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16 giugno 2021

 

Lezioni sulla storia della filosofia di G.W.F. Hegel

 

Ho pensato di considerare il percorso dei presocratici in generale. Di storie della filosofia ce ne sono tante, ma ciò che non c’è in una storia della filosofia è quella tensione intellettuale – ciò che i Greci chiamavano ρως – e che ha portato tra il VII e il V secolo a. C. alla costruzione del pensiero così come lo conosciamo. Sfogliando questa storia della filosofia di Hegel, mi sono accorto che ha letto questi autori presocratici in modo interessante. Anche se si tratta di una storia della filosofia, non fa propriamente una storia della filosofia, ma riesce a cogliere alcune delle questioni fondamentali, che sono quelle che a noi interessano, e cioè che cosa ha determinato effettivamente la costruzione di un pensiero. È chiaro che leggere i presocratici così come ha fatto Hegel non è una cosa da poco, nel senso che Hegel era comunque un lettore particolare. Questa lettura che facciamo con Hegel ci mostrerà gli elementi essenziali, quelli più importanti, che hanno caratterizzato questa serie di personaggi, da Talete, che è sempre stato considerato il primo dei filosofi, sino a Platone e ad Aristotele, perché la lettura di Hegel di Platone e di Aristotele è tutt’altro che banale. Ora, come introduzione, volevo leggervi alcune cose che non sono propriamente connesse con il nostro lavoro, ma sono interessanti per rendere conto di alcuni aspetti, e cioè del motivo per cui i tedeschi apprezzano molto di più il pensiero greco rispetto a quello romano. A pag. 167. Al nome Grecia l’uomo colto d’Europa, e specialmente il Tedesco, si sente a casa propria. Gli Europei hanno ricevuto da un paese un po’ più lontano della Grecia, dall’Oriente, e più precisamente dalla Siria, la loro religione, l’al di là, il lontano. Ma il qui, il presente, la scienza, l’arte, tutto ciò che mentre soddisfa il nostro spirito gli conferisce dignità e ornamento, noi sappiamo che ci è venuto dalla Grecia, o direttamente o indirettamente per il tramite dei Romani. Quest’ultima via rappresenta la prima forma con cui la civiltà greca pervenne a noi, anche per opera della Chiesa già universale, che come tale trae la sua origine da Roma, ne ha conservato fino ad oggi perfino la lingua dei Romani. Le fonti dell’insegnamento accanto al Vangelo latino sono stati i Padri della Chiesa; anche il nostro diritto vanta di attingere dal Romano il suo indirizzo più perfetto. La dura scorza germanica ci costrinse a sottostare al ferreo servizio della Chiesa e del diritto he ci venivano da Roma… E questo ai Tedeschi non è mai andato giù, non hanno mai digerito che Roma li avesse sottomessi. Cosa che la Grecia non ha mai potuto fare, naturalmente ma Roma sì. …ed esser tenuti al guinzaglio. Soltanto a questo patto il carattere europeo ha potuto diventar malleabile e suscettibile di libertà. Senonché, non appena l’umanità europea fu diventata padrona di sé ed ebbe preso ad osservare lì presente, la prima cosa che rigettò fu l’elemento storico, ciò che era di importazione straniera; allora l’uomo cominciò a essere a casa propria. Ma, per poterla godere, si risolse ai Greci: lasciamo alla Chiesa e alla giurisprudenza il loro latino e il loro romanismo; la più alta e libera scienza filosofica, come pure la nostra bella e libera arte e il gusto e l’amore di esse, noi sappiamo che hanno le loro radici nella vita greca, al cui spirito si sono abbeverate. Se fosse permesso avere una nostalgia, questa si volgerebbe a siffatto paese e alla sua civiltà. Noi ci troviamo tra i Greci come a casa nostra, per il fatto soprattutto he essi ci appaiono nel loro mondo come a casa loro; ci unisce il comune spirito di attaccamento alla patria. Incomincia, quindi, con Talete, che tradizionalmente si considera il primo tra i filosofi, primo cronologicamente, non come valore. A pag. 198. L’affermazione di Talete esser l’acqua l’assoluto o, come dicevano gli antichi, il principio segna l’inizio della filosofia perché in essa si manifesta la coscienza che l’essenza, la verità, ciò che solo è in sé e per sé, è una sola cosa. Qui Hegel già coglie la cosa importante: non è tanto il fatto dell’acqua o di qualche altro accidente, ma è la domanda intorno a quale fosse il principio primo. Si manifesta il distacco dal dato della percezione sensibile, l’uomo si ritrae da ciò che è immediatamente. Dobbiamo dimenticare di essere assuefatti a un ricco mondo di pensieri concreti. Da noi già il fanciullo ode che vi è in cielo un dio invisibile. Nella filosofia di Talete non si fanno ancora siffatte determinazioni perché il mondo dei pensieri è ancora da costruire e non v’è ancora alcuna unità pura. L’uomo ha di fronte a sé la natura, sotto forma di acqua, aria, terra, stelle, volte celesti, ecc., e a ciò limita il suo orizzonte rappresentativo. È vero che la fantasia ha i suoi dei, ma anche il suo contenuto è tratto dalla natura, giacché i Greci avevano considerato come potenze indipendenti il sole, i monti, la terra, il mare, e avevano venerati come dei. Con la fantasia avevano loro attribuito attività, movimento, coscienza, volontà. Lo svolgimento ulteriore della religione, quale si trova in Omero, è qualcosa che non può soddisfare il pensiero, giacché ci dà l’immagine di un mondo di semplici creazioni della fantasia, di uno sforzo universale infinito di crear vite e forme senza semplice unità. Questo si è incominciato a cercare: l’unità, il tutto. In questa mancanza di consapevolezza di un mondo intellettuale occorreva allo spirito una grande audacia per negar valore a questa immensa varietà d’esistenza del mondo naturale e ridurla a una sostanza semplice che, nella sua permanenza, non nasce né muore; mentre gli dei hanno pure una teogonia, hanno forme molteplici e sono soggetti a mutamenti. Con l’affermazione che quest’essere è l’acqua è messa a tacere la sbrigliata fantasia omerica infinitamente variopinta, vengono superati questa molteplicità infinita di principi frammentari, tutto questo modo di rappresentarsi il mondo, come se l’oggetto particolare sia una verità per sé stante, una potenza esistente per sé e indipendente al di sopra delle altre, e si ammette quindi che vi è un unico universale, ciò che è universalmente in sé e per sé. L’intuizione semplice è senza più elementi fantastici, il pensiero che soltanto l’uno è. Questo è l’inizio del pensiero, e cioè il cercare un qualche cosa che unifichi tutto il molteplice che i Greci avevano davanti agli occhi, infinite cose. Ma di queste infinite cose cominciarono a pensare che una dovesse essere la causa di tutte. A pag. 202. Trasformarsi ha un doppio significato: secondo l’esistenza e secondo il concetto. Qui si incomincia a distinguere tra le cose e il concetto, cioè il pensiero. Tenete conto che prima non c’era questa divisione. Orbene, quando a proposito degli antichi si parla di trasformazione, questa ordinariamente viene considerata secondo l’esistenza e, quindi, si indaga, per esempio, se l’acqua trattata chimicamente mediante il calore, la distillazione, ecc., possa diventar terra, e qui ha i suoi limiti la chimica finita. Invece, in tutte le filosofie antiche la trasformazione viene intesa secondo il concetto e il processo per cui l’acqua si trasforma in aria o spazio o tempo, non si verifica nelle storte, ma in ogni idea filosofica vediamo apparire questo passaggio da una proprietà all’altra, vale a dire si mostra intimo nesso nel concetto, per cui nessuna cosa può esistere indipendentemente dall’altra; anzi, la vita della natura consiste appunto nel processo di relazione in cui le cose stanno tra di loro. Questa fu una delle prime intuizioni degli antichi: ciascuna cosa è in relazione con un’altra. Come sono arrivati a questo? Sono arrivati attraverso la considerazione che ci sono, sì, le cose, ma c’è anche il pensiero di queste cose, il concetto. Da lì è sorta immediatamente la questione della relazione, che tutte le cose sono in relazione tra loro. È stata la prima cosa. Che poi sia stata abbandonata, questa è un’altra questione. A pag. 205. L’espressione che il magnete ha un’anima è sempre migliore dell’altra secondo cui esso possiede forza d’attrazione. Infatti, la forza è una specie di proprietà che si concepisce come un predicato separabile dalla materia, mentre l’anima è l’automovimento identico con la natura della materia. Senonché questa trovata di Talete resta isolata, senza alcun rapporto concreto con i suoi pensieri assoluti. Pertanto, la sua filosofia rimane effettivamente racchiusa in questi semplici momenti: α) l’aver compiuta l’astrazione di concepire comprensivamente la natura come un essere sensibile semplice (il tutto); β) l’aver posto il concetto del fondamento, vale a dire, determinato l’acqua come concetto infinito, come essenza semplice del pensiero, senza però darle altra determinazione che la differenza quantitativa. In ciò consiste l’importanza limitata del pensiero di Talete. Incominciare a pensare. E, allora, si incomincia a distinguere le cose dal mio pensiero. Però, ci si accorge già subito, immediatamente, che questa unità la si può trovare nel pensiero, non nelle cose, e quindi nel concetto. A pag. 206. Anassimandro, invece, dice così. Egli pose come principio dell’elemento l’infinito (τό απέιρον), che non definiva però né come aria né come acqua né come qualsiasi altra cosa del genere. Senonché le determinazioni di siffatto infinito sono assai poche: α) esso sarebbe il principio di ogni divenire e di ogni trapassare; da esso si originano a lunghi intervalli di tempo infiniti mondi e divinità e scompaiono poi di nuovo in esso. Come ragione per cui il principio va considerato come infinito, egli dava questa: che alla procreazione sempre in corso non poteva mancare la materia. Esso conterrebbe in sé tutto e tutto governerebbe e sarebbe divino e immortale ed eterno. Da questo Uno Anassimandro, come anche Empedocle e Anassagora, distingue i contrari che vi son contenuti, sicché in questo miscuglio tutto è bensì già pronto ma indeterminato, vale a dire che tutto vi è contenuto come possibilità reale. Sicché, dice Aristotele, non solo tutto nasce in maniera accidentale da ciò che non è, ma tutto nasce anche da ciò che è, giacché viene da ciò che è in potenza, che però non è ancora in atto. Qui c’è il pensiero di Aristotele, ovviamente. Diogene Laerzio aggiunge: le parti dell’infinito si mutano, ma esso stesso resta immobile. Finalmente è detto che l’infinito sarebbe tale come grandezza e non già come numero, e in ciò Anassimandro si distingue da Anassagora. Qual è il passaggio, qual è l’idea che sorge? Avevamo visto con Talete la ricerca dell’Uno, dell’elemento semplice che è tutto. Sì, dice Anassimandro, certo, è tutto, ma è infinito. L’Uno è Tutto: qui c’è già in parte Eraclito: “Tutto è uno”. Idea del finito e dell’infinito che era già presente, e come questi due elementi costituiscano insieme l’unità, cioè un elemento e il suo opposto. Qui, in effetti, possiamo vedere sul nascere – vedremo poi meglio nei frammenti di Diels-Krantz – come il pensiero sia già sorto, potremmo quasi dire, completo. Questo induceva Heidegger a dire che la filosofia nasce grande. Il pensiero era già tutto lì, il pensiero si era già posto come un qualche cosa che è a fianco di ciò che questo non è (dialettica hegeliana). Quindi, è come se, spostandosi dall’idea delle cose, dagli enti immanenti al pensiero, al concetto, si fosse già presentato il linguaggio con tutta la sua problematicità, anche se, certo, appena avvertita, però era già presente. A pag. 209. Siamo sempre ad Anassimandro. Questa sua idea che la Terra avrebbe una forma di un cilindro, la cui altezza sarebbe un terzo della larghezza. Nella generazione della Terra i due principi eternamente attivi del caldo e del freddo si separerebbero e, quindi, si sarebbero formate intorno all’aria che circonda la terra una sfera di fuoco come la corteccia intorno all’albero. /…/ Siffatta cosmogonia ha altrettanto valore quanto l’ipotesi geologica della corteccia terrestre andata in frantumi o l’esplosione del Sole immaginata da Buffon, il quale inversamente, prendendo le mosse dal Sole ne fa derivare i pianeti come altrettante scorie, mentre gli antichi inserivano il Sole nella nostra atmosfera e facevano originare il Sole dalla Terra. Noi, al contrario, facciamo del Sole la sostanza e la culla della Terra e stacchiamo le stelle da ogni rapporto con noi, considerandole estranee e indifferenti come le beate divinità di Epicuro. Sembra una fantasmagoria quella degli antichi, però, sembra intendere questo Hegel, che se ci si pensa bene non si è andati molto lontani, sono cambiati i nomi delle cose ma le idee fondamentali sono rimaste grosso modo quelle. A pag. 211. Qui si tratta di Anassimene. Plutarco espone più precisamente il modo con cui Anassimene si immaginava che dall’aria si generasse e in essa si dissolvesse ogni cosa, allo stesso modo che la nostra anima, che è aria, ci tiene uniti. Così anche uno spirito è aria e tiene insieme tutto il mondo: spirito e aria sono identici. Anassimene indica assai bene la natura della sua essenza riferendola all’anima e segna in tal modo, per così dire, la transizione dalla filosofia della natura a quella della coscienza. Fa intervenire l’anima. Tenete sempre presente che l’anima, la ψυχή per i Greci, ce l’ha mostrato molto bene Heidegger, non ha nulla a che fare con ciò che intendiamo comunemente con anima: l’anima non è altro che il rapportarsi all’essere. Senonché questo medium universale è appunto l’anima, una moltitudine di rappresentazioni che compaiono e scompaiono senza che cessi l’unità e la continuità. Essa è tanto attiva quanto passiva, suscitando dalla propria unità le rappresentazioni separatamente l’una dall’altra e superandole. Presente a se stessa nella sua infinità, sicché coincidono il significato negativo e positivo. Questa natura dell’essenza primitiva venne poi affermata più precisamente, non solo sotto forma di comparazione, da Anassagora, discepolo di Anassimene. Quindi, l’anima è ciò che fa coincidere il negativo e il positivo. In fondo era quello che Heidegger diceva della ψυχή. Però, in Anassimene è importante, dice Hegel, l’avere incominciato a considerare l’anima, quindi, non più qualche cosa di immanente, di esterno, le cose varie, glie enti, ma l’anima, cioè qualcosa di psichico, letteralmente. A pag. 213. Stiamo parlando sempre di Anassimene. Il principio deve essere unico e, quindi, deve avere in sé unità con se stesso. Dove appare varietà, come nel caso della Terra, non v’è più l’Uno con se stesso, ma il molteplice. Ecco quanto possiamo dire intorno alla filosofia degli antichi ioni. La grandezza di questi poveri pensieri astratti consiste: a) nell’avere essi concepito una sostanza universale in tutto; b) nell’averle negato ogni forma e nell’averla considerata inattingibile alla rappresentazione dei sensi. Questo è stato il passo fondamentale, decisivo, che ha consentito il passaggio dall’ente al pensiero. Ora siamo a Pitagora, sul quale Hegel si sofferma più a lungo. Pitagora è stato un punto importante del pensiero. A pag. 216. Ciò che ebbe realmente di singolare il genio e il tenore di vita di Pitagora, nonché il tenore di vita da lui insegnato ai discepoli, è stato congiunto con l’idea che egli sia stato un uomo che non procedette per le piane vie ordinarie, sebbene un taumaturgo che avesse commercio con esseri superiori. A lui si riallacciano tutte le rappresentazioni dei magi, miscugli di naturale e innaturale, misteri spacciati da fantasie torbide e miserevoli, dal fanatismo di gente che non ha la testa a posto. Al pari della sua biografia fu corrotta anche la sua filosofia, con cui fu collegato tutto ciò che la torbida immaginazione e l’allegorismo del cristianesimo hanno potuto escogitare. Qui c’è un’allusione al fatto che si è passati dalla figura di Pitagora come taumaturgo a quella di Gesù Cristo. Tutt’altro significato ha invece l’accoglimento di Platone nel mondo cristiano. Non di rado i numeri sono stati adoperati per esprimere idee, e ciò non manca di avere apparenza di profondità. Infatti, salta subito agli occhi che essi contengono un significato diverso da quello che presentano immediatamente, ma quanto ve ne sia non lo sa né chi lo afferma né chi cerca di capirlo, come avviene per esempio nell’abaco delle streghe nel Faust di Goethe. Quanto più i pensieri diventano confusi tanto più appaiono profondi. L’importante è risparmiarsi ciò che è la cosa più essenziale ma anche la più difficile: l’esprimersi con concetti precisi. In tal modo, anche la filosofia di Pitagora, nella quale è stata trasportata buona parte delle notizie correnti intorno alla sua persona, può apparire anch’essa un parto altrettanto confuso e malsicuro di teste torbide e ottuse. Per fortuna, però conosciamo di lui principalmente il lato teoretico-speculativo, grazie ad Aristotele e Sesto Empirico, che molto se ne occuparono. Sebbene i tardi Pitagorici abbiano maltrattato Aristotele a motivo della sua esposizione, egli è superiore a tale schiamazzo, al quale non si deve dare alcun peso. A pag. 230. Il nucleo più antico, la semplice proposizione fondamentale della filosofia pitagorica è, secondo Aristotele, che il numero è l’essenza di tutte le cose e, in generale, l’ordine dell’universo nelle sue determinazioni è un sistema armonico di numeri e rapporti numerici. In qual significato bisogna prendere questa proposizione? La proprietà fondamentale del numero è di essere una misura. Se noi ora diciamo che tutto è determinato quantitativamente o qualitativamente, la grandezza e la misura sono soltanto un lato o una proprietà che hanno tutte le cose. Invece, qui si dice che il numero per se stesso è l’essenza e la sostanza delle cose, non la loro pura forma. A questo proposito ci appare innanzitutto portentosa l’audacia di un’affermazione che rovescia d’un colpo tutto ciò che per la rappresentazione è essenziale e vero, e cancella l’essere sensibile facendolo essenza del pensiero. Questa è, secondo Hegel, la portata fondamentale di Pitagora: ha cancellato d’un sol colpo tutta la questione sensibile, l’immanente. Si afferma che l’essenza non è sensibile, e così qualcosa del tutto eterogeneo al sensibile, alla comune rappresentazione, viene elevato e dichiarato sostanza e vero essere. L’essere diventa qualcosa che non ha più nulla a che fare con le sensazioni, con le cose, con gli enti. Ma con ciò è posta la necessità sia di fare del numero stesso un concetto sia di rappresentare il movimento della sua unità con ciò che è, giacché il numero non appare a noi immediatamente una cosa sola col concetto. Ci vuole un passaggio in più. A pag. 234. Nel sistema pitagorico i numeri compaiono in parte collegati essi stessi con categorie, anzitutto cioè come determinazioni di pensiero dell’unità, dell’opposizione e dell’unità di questi due momenti. Vedete che qui c’è tutto Hegel, c’è già tutto il pensiero contemporaneo, c’è già quella che Hegel chiamerà Aufhebung: c’è un elemento, il suo opposto e l’integrazione dei due. In parte i Pitagorici sin dal primo momento dettero in generale del numero determinazioni ideali, universali, sotto forma di principi, e riconobbero, come osserva Aristotele, come principi assoluti delle cose non tanto i numeri immediati nella loro differenza aritmetica, quanto i principi del numero, cioè, le differenze concettuali di esso. La prima determinazione è l’unità; la seconda, la dualità o opposizione. Ecco perché è importante il numero: il numero rappresenta l’unità e rappresenta l’opposizione; rappresenta, cioè, quegli elementi di cui è fatto il pensiero. Non è tanto il numero aritmeticamente inteso, come strumento di calcolo, ma come concetto. È questo che ha i un certo senso reso grande Pitagora. Tutto è numero. Certo, detto così significa tutto e niente, ma il numero è il concetto dell’unità. L’uno, il due è l’opposizione, cioè, l’alterità. Ha inteso che i numeri in qualche modo rappresentano la tesi, l’antitesi e la sintesi. Naturalmente, non è indifferente il fatto che sia Hegel a leggere queste cose. È importantissimo ricondurre l’estrema varietà e determinazione di forme e caratteri del finito ai rispettivi pensieri universali come semplicissimi principi di ogni determinazione, i quali non sono differenze tra le varie cose singole, ma essenziali differenze in sé di natura universale. Come dire: la differenza tra l’uno e il due non è solo la differenza tra numeri, ma è il primo concetto di differenza in sé. Gli oggetti empirici si distinguono tra loro grazie alla figura esteriore – un pezzo di carta da un altro, una gradazione di colore da un’altra –, senonché siffatte determinazioni non sono differenze essenziali. Esse sono bensì essenziali per la peculiarità determinata di tali cose, ma tale peculiarità determinatissima non è in sé e per sé esistenza essenziale; soltanto l’universale è ciò che permane. Quindi, pensava l’Uno come l’universale, non come il numero 1. Pitagora prese poi le mosse dall’indagare queste prime determinazioni come unità, molteplicità e opposizione, ed esse per lui sono per lo più rappresentate da numeri. I Pitagorici però non si fermarono qui, scesero a determinazioni più concrete /…/I Pitagorici dicono che il primo concetto semplice è l’unità, non l’Uno discreto, multiplo e aritmetico ma l’identità come continuità e positività, l’essenza affatto universale. Essi, secondo Sesto Empirico, dicono inoltre: tutti i numeri rientrano nel concetto dell’uno, giacché la dualità è una dualità, e anche la triade è un’unità, e così pure la decina è una delle basi della numerazione. Ciò indusse Pitagora a considerare l’unità come principio di tutte le cose. Qui echeggerà più tardi Eraclito: Tutto è uno. Ciò vuol dire che la considerazione pura dell’essere in sé di una cosa è in quest’Uno, in questa identità con sé. Verso ogni altra cosa essa non è in sé ma è rapporto ad altro. Senonché le cose presentano assai maggiore determinatezza di quelle risultanti da questo arido esser Uno. Il notevole rapporto dell’unità affatto astratta con l’esistenza concreta delle cose è stata espressa dai pitagorici col termine di imitazione. Vedete come si sta formando il pensiero. L’Uno è inteso come unità, come universale, come l’assoluto. A pag. 236. Vien subito dopo l’opposizione la dualità, la differenza, la particolarità. L’Uno l’identità, il due la differenza, perché differisce dall’Uno. Queste determinazioni conservano ancora oggi valore in filosofia e Pitagora per primo le recò alla coscienza. Intorno al rapporto che corre tra l’unità e la molteplicità, vale a dire, tra l’identità con sé e l’alienarsi da sé, sono possibili diversi indirizzi. Qui si sente Hegel che parla, naturalmente. Infatti, i Pitagorici si espressero in maniera differente circa le forme. … Teone di Smirne dice: “Aristotele nel suo scritto intorno ai Pitagorici dà il motivo per cui secondo essi l’Uno partecipa della natura del pari e del dispari, che cioè l’Uno, aggiunto al pari, dà dispari, aggiunto al dispari dà pari, e ciò non potrebbe fare se non partecipasse alla natura di entrambi. Perciò essi chiamavano l’Uno anche pari-dispari”. È la prima forma di Aufhebung, la forma più ingenua. Torniamo all’affermazione di Heidegger “la filosofia nasce grande”, cioè, nasce già con tutti i problemi sotto gli occhi. Vi sono quindi due principi delle cose, vale a dire, l’unità prima, partecipando alla quale tutte le unità numeriche sono unità, e la dualità indeterminata, partecipando alla quale tutte le dualità determinate sono dualità. L’in sé e il per sé, il finito e l’infinito. La dualità è un momento del concetto altrettanto essenziale quanto l’unità. Confrontando l’una con l’altra può pensarsi l’unità come forma e la dualità come materia, o viceversa. Entrambe appaiono variamente rappresentate: l’unità come l’identico a se stesso, è ciò che non ha forma; invece nella dualità, come disuguaglianza, si compie lo sdoppiamento ovvero la forma. Tentativi ancora, certo, per indicare la presenza. Nel momento in cui si incomincia ad abbandonare gli enti e si incomincia a pensare, cioè a riflettere sugli enti, si avvia il pensiero con tutti i suoi problemi, che incominciano qui, sono già qui, e cioè, che l’Uno e il due sono simultanei. Si parlava prima di dispari e di pari come lo stesso, in un certo qual modo, e cioè, dell’impossibilità di separare – che cosa diremmo noi dopo duemilasettecento anni? – l’impossibilità di separare il dire dal detto. Siamo andati molto lontani? No, però ce ne siamo accorti. Tutto qui. A pag. 243. I numeri, dove mai si trovano? Separati dallo spazio se ne stanno per conto loro nel cielo delle idee? Essi non sono immediatamente le cose stesse, giacché una cosa, una sostanza è ben diversa da un numero, un corpo non ha alcuna somiglianza con esso. Si deve rispondere con i Pitagorici, che con i loro numeri non intendevano affatto indicare dei veri e propri prototipi, quasi che le idee, quali leggi e rapporti delle cose, si trovino presenti in una coscienza creatrice, siano pensieri esistenti nell’intelligenza divina separati dalle cose, alla stessa guisa che i pensieri di un artista son separati dalle sue opere. Molto meno. Essi intendevano indicare soltanto pensieri soggettivi della nostra coscienza, in quanto noi rechiamo gli assolutamente opposti come spiegazione della proprietà delle cose. Come distinguo un libro da una penna? Perché si oppongono delle cose è, innanzitutto, per l’opposizione, per una differenza. Sicché ogni essenzialmente consiste nell’unità e nella dualità, nonché nella loro opposizione e nella loro relazione in essa. Qui c’è già tutto Hegel. Forse, non è casuale che abbia scritto lui questo libro. È proprio ai Pitagorici di considerare illimitato l’infinito e l’Uno non già come nature diverse dalle cose o che abbiano realtà diverse da queste, come ad esempio il fuoco, la terra e simili; anzi, per essi lo stesso infinito e la stessa unità sono la sostanza di cui si predicano. Cioè: sono atti linguistici. Perciò dicevano essere il numero l’essenza di ogni cosa. Essi adunque non separano i numeri dalle cose, anzi, per loro i numeri valgono per le cose stesse, il numero è per loro il principio e la materia delle cose, e ne costituisce le proprietà e le forze. Esso è dunque il pensiero come sostanza o la cosa quale è nell’essenza del pensiero. Ecco cosa sono i numeri per Pitagora. A pag. 244. Alla triade… La triade è l’Aufhebung di Hegel, tesi, antitesi e sintesi. Alla triade si attribuì molta importanza come quella in cui la monade giunge alla sua realtà e compimento. La monade procede attraverso la diade e riunita di nuovo con questo indeterminato molti, nell’unità diventa triade. Tesi, antitesi, sintesi. In sé, per sé che torna sull’in sé. Unità e pluralità sono congiunte nella triade nella peggior maniera come accostamento esteriore ma, per quanto ciò sia pensato astrattamente, tuttavia la triade è una forma profonda. Essa viene poi considerata in generale come il primo perfetto. Aristotele, nel De Coelo, lo dichiara esplicitamente: il corporeo, all’infuori del tre, non ha altra grandezza; e, quindi, anche i pitagorici affermano che l’universo e il tutto è determinato dalla triade. Cioè, dal concetto. Perché è di questo che si tratta. Ciò che è perfetto, ovvero la realtà, è identità, opposizione e unità di esse, come il numero in generale. Ma nella triade questo è effettivamente perché essa ha principio, mezzo e fine. Ogni cosa come inizio è semplice, come mezzo alienazione da sé o molteplicità, come fine il ritorno dal suo alienarsi all’unità, lo spirito. Qui Hegel poteva mettere un richiamo alla sua Fenomenologia dello spirito. Se a una cosa togliamo siffatta triade l’annulliamo e ne facciamo un oggetto astratto di pensiero. Che è quello che diceva appunto nella Fenomenologia dello spirito. A pag. 248. In effetti, i numeri sono determinazioni compiute nello spazio astratto. Infatti, quando nello spazio si prendono le mosse dal punto… Come definisce il punto? Il punto è la prima negazione del vuoto. Non è male come definizione. …prima negazione del vuoto, il punto corrisponde all’unità. Esso è indivisibile, è il principio delle linee, ecc. Il punto emerge non di per sé ma nella relazione con il vuoto, cioè come negazione del vuoto, è la prima negazione del vuoto. Dà, quindi, per acquisito che insieme al punto ci sia il vuoto: senza il vuoto non c’è neanche il punto. Questo è interessante, perché qui si incomincia davvero a pensare. A pag. 253. Infatti, grazie al Keplero, conosciamo le leggi, l’eccentricità, il rapporto tra le distanze e i tempi della rivoluzione, ma la matematica non ha potuto finora scoprire la legge secondo cui procede l’armonia, in virtù della quale si determinano le distanze. Si conoscono esattamente i numeri empirici, ma tutto ha l’apparenza della casualità, non della necessità. Si conosce un’approssimativa regolarità delle distanze, quindi, si son potuti supporre con felice intuito altri pianeti, laddove sono stati effettivamente scoperti /…/ senonché in tutto questo l’astronomia non ha ancora ritrovato quella serie conseguente che costituisce la razionalità. Al di là di queste affermazioni, questo era l’obiettivo. È stato sin dall’inizio l’obiettivo di tutto il pensiero: trovare la razionalità. Che si immaginava essere nelle cose, nella natura, solo che poi si è incominciato a pensare e ci si è accorti immediatamente che questa razionalità nel pensiero è ardua da trovarsi, soprattutto, come vedremo, con Zenone, Protagora, ecc. Però, tutto era finalizzato al raggiungimento della razionalità. Cos’è la razionalità? È il controllo, il dominio sulle cose. Infatti, di uno squinternato si dice che non è razionale, cioè non domina i suoi pensieri, non domina le cose. E questo è il modo in cui il linguaggio, cioè il pensiero, ha incominciato ad avviarsi lungo la sua strada, cercando una razionalità, cioè cercando i modi di controllarsi, di avere il controllo su di sé. Fino ad arrivare ad Aristotele, che è l’apoteosi della metafisica. A pag. 255. Secondo un’altra enunciazione, riferita ad Aristotele, essi (i Pitagorici) applicarono i rapporti numerici all’anima e precisamente in questo modo: il pensiero è l’Uno; la conoscenza, o scienza, è il due, giacché si riporta soltanto all’Uno. Quindi, il pensiero è l’Uno, la conoscenza è il due, cioè è l’opposizione, è ciò che si oppone al pensiero. In che senso dobbiamo intendere che si oppone al pensiero? Dicendo che il pensiero è l’Uno diciamo che il pensiero è la totalità, è l’unità; la conoscenza è la pluralità: è la differenza tra significante e significato. Potremmo dire che il significante è l’Uno, il significato è l’infinito. Tutte le cose si giudicano o mediante il pensiero o mediante la scienza o mediante l’opinione o mediante la sensazione. In queste definizioni, che debbono tuttavia attribuirsi prevalentemente ai Pitagorici seriori, si può trovare qualche cosa di esatto giacché il pensiero è l’universalità pura. Il conoscere ha già più rapporto con qualche cosa di diverso, in quanto si dà una determinazione e un contenuto, mentre la sensazione è ciò che è maggiormente svolto verso la propria determinazione. Anche qui è fine il pensiero. Il pensiero è l’universalità pura. Potremmo dire, il pensiero come l’atto di cui parla Gentile: è l’universalità pura, è il Tutto. La conoscenza è già una sorta di dispersione in quanto si mette in relazione con altre cose. Non possiamo scinderli, non possiamo separarli, naturalmente; come già diceva Gentile, il pensiero pensante non posso che pensarlo, quindi, porlo come pensiero pensato. E così il pensiero, l’immediato, il tutto, l’assoluto: nel momento in cui me lo rappresento, in cui lo voglio conoscere, ecc., non posso porlo che come conoscenza, come scienza. Quindi, ecco, di nuovo troviamo già negli antichi tutto ciò che serve al pensiero. L’anima muovendo se stessa sarebbe il numero che muove se stesso. Senonché non troviamo espresso in alcun modo il collegamento di questa veduta con la monade. Siamo arrivati a Senofane. L’età in cui cade la sua vita è sufficientemente determinata, e ciò basta anche se non possiamo precisare l’anno della sua nascita e della sua morte. A pag. 267. In Senofane l’essere è inteso nel senso che null’altro ha realtà all’infuori di esso, tutto il resto è pura apparenza. A questo riguardo dobbiamo dimenticare la rappresentazione che noi abbiamo di Dio come spirito e tenere conto del fatto che i Greci avevano davanti agli occhi soltanto il mondo sensibile, le divinità della fantasia. Ora, non trovando in essi soddisfazione, essi respingevano tutto questo come non vero e pervenivano così al puro pensiero. Questo ci dice Hegel. Questo è il motivo per cui sorge la filosofia, e cioè sorge nel momento in cui ci si domanda se qualche cosa che io penso sia vera. Ma sappiamo che cosa significa questa domanda. Significa domandarsi se è utilizzabile oppure no. E qui siamo al punto in cui il puro pensiero incomincia a farsi strada, e sempre più si allontana dal sensibile. È questo un progresso immenso, il pensiero appare veramente libero per sé soltanto. L’essere Uno della scuola eleatica è soltanto questo sommergersi nell’abisso dell’astratta identità dell’intelletto. Sembra evocare l’autoctisi di cui parla Gentile. A pag. 262. Nel secondo dei passi citati Sesto spiega che Senofane non negava ogni conoscenza ma soltanto la conoscenza scientifica e sicura. Lasciava tuttavia sussistere il sapere opinativo. Questo ha voluto dire con l’affermare che tutto è soltanto opinione, sicché secondo lui il criterio è costituito dall’opinione, vale a dire, dalla verosimiglianza, non già da ciò che è saldo e sicuro. Tutto sorge dalla chiacchiera, dalla retorica. Qui c’è già la critica alla logica. La logica esiste in funzione della retorica, nella quale affonda le sue radici e dalla quale trae la sua stessa esistenza. Senza la retorica la logica scompare. Che è quello che dice anche Heidegger quando parla della chiacchiera: è la chiacchiera ciò da cui incominciamo a pensare qualunque cosa, dalla lista della spesa ai pensieri più astratti e mirabolanti. Partiamo sempre dalla chiacchiera o, come diceva Husserl, dalla Lebenswelt, dal mondo della vita, dalle cose con cui abbiamo a che fare. Partiamo necessariamente da queste cose.