questi escludono dalla loro ricerca una quantità enorme di operazioni che sono quelle che intervengono per esempio in certi romanzi, in certi scritti ma anche nel parlare comune,  operazioni che possono intervenire a scopo ludico per esempio, per giocare con le parole, per fare finta di non conoscere l’uso dei congiuntivi, anche questo ha una funzione all’interno di un gioco, tutte queste operazioni, dice lui, sono al di fuori della competenza di una filosofia del linguaggio – ma il secondo punto l’esigenza, la vocazione costante di trarre le proprie generalizzazioni dall’esperienza delle grammatiche al punto tale che la riflessione filosofica si intreccia strettamente con la descrizione grammaticale, questa esigenza di generalizzazione porta ad un certo punto alla grammatica – perché oltre alla grammatica non è più possibile generalizzare, cioè non è più possibile andare oltre, ciò che consente la costruzione, la grammatica appunto di qualunque proposizione, di qualunque tipo si voglia, senza una grammatica non è possibile costruirla, questo sarebbe il punto di arrivo, e questo, dice lui, è ciò di cui si occupa la semiotica e non la filosofia del linguaggio, però – se dunque questa unità di campo potenzialmente esiste – quella del linguaggio e la sua grammatica posta in termini differenti fra semiotica e filosofia del linguaggio – pur tuttavia credo possa essere tracciata una via di demarcazione fra studi semiotici e studi di filosofia del linguaggio, intenderei la linea di demarcazione come la soglia da cui si diramano due tendenze opposte, tali che ciascuno dei due orientamenti potrebbe trarre stimoli … la semiotica di derivazione linguistica strutturale ha sofferto a lungo di due restrizioni, l’una è stata la stretta dipendenza da una grammatica specifica cioè quella linguistica, la seconda è l’attenzione alle lingue che possono essere verbali o no in quanto sistemi - questi sono, secondo lui, i limiti della linguistica strutturale, di fatto potrebbero anche essere considerati come pregi, il fatto che una lingua possa essere considerata una struttura quindi considerando altre lingue per esempio – ritengo che spesso la filosofia del linguaggio di origine analitica nell’ esercitarsi su enunciati e sulle loro condizioni di verità o di uso, perda di vista il fatto che a legittimare questi enunciati c’ è un sistema. – Qui c’è una questione, non so se ve ne siete accorti, perché il secondo limite che lui attribuisce alla semiotica strutturale ha detto esplicitamente “l’attenzione alle lingue in quanto sistemi” ora qui dopo pochissime righe dice della filosofia analitica “perde di vista il fatto che a legittimare questi enunciati c’è un sistema” – d’altra parte questo “vizio” potrebbe essere rimproverato anche alla semiotica peirceana, tuttavia ammetto che l’attenzione esasperata al momento del “sistema” poteva distogliere dai fenomeni di “processo”, non è vero del tutto perché anche i filosofi analitici potrebbero leggersi o rileggersi con gran profitto gli scritti di un linguista come Benveniste eccetera – per altro è un’accusa alla semiotica strutturale falsa, perché per esempio Greimas ha posto tantissima attenzione al “sistema” e al “processo” infatti li pone su due registri differenti “sistema/processo” il sistema linguistico cioè la Lingua e poi la sua esecuzione, che sono due cose diverse – a voler generalizzare le semiotiche di origine strutturalista analizzavano di preferenza anche a livello semantico sistemi di termini mentre i filosofi del linguaggio di derivazione analitica analizzavano enunciati … tra gli strutturalisti d’origine mi pare che il primo che in Italia che abbia deciso che l’unità significativa non è il termine ma l’enunciato, sia proprio De Mauro ma è inutile nascondersi che da un lato c’è una tradizione che si chiede se faccia parte del termine “cane” il tratto “animale”, dall’altro quella per cui il problema è se sia vero che i cani sono animali, il primo è un problema di semiotica strutturale il secondo di filosofia del linguaggio, credo che sia venuto il momento di superare questa apparente differenza … non so più se attribuire alla parte dei filosofi del linguaggio quella di grammatici quindi di primi semiotici l’attenzione alle grammatiche casuali ma è certo che la decisione di risolvere il composizionalismo in un caso di grammatica alle sue origini nella linguistica di Tesnières, nella critica letteraria di Kenneth Burke e nella semantica attanziale, nella linguistica testuale nella narratologia, è da lamentare che Greimas abbia costruito un’intera teoria delle modalità ignorando l’intera logica modale nel suo complesso … - È possibile che Greimas non conoscesse la logica modale, quella che incomincia a formularsi con i Secondi Analitici di Aristotele e poi arrivando a Lukasiewicz e tanti altri – allora c’è un libro che sin dalla sua prima apparizione mi è sembrato colmare un primo iato tra tematiche della filosofia del linguaggio e tematiche semiotiche – la filosofia del linguaggio non si occupa del sistema che sta alla base di tutto quanto come invece fa la semiotica – il merito del libro non è solo quello più evidente di avere impiegato l’esperienza eccetera è il tentativo di costruire categorie semiotiche adeguate là dove le categorie logiche e linguistiche non davano ragione di alcune differenze fondamentali e penso alle pagine sui campioni e le esemplificazioni o sulla differenza tra arti autografiche e arti allografiche, quando Goodman si domanda se un quadro di tonalità grigia che rappresenta un paesaggio, e che certamente denota un paesaggio, denoti la proprietà della “grigezza” o sia denotato dal predicato “grigio” non dice nulla sul significato che il color grigio di quel quadro può assumere per chi lo guarda, cerca soltanto di rendere un fenomeno di comunicazione visiva “catturabile” in termini linguistici – perché questo fa la semiotica delle arti visive cioè traduce effetti visivi in proposizioni – quando si domanda se un oggetto rosso esemplifichi la proprietà della “rossezza” o esemplifichi il predicato “rosso” o se esemplifichi il denotato di quello stesso predicato non ci dice nulla sulla funzione significante che nel corso di un film un oggetto rosso acquista per chi ha assistito qualche istante prima in una scena sanguinosa – che è una cosa molto banale, in effetti sta soltanto dicendo che non basta la ricerca dei termini, ma questo termine non ha un suo significato particolare finché non è inserito all’interno di un contesto, che è esattamente quello che diceva Greimas – poi un altro tizio che lui cita Omar Calabrese La sintassi della vertigine. Sguardi, specchi e ritratti. Le categorie messe in gioco al di là della problematica della rassomiglianza sono per esempio opposizioni concernenti il taglio dell’inquadratura, la posizione delle mani, il rapporto tra figura e spazio fondo, direzione dello sguardo e di conseguenza il rapporto tra un ritratto che mostra di sapere di essere guardato dallo spettatore e un altro il cui personaggio guarda qualcosa ma non guardo lo spettatore e così via – tutti questi dettagli, questi aspetti sono tutte quelle cose di cui la semiotica dell’arte, diciamo molto semplicemente, si occupa. Si occupa di vedere come un certo personaggio è raffigurato, chi sta guardando, come lo sta guardando, cosa significa quello sguardo eccetera. Questa particolare semiotica in effetti potrebbe essere molto facilmente riconducibile alla semiotica di cui parla Greimas: qualunque cosa voi vediate, un quadro per esempio, è ovviamente un’immagine, e questa immagine è tale per voi che la guardate perché funziona come un segno, cioè rinvia a qualche altra cosa, rinviando a qualche altra cosa avvia il processo di semiosi, cioè di significato, fino a giungere a che cosa quell’immagine dice a voi ,cioè che cosa vi dice quell’immagine mentre la state guardando. La questione che molti ignorano o non prendono nella dovuta considerazione è che senza qualcuno che guardi questo quadro, il quadro di per sé non ha nessun significato, così come per chi lo ha dipinto, ha dipinto questa cosa perché aveva un’idea, l’ha rappresentata più o meno bene, è irrilevante, su una tela in modo tale che questa riproduzione della tela potesse riprodurre un’idea che lui aveva in mente, una scena che lui si era fatto, questa scena che si era fatto ovviamente procede da delle sue fantasie, da delle sue idee, dai suoi pensieri eccetera, in ogni caso sia per chi produce l’opera, sia per chi ne usufruisce, l’opera in quanto tale, questo è uno degli insegnamenti più importanti di Greimas, fuori da un contesto in cui è inserita, così come ciascuna parola, non significa niente, non è niente letteralmente, per cui è ovvio che ciò che è rappresentato, a seconda del modo in cui è rappresentato, produrrà quelle cose che si chiamano “sensazioni”. Una sensazione non è altro che ciò che una certa immagine rilascia agganciandosi con altre fantasie, pensieri, immagini, cioè con tutto ciò che la persona è di fatto, produce per lui un processo di semiosi e alla fine il prodotto finale è appunto che cosa quel quadro rappresenta per lui. È chiaro che è una cosa soggettiva, anche se potremmo dire che non è soggettivo il fatto che in un quadro ci sia, prendiamo, la madonna con bambino, ma questo è un accordo che ciascuno è stato avvezzo a pensare attraverso la propria istruzione, soprattutto cristiana, cattolica eccetera che quella certa immagine rinvia a una certa cosa, ecco dice: –il libro di Goodman rappresenta uno degli sforzi più interessanti per gettare un ponte fra teoria del riferimento e teoria della rappresentazione visiva – cioè la teoria del riferimento non è nient’altro che una teoria che immagina che a una parola corrisponda la cosa e cioè che la parola “accendisigari” corrisponda a un oggetto, questa è la teoria del riferimento in modo molto spiccio, mentre la teoria che lui mette in contrapposizione alla teoria del riferimento è quella della rappresentazione visiva, e cioè che cosa ciascuna volta una persona che si rappresenta: da una parte la parola indica l’oggetto, dall’altra la parola è un’interpretazione dell’oggetto, e sono due cose diverse. Lui qui in effetti non prende ancora nessuna posizione, semplicemente si limita a riportare cose che hanno detto altri, poi un ultima questione, quella dell’indicalità, cioè della deissi. L’indicalità è quel processo attraverso il quale una persona può indicare un qualche cosa che non è la persona, – uno dei fenomeni semiosici che ha sempre imbarazzato i sostenitori di una semiotica non unicamente referenziale è stato il problema degli indici, tutti gli altri tipi di segno sembrano rinviare a qualche cosa che normalmente non è presente – lui si riferisce adesso alla posizione di Jakobson che indica nel segno tre elementi: il simbolo, l’indice e l’icona. Il simbolo è qualche cosa che viene utilizzato di comune accordo ma che non ha nulla a che fare con il rappresentato come la bandiera italiana, il bianco rosso e verde non ha a che fare con l’Italia in quanto tale, è un simbolo, una convenzione, poi c’è l’icona che ha una relazione diretta con il rappresentato, per esempio la famosa madonna con il bambino, rappresenta un qualche cosa di preciso che non è presente lì sul momento però lo rappresenta, rappresenta la cosa, e poi alla fine c’è l’indice, dice Eco che l’indice è la cosa più complicata perché indica un qualche cosa che non è presente propriamente ma lo rinvia, un indice è un segnale stradale: una freccia che va all’insù indica un senso unico per esempio, ora lui dice che l’indice, l’indicalità comporta un problema. Dice che lui ha tentato di svincolare gli indici dalla connessione, che secondo lui altri hanno, necessaria con il referente, con la “cosa” il referente è la cosa, – nel Trattato di semiotica generale ho cercato di dimostrare che finché noi comprendiamo come usare i deittici, gli indicatori, sia quelli fisici come il dito o la bacchetta puntata occorre che il significante sia già correlato in linea di principio con un suo significato indipendente dal contesto, – infatti se voi provate ad indicare con il vostro dito una certa direzione a un cane, prendete un cane e “guarda laggiù” lui guarderà il dito, guarda il dito perché immagina contenga qualcosa da mangiare, in genere funziona così, ma non guarderà nella direzione perché non “sa”, nel senso che nessuno glielo ha insegnato ed è molto complicato insegnarglielo, perché il dito ha una funzione indicale e cioè indica qualche cosa che non è presente nel dito, è questo che sta dicendo – capisco che cosa indica un “questo” anaforico, il “questo” sarebbe il pronome personale per esempio, anaforico, l’“anafora” è una figura sia grammaticale che retorica, è qualcosa che retoricamente viene detta prima di quando si dovrebbe comunemente, invece linguisticamente l’ anafora non è nient’altro che un qualche cosa che, prima di una proposizione, sta al posto di un discorso che simboleggia “ieri sera ho comperato il formaggio, poi questo, poi questo, poi questo”, il “questo” ha funzione anaforica in quanto prende rispetto a ciò che segue la funzione di ciò che è stato esplicitato prima.– con tutto ciò non si può evitare di rimanere affascinati dal mistero dell’atto indicale – perché sia un mistero non si sa, – atto indicale è quello attraverso il quale la mamma risponde al bambino che chiede il significato della parola “mela” e sembra che esso preceda ogni convenzione semiotica, tanto che con alcuni rischi ben noti in letteratura può essere usato anche da due persone che ignorano l’una la lingua dell’altro per tentare avventurosamente un processo di apprendimento e traduzione – Qui il problema si fa complicato, perché lui dell’atto indicale ne parla come qualcosa di misterioso, la mamma che dice al bambino “questa è la mela” con il dito che poggia sulla mela e il bambino capisce che cosa? Pare che Eco nonostante sia una persona di una cultura vastissima ignori tutto ciò che la filosofia analitica ha elaborato proprio in relazione a questo e anche in buona parte la cibernetica (la scienza dell’intelligenza artificiale) – è vero che nell’apprendere per indicazione avvengono due fenomeni squisitamente semiotici da un lato l’informato deve essere capace di assumere che il referente indicato stia per una classe più ampia di cui è membro,– cioè il bambino deve capire che la mela che la mamma gli indica diventa un segno per tutte le mele anche assai diverse da quella, che egli dovrà riconoscere e nominare in futuro – dall’altro deve comprendere che l’atto indicale punta su quell’oggetto, devo aver appreso e apprendere per tentativo ed errore che esso è appunto un atto indicale – La questione qui per un verso è molto più semplice di quanto la pone Eco, dice che il bambino deve capire che la mela diventa un universale, cioè diventa il simbolo di tutte le mele, non solo quella mela, ma questo lo apprende dopo, lo apprende in base a che cosa? Alle informazioni che gli vengono fornite vedendo che di volta in volta c’è una certa prossimità tra questa mela, magari una è rossa, una è gialla e l’altra verde quindi sono colori differenti anche se la forma è grosso modo simile, ma può essere anche abbastanza differente quindi deve, per compiere correttamente quella operazione, avere acquisito una serie di informazioni che non hanno nulla né di magico, né di strano, semplicemente è un’acquisizione di informazioni che anche una macchina può apprendere. Una macchina può apprendere e riconoscere un viso, ci sono programmi oggi, abbastanza evoluti ma poi con gli anni la cosa diventerà assolutamente molto più elaborata, i programmi di riconoscimento facciale per cui una macchina riconosce una faccia da che cosa? Dai tratti ovviamente, dal colore e probabilmente riesce a riconoscerla con maggiore precisione di quanto possa fare l’occhio umano che a una certa distanza inizia a confondere tutto, non sa più se è una persona, un automobile (nella fotografia si può dare l’indicazione alla macchina di scegliere una determinata persona) questo è interessante perché questa operazione che cos’ha di così differente dall’indicare qualche cosa? Non uso l’indice però potrei anche farlo sugli schermi touch screen, quelli che si toccano e fanno tutto loro, allora io indico e la macchina in base a questo “toccare”, quindi questo indicare fa esattamente quello che deve fare, cosa che un animale per esempio non potrà mai fare. Questo per dire che il processo dell’indicalità può essere inteso in modo molto più semplice da come lo pone Eco e le domande che lui si pone hanno già avuto risposta tanto dai sistemi informatici ma anche dalla stessa filosofia del linguaggio: in fondo imparare che questo dito che fa così, indica qualche cosa, è un qualche cosa che si apprende come qualunque altra cosa, come si apprende a imparare a leggere l’orologio, come si impara a sapere che la brace brucia se accesa, tutte queste cose vengono imparate dalla persona mano a mano sempre in modo più elaborato, sempre più complesso man mano che il suo sistema di informazioni viene implementato da altre informazioni cioè si aggiungono altre informazioni, e la cosa diventa straordinariamente semplice, tant’è appunto che viene fatta dalle macchine allo stesso modo, e anche meglio – e tuttavia l’atto dell’indicazione con la sua fusione di suoni o gesti che urtano contro un oggetto del mondo … (…) con la sua forza e la sua vivenza che ne rendono l’effetto e l’appello simile a quello dello stimolo dell’onda olfattiva che colpisce le narici dell’animale e lo conduce ciecamente verso la preda /…/ l’atto indicale è un fenomeno di grande complessità che coinvolge fenomeni senso motori, processi percettivi, un embrione di reazione passionale e celebra il trionfo di una presenza che nessuna semiotica anti referenziale comprese quelle che vedono la “differanza” a fondamento stesso di ogni fenomeno mentale possono negare. – la “differanza” sì l’ha scritto così perché in italiano non si può tradurre, è un concetto tratto da Derrida, un filosofo francese che si è molto dato da fare sul linguaggio soprattutto a partire da De Saussure. Il concetto di “difference” viene dal fatto che fra un significato e un significante nello schema di De Saussure c’è una barra, una barra che è la barra della differenza perché in realtà il significante non è mai il significato e il significato non è mai il significante, però questa barra per lui non è la funzione di rimozione come voleva Lacan ma qualche cosa che impone una spaziatura, una spaziatura vuota tra l’una cosa e l’altra, un vuoto che è incolmabile per lui, è incolmabile e indicibile tanto che la parola francese “difference” la scrive “differance” per indicare che entrambe le parole in francese si pronunciano esattamente alla stessa maniera ma sono scritte in modo differente, con questa “a” al posto della “e” indica che si tratta sì di una differenza ma di una differenza che non è percepibile, non è colmabile, non gestibile è una differenza assoluta, non è rappresentabile in nessun modo. – coinvolge fenomeni senso motori, processi percettivi…- beh sì certo, sono coinvolte varie cose, anche una macchina coinvolge nell’esecuzione di un programma l’hardware. Quando per esempio mettiamo un programma, un dischetto nel lettore, la macchina, il computer, riconosce che è un programma lo scarica e fa tutto quello che deve fare, ma per potere fare questo occorre che ci sia un qualche cosa, in questo caso la scheda madre che riconosce che quella cosa che è stata messa dentro è un dischetto, questo dischetto contiene un programma, che questo programma deve essere installato e dopo averlo installato eseguito. Tutto queste cose chi gliele dice? Come le sa? Infatti se mettete una frittella dentro il lettore lui non la vede come un cd e non scarica niente, non fa nulla, si unge e basta. Aggiunge ancora, siamo alla fine: –credo che possa esistere, come esiste una semiotica specifica che studia la grammatica degli indici in una data cultura senza porsi come problema il primitivo psicobiologico dell’atto indicale –- per lui questo “atto indicale” è qualche cosa addirittura prelinguistico perché se lui lo pone come psicobiologico, lo pone come fuori dal linguaggio, è qualche cosa che avviene naturalmente e credo che una semiotica filosofica debba riflettere sul mistero dell’atto indicale ma debba nel contempo decidere che il suo compito specifico è studiare come dal fenomeno originario dell’atto indicale nasce la pratica intenzionale dell’indicazione e l’articolazione dei sistemi di indici – cioè prima esiste l’atto indicale, dopo di che a questo punto è possibile incominciare a riflettere sull’articolazione dei sistemi che vengono studiati per indicare come nasca la pratica intenzionale, cioè come accade che qualcuno abbia l’intenzione di indicare con un dito, ma sempre a partire dall’idea che questo atto sia primigenio, sia cioè fuori dal linguaggio. – il fenomeno originario dell’atto indicale di cui si può certo filosofare è però competenza di qualche altra indagine cognitiva la quale deve spiegare come nel nostro cervello e nel nostro corpo stiano inscritte nel nostro patrimonio genetico le condizioni massimali dell’indicalizzazione. – Quando non si ha più la capacità di procedere nell’analisi e nella riflessione teorica allora ci si aggrappa alla natura, al cervello, alle disposizioni neuronali e a tutte queste cose, cose che per esempio in Greimas sono totalmente assenti, perché sono assenti in Greimas? Perché per lui tutto ciò che accade agli umani, accade a livello linguistico, è una relazione segnica fra parole, un qualche cosa che rinvia continuamente ad altro e in questo rinvio lui ravvede, a mio avviso legittimamente, il mondo stesso creato dagli umani. Perché andare a cercare dentro il cervello o dentro i neuroni costituisce teoricamente un problema? Al giorno d’oggi è una via piuttosto praticata, supponiamo che le teorie cognitive abbiano un fondamento biologico nella struttura del cervello, dove andare a cercare? Nei neuroni? Sì, è quello che stanno facendo, facendo delle tac nel cervello per vedere quale area si illumina, immaginando che siccome si è illuminata una certa area allora quella è responsabile (ma questo è superato, sentivo alla radio parlare proprio di questo da degli informatici, proprio per queste questioni delle luci che si accendono ) che non significa assolutamente niente perché ogni tanto si accorgono che queste luci si accendono anche quando qualcuno si accende una sigaretta, e poi andare a cercare dentro al neurone, cosa c’è dentro al neurone? Come sapete i neuroni sono interruttori che fanno passare o non fanno passare corrente, sono delle cellule una parte di input e una parte di output, e un nucleo centrale: arriva un’informazione, se questa informazione supera una certa soglia elettrica allora passa dall’altra parte e si trasforma in output e cioè viene restituita, esattamente come un interruttore appunto, quando entrate in cucina e premete l’interruttore fa passare corrente, se lo premete in un modo, se lo premete in un altro interrompe il flusso di corrente e rimanete al buio. Un neurone fa esattamente questo. Cosa c’è dentro il neurone? C’è la cellula che è fatta in un certo modo, e di che cosa è fatta? Di atomi naturalmente, e tutti questi atomi sono fatti di un nucleo centrale e di elettroni che gli stanno intorno e via di seguito. Dunque questa “conoscenza” dove dobbiamo cercarla, dentro gli atomi? O dentro gli elettroni? Perché se dobbiamo proseguire lungo questa via è lì andiamo a parare. Immaginare che lì ci sia la risposta alla conoscenza o addirittura alla intelligenza è una fantasia fra le più bizzarre che si possono immaginare, è come immaginare che il vostro interruttore della cucina sia intelligente perché quando lo premete accende la luce. Fa quello che deve fare, fa passare corrente oppure la interrompe, non fa nient’altro che questo, è un interruttore. Dentro il vostro computer c’è un processore grande come una scatola di fiammiferi, dentro il processore ci sono dei circuiti che sono molto piccoli e sono milioni, questi circuiti funzionano esattamente come degli interruttori, cioè possono bloccare oppure fare passare la corrente, se passa la corrente allora procede e va altrove, se no si blocca: 0/1, sono sistemi binari , 0, la porta si chiude, 1, la porta si apre. Tutto questo per dire che ignorando la struttura e il funzionamento del linguaggio o non volendone sapere, perché può accadere anche questo, l’unica soluzione a questo punto è rivolgersi verso le neuroscienze, che fanno il loro lavoro e per certi versi posso essere anche interessanti, certo, ma l’idea che sia possibile reperire all’interno del funzionamento del cervello l’intelligenza, la capacità di pensare, addirittura la creatività tutto questo è una follia. Il cervello è un supporto, fatto esattamente come un computer, di fili elettrici e interruttori, nient’altro che questo (allora il cervello potrebbe essere l’hardware e il linguaggio il software?) è un modo per raffigurarsi la cosa. Ma se noi al posto del cervello mettiamo una mela e gli attacchiamo dei fili non succede niente, non pensa quella mela, così come al computer se togliamo il processore e ci mettiamo una noce non funziona più niente, si ferma tutto perché non può più calcolare, ma che cosa è importante? Certo quello è un supporto, l’hardware diceva giustamente, ma perché l’hardware faccia qualche cosa occorre che ci sia un software cioè programmi che girano, e il linguaggio è esattamente questo. Quando si insegna a qualcuno a parlare c’è un hardware, c’è un sistema che consente la possibilità che qualche cosa possa accadere, appunto attraverso trasferimenti di corrente elettrica, per cui un certo suono può imprimersi e rimanere così come un gesto eccetera, un suono, una parola per esempio si imprime quando questa parola supera una certa soglia, per questo deve essere ripetuta molte volte, questo è un problema per gli umani che riguarda l’apprendimento, per esempio per le macchine questo non avviene, basta immettere le informazioni e rimangono per sempre. Pensate quando uno deve preparare un esame all’università e quante volte deve leggersi il libro prima che gli rimanga qualche cosa in testa, una macchina potrebbe leggerlo in un nano secondo e ricordare tutto per sempre, perché è un sistema differente, quello umano è molto incerto e funziona così come funziona. Però ciò che a noi interessa è che cosa avviene nel momento in cui degli elementi incominciano a connettersi fra loro, cioè incomincia ad avviarsi quella cosa che chiamiamo linguaggio, che non è nient’altro che una rete di connessioni di elementi. Il linguaggio si può anche intendere in modo più preciso come un sistema di istruzioni, di input, che vengono forniti insieme a delle informazioni per poter usare questi input, informazioni e sistemi per usarle, per connetterle fra loro. Uno dei sistemi che gli umani hanno costruito è appunto la grammatica, è un sistema di connessione di informazioni, in modo da assemblarle in modo tale che possano costruire delle proposizioni, e un sistema che possa riconoscerle come proposizioni, e quindi usarle per costruire altre proposizioni. Questo detto nel modo più spiccio, però la questione centrale è come funziona il linguaggio e torno a dirvi che andare a cercare dentro i neuroni, i fili elettrici di cui è fatto il corpo umano mi pare un’idea tra le più squinternate, ma questo lo vedremo molto meglio in seguito.