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16 maggio 2018

 

Concetti fondamentali della metafisica di M. Heidegger

 

Heidegger parlerà ancora per un po’ del termine metafisica. Avremmo anche potuto saltare questa parte ma può essere interessante anche un riferimento storico, nel modo in cui lo elabora lui, anche se non è direttamente legato al progetto che abbiamo innanzi. Di questo ne parlerà più avanti e da lì trarremo delle indicazioni per affrontare in modo più efficace la questione della metafisica che più ci penso e più mi pare notevole. Ogni volta che si afferma un concetto si afferma un universale, si afferma metafisicamente qualcosa. Come sappiamo, parlando, pensando, non possiamo non esprimere dei concetti, è inevitabile, sennò non si fa niente. La questione si mostra sempre più in modo semplice. Heidegger aveva posta la questione del verbo essere, della copula, come se la questione della metafisica avesse a che fare proprio con questo, cioè con la struttura del linguaggio, che deve dire “è” qualche cosa, come abbiamo visto anche in Peirce: per poter essere utilizzato un elemento, per apparire un elemento, deve essere qualche cosa, e quindi ci vuole la “è”. Ogni volta che si usa la “è”, copula, si sta ponendo una questione che ha a che fare con la metafisica, nel senso che si esprime comunque un concetto, anche nelle formulazioni più banali. Per esempio, il gelato è buono. Cosa c’entra con la metafisica? Apparentemente, niente. Però, comunque, questa “è” è qualche cosa che consente… e questo lo diceva Heidegger: è il buono che fa apparire il gelato, cioè, appare in questo modo, in quanto buono; non appare il gelato in quanto tale ma appare a seguito del fatto del “buono”, che lo fa apparire nel modo in cui appare. Questo “buono” mi fa incontrare il gelato proprio perché è buono. Il gelato in quanto tale, in sé e per sé, non c’è. Il gelato va sempre inserito in una storia, in un racconto. In questa storia è necessario che un elemento trovi negli altri elementi il suo rinvio, il suo significato, letteralmente. Su questo Heidegger ha insistito ininterrottamente: la cosa non c’è se non è nel progetto. In questo senso il gelato è un utilizzabile ma è il “buono”, è ciò che predico del gelato che fa diventare un gelato quel determinato gelato di cui sto parlando; esiste solo quel determinato gelato di cui sto parlando, di per sé non esiste, non c’è platonicamente l’idea del gelato, della gelatitudine. Ecco, potete pensare la metafisica come la copula. Anche negli esempi, come quelli che facevo prima, più stupidi, comunque è sempre questa “è” che consente al primo elemento, al “quale”, alla qualità, diceva Peirce, lo apre verso un qualche cosa, perché da solo non esisterebbe, che procura il significato e, quindi, fa esistere, fa apparire questa cosa per quella che mi appare effettivamente. Il che getta una luce un po’ più chiara sulla questione del funzionamento del linguaggio. Ma andiamo a avanti nella lettura. Siamo a pag. 46, al § 9. I due significati di ϕυσις: un significato è la totalità dell’ente e l’altro l’essenza dell’ente. Gettiamo un rapido sguardo a quello stadio del filosofare antico in cui quest’ultimo raggiunse il suo culmine, cioè alla situazione del problema in Aristotele. Le trasformazioni e i destini dell’uomo greco rappresentano gli inizi della filosofia fino ad Aristotele. Lasciando tutto questo sullo sfondo, consideriamo il problema nei suoi termini essenziali. Ho in precedenza accennato al fatto che il prevalere di ciò che prevale… Il prevalere di ciò che prevale non è altro che l’apparire di ciò che mi appare così come mi appare. Ciò che appare prevale, si impone. …e questo stesso si manifestano, non appena vengano tratti fuori dalla velatezza, come ente. Quest’ultimo si impone nella sua molteplicità e pienezza, e rivendica su di sé la ricerca, la quale viene così ad occuparsi di determinati ambiti e regioni dell’ente. Per regioni dell’ente intende un ente particolare, il suo aspetto particolare. Ciò significa che insieme all’interrogare intorno alla ϕυσις nella sua totalità, sorgono già determinati indirizzi dell’interrogare stesso; emergono determinate vie del sapere; scaturiscono quelle singole filosofie, che in seguito verranno chiamate scienze. Questo sempre a partire dal fatto che qualche cosa prevale. Poi, nel suo prevalere, in questa prevalenza, si distaccano varie vie di ricerca, però, occorre che prevalga, cioè, che appaia qualcosa. Le scienze sono specie e modi del filosofare, e viceversa la filosofia non è affatto una scienza. Questo lo ribadisce continuamente. La parola greca con cui si indica la scienza è έπιστήμη. έπιστασϴαι significa venire a capo di una cosa, intendersi di essa. Έπιστήμη significa dunque il rivolgersi ad una cosa, intendersene, dominarla, penetrarne il contenuto essenziale. È soltanto in Aristotele che questa parola acquista il significato decisivo di “scienza” in senso esteso, cioè il significato specifico di ricerca teoretica nelle scienze. Quindi, l’έπιστήμη è l’apoteosi della volontà di potenza: dominare la cosa con assoluta certezza, volere sapere come stanno esattamente le cose. A pag. 48. Come stanno ora le cose riguardo al secondo significato di ϕυσις, nel senso di essenza? Che è poi quello che utilizza Heidegger. Il prevalere di ciò che prevale può venir concepito come ciò che determina questo prevalere come prevalere dell’ente, come ciò che fa sì che l’ente sia tale. L’essenza dell’ente è ciò che fa dell’ente quello che è, dà all’ente la sua enticità. In greco ente si dice ŏν, e ciò che fa sì che l’ente sia ente, è l’essenza dell’ente, il suo essere. Questo i Greci lo definiscono ούσία. Ούσία generalmente è tradotto con sostanza, ma qui Heidegger lo intende lo intende in modo un po’ differente. Dunque per Aristotele l’ούσία, l’essenza dell’ente, è ancora la ϕυσις. Heidegger ha fatto derivare l’ente dalla ϕυσις. Lui aveva individuato i due aspetti della ϕυσις, come totalità e come essenza; se è essenza, è essenza dell’ente, ma l’essenza dell’ente Aristotele la chiama ούσία. Con ciò abbiamo due significati di ϕυσις, come l’ente nella sua totalità… Nella sua totalità significa l’ente in quanto uno, in quanto unitario, in quanto appare così come appare, in quel modo e non in un altro. Questa è la sua totalità. …e in secondo luogo ϕυσις, nel senso di ούσία, di essenza dell’ente in quanto tale. Il fatto decisivo è che queste due direzioni interrogative, racchiuse nel significato unitario di ϕυσις, vengono espressamente unite insieme da Aristotele. Non vi sono due discipline differenti: definisce l’interrogare intorno all’ente nella sua totalità e l’interrogare intorno all’essere dell’ente, la sua essenza, la sua natura, come πρτη φιλοσοφία, come filosofia prima. Questo filosofare è il filosofare per eccellenza, il filosofare autentico. Filosofare autentico è l’interrogare intorno alla ϕυσις, nel duplice significato di interrogare intorno all’ente nella sua totalità e allo stesso tempo intorno all’essere. Così stanno le cose per Aristotele. Quindi, il filosofare autentico è quello che interroga l’ente nella sua totalità, cioè come ciò che appare, che prevale, ma anche come un interrogare intorno all’essenza dell’ente. Andiamo oltre. Ricordate che Heidegger stava facendo un esame della parola “metafisica”. Fin qui ci siamo occupati del secondo pezzetto della parola “metafisica”, cioè ϕυσις, adesso ci occuperemo del primo, μετά. A pag. 53, § 11. Il rovesciamento del significato di μετά nella parola “metafisica” da significato tecnico a significato contenutistico. Il significato tecnico è dopo, post in latino, perché i raccoglitori delle opere di Aristotele non sapevano come sistemare questa parte perché non aveva carattere specifico e allora le hanno poste dopo i testi di fisica, quindi, dopo la fisica. Invece, ciò che a noi interessa è il significato contenutistico, per cui μετά significa oltre, trans in latino. A pag. 55 il sottoparagrafo b) Il significato contenutistico di μετά: oltre (trans). Metafisica come definizione e interpretazione contenutistica della πρτη φιλοσοφία: scienza del sovrasensibile. Metafisica come disciplina di scuola. Dice, dunque, μετά ha però in greco anche un altro significato, che è connesso al primo. Se vado dietro a una cosa e la seguo, nel far questo mi muovo allontanandomi da una cosa e dirigendomi verso un’altra, cioè in certo qual modo mi “in”-verto. Questo significato di μετά nel senso di “via da qualcosa verso qualcos’altro” lo troviamo nella parola greca μεταβολή (rovesciamento). Con la contrazione del titolo greco τά μετά τά ϕυσικά nell’espressione latina Metaphysica, μετά mutò il suo significato. Il mero significato di luogo lasciò il posto a quello di rovesciamento, di “volgersi via da una cosa in direzione di un’altra”, di “oltrepassare una cosa verso un’altra”. A questo punto c’è l’idea di andare oltre qualche cosa, dove il qualche cosa è il sensibile, gli enti in quanto sensibili. A pag. 56. Metafisica diviene il titolo per indicare la conoscenza di ciò che si trova al di là del sensibile, la scienza e la conoscenza del sovrasensibile. Passiamo al § 12, a pag. 57. Ci occupiamo ora di un’altra questione, cioè del diritto con il quale manteniamo il titolo “metafisica”, e dunque allo stesso tempo del significato nel quale lo intendiamo, dal momento che rifiutiamo la metafisica come disciplina di scuola. Questo lo aveva già detto prima, aveva posto la metafisica non come una dottrina, una scienza, una disciplina fra le altre, ma come qualche cosa di fondamentale rispetto al pensare, tant’è che aveva accostato la metafisica alla filosofia tout court: metafisica è la filosofia, e viceversa. Ci ha resi familiari due significati: quello iniziale, tecnico, e quello posteriore, contenutistico. Chiaramente non ci occuperemo più oltre del primo. Quando affermiamo che la filosofia è un interrogare metafisico intendiamo “metafisico” nel secondo significato, quello contenutistico. Cioè, pensare oltre il sensibile. Dunque intendiamo metafisica come designazione della πρτη φιλοσοφίαCome ciò che designa la filosofia prima. Per Aristotele la filosofia prima è quella filosofia che si occupa dell’essenza delle cose, del significato ultimo delle cose. …non semplicemente come mero titolo, bensì in modo tale da esprimere con questa parola il filosofare autentico. … Il significato di metafisica è stato ricavato realmente da una comprensione effettiva della πρτη φιλοσοφία e ottenuto come sua interpretazione? Oppure, al contrario, non è stata proprio concepita la πρτη φιλοσοφία in conformità a una chiarificazione relativamente casuale della metafisica stessa? In effetti è così. A pag. 60 parla di un’assunzione effettuata per dare sistematicità al contenuto della fede cristiana. Questa sistematizzazione non rappresenta un semplice ordinamento esterno, bensì comporta una interpretazione contenutistica. Adesso ci dirà che buona parte della storia della metafisica è stata letteralmente attraversata dalla teologia cristiana. Il cristianesimo, come sapete, ha fatto man bassa della teoria di Platone e di Aristotele e se ne è appropriata, ovviamente cambiando, modificando il pensiero tanto di Platone quanto di Aristotele a suo uso e consumo. La teologia e la dogmatica cristiane si impadronirono della filosofia antica e ne mutarono il significato interpretandola in modo ben determinato (cristiano). La filosofia antica fu sospinta dalla dogmatica cristiana all’interno di una concezione ben determinata, la quale si è poi serbata attraverso il Rinascimento l’Umanesimo e l’Idealismo tedesco… L’idealismo tedesco: Hegel, Kant, Schelling. …una concezione della quale iniziamo soltanto oggi a cogliere lentamente la non-verità. Il primo a farlo è stato forse Nietzsche. La dogmatica cristiana, in quanto fondazione dei principi di una determinata forma religiosa, deve trattare di Dio e dell’uomo, cosicché entrambi, Dio e l’uomo, divengono gli oggetti primari non solo della fede, bensì anche della sistematica teologica: Dio come il sovrasensibile per antonomasia, e l’uomo non soltanto e unicamente e in maniera preponderante come essere terreno, bensì in riferimento al suo destino eterno, alla sua immortalità. Questo è l’obiettivo principale della teologia cristiana. Quindi, ha piegato il pensiero platonico e soprattutto quello aristotelico in modo tale da fare apparire che il sovrasensibile è Dio che il destino dell’uomo è di accedere a questo sovrasensibile, attraverso un percorso, che è quello cristiano, che lo condurrà a cogliere finalmente l’essenza delle cose, essenza delle cose in quanto Dio. Questo c’era già in Aristotele ma la nozione di Dio in Aristotele è molto diversa. Dio e immortalità sono le due denominazioni per indicare l’aldilà, a cui è essenzialmente interessata la fede cristiana. Questo aldilà diviene l’ente autenticamente metafisico, cioè rivendica per sé una determinata filosofia. Ancora all’inizio della filosofia moderna, vediamo come Cartesio, il suo fondatore, nella sua opera fondamentale Meditationes de prima philosophia, meditazioni sulla filosofia autentica, dica esplicitamente che la filosofia prima ha per oggetto la dimostrazione dell’esistenza di Dio e dell’immortalità dell’anima. Questo per dire che tutto il pensiero metafisico moderno è viziato da questo modo in cui il cristianesimo si è appropriato della metafisica. Questo non soltanto per uno scopo teologico ma, in questa appropriazione, ha snaturato la metafisica di Platone e di Aristotele forgiandola a propria immagine e somiglianza. A pag 61, infatti, dice la filosofia prima pone la questione intorno all’essenza e alla natura dell’ente. Allo stesso tempo però pone anche la questione dell’ente nella sua totalità, risalendo alla questione di ciò che è supremo e ultimo, che Aristotele definisce anche θεολογική, conoscenza teologica: il λόγος che si eleva al θεός, e di un dio personale, bensì semplicemente allo θεον. θεον in greco è Dio. Ma che cosa Aristotele chiama dio? Ciò che è supremo e ultimo rispetto alla totalità dell’ente; quindi, non c’entra nulla il dio dei cristiani. Lo chiama θεον, in greco, è il più alto, l’ultimo. Troviamo dunque prefigurata in Aristotele questa peculiare connessione tra la prima philosophia e la teologia. Era già pronta, Aristotele stesso chiamava θεον, vuol dire che pensava a dio, anche se non era così. A causa di questa connessione, mediata da una certa interpretazione della filosofia araba, risultò facilitato, nel Medioevo, quando venne a conoscenza di Aristotele e soprattutto dei suoi scritti metafisici, l’allineamento del contenuto della fede cristiana a quello filosofico degli scritti di Aristotele. Immagino di vedere gli amanuensi medioevali che trovano… la cosa più alta è θεον, è Dio, quindi, ci ha preceduti in qualche modo, già aveva prefigurato tutto quanto. Si sono trovati la pappa bell’e pronta. Ecco perché il sovrasensibile, l’ente metafisico in senso comune, è al tempo stesso ciò che si ambisce conoscere nella conoscenza teologica, una conoscenza teologica che non è teologia della fede, bensì teologia della ragione, teologia razionale. E qui arriveremo a Tommaso. L’essenziale è che ora l’oggetto della filosofia prima (metafisica) è un ente determinato, seppure sovrasensibile. Nella nostra questione intorno al modo medioevale di comprendere la metafisica, non si tratta di sollevare la questione della legittimità di una conoscenza del sovrasensibile, e neppure la questione della possibilità di una conoscenza dell’esistenza di Dio o dell’immortalità dell’anima. Tutte queste sono questioni posteriori. Si tratta piuttosto del fatto fondamentale che il sovrasensibile, l’ente metafisico, è una regione dell’ente tra le altre. Questa è la questione centrale, perché in Aristotele non è così, non è che la metafisica si occupi di un ente particolare, ma cerca la totalità dell’ente, cerca quell’unità che dovrebbe dare una garanzia al tutto, che tiene insieme il tutto, che ne fa uno. Quindi, questo ente, di cui parla la metafisica aristotelica, non è un ente fra gli altri, non è una regione dell’ente, come invece ha fatto il cristianesimo, che ha fatto di questo ente Dio e lì lo ha determinato, ne ha fatto una specificità dell’ente, cosa che non c’è in Aristotele. La metafisica viene perciò a porsi sullo stesso piano delle altre conoscenze relativamente all’ente nelle scienze o nelle conoscenze pratico-tecniche, con l’unica differenza che l’ente di cui si tratta è un ente più elevato. … Il μετά non indica più un determinato atteggiamento del pensare e del conoscere, una peculiare inversione rispetto al pensare e all’interrogarsi quotidiano, bensì è solamente il segno del luogo e della disposizione di quell’ente che si trova dopo e sopra gli altri enti. Qui ci dice come la μετά per Aristotele era un pensare al di là del pensare quotidiano, un pensare autentico, che non è la chiacchiera. Ma la totalità, il sovrasensibile e il sensibile, è, in un certo qual modo, ugualmente sussistente. La conoscenza di entrambi (la posizione di Aristotele e quella cristiana) si muove, ferme restando alcune differenze relative, all’interno del medesimo atteggiamento quotidiano della conoscenza e della dimostrazione delle cose. Il fatto stesso della dimostrazione dell’esistenza di Dio documenta, a prescindere dalla sua forza probatoria, l’atteggiamento di questa metafisica. Il fatto che il filosofare sia un atteggiamento fondamentale autonomo scompare qui completamente. Il filosofare non è più un atteggiamento autonomo perché è vincolato a Dio e, quindi, si perde l’autenticità del pensiero. La metafisica viene livellata ed esteriorizzata a conoscenza quotidiana, con l’unica differenza che in essa si tratta del sovrasensibile, del quale per di più si ha la prova dalla rivelazione e dalla dottrina della Chiesa. A questo punto, dice, la metafisica è schiacciata, ha perso il suo mordente, la sua forza, la sua potenza. Il μετά inteso come indicazione di un luogo del sovrasensibile, non rivela proprio nulla della peculiare inversione che il filosofare in definitiva racchiude in sé. Questo capovolgimento del modo di pensare, che potremmo heideggerianamente considerare come il muoversi dalla chiacchiera al pensare autentico, tutto questo scompare e diventa una regione dell’ente come le altre, cioè, ha perso la sua forza di pensare, non pensa più. D’altra parte, se c’è Dio, ha già pensato tutto lui. Con ciò si afferma anche che lo stesso ente metafisico è un ente tra gli altri, che ciò in direzione del quale io compio l’oltrepassamento, abbandonando il piano fisico, non si distingue sostanzialmente da quest’ultimo, tranne che per la differenza che sussiste tra il sensibile e il sovrasensibile. Ma questo è un completo fraintendimento di ciò che, in quanto θεον, Aristotele aveva almeno lasciato sussistere come problema. Nell’asserzione che l’ente metafisico è un ente sussistente tra gli altri, per quanto più elevato, consiste l’esteriorizzazione e l’esteriorità del concetto di metafisica. Il cristianesimo ha operato questa esteriorizzazione del concetto di metafisica, cioè ha posto il suo obiettivo all’esterno della metafisica. A pag. 63. Nella direzione interrogativa intorno all’ν ν ci si chiede che cosa sia proprio di ogni ente in quanto tale, cosa sia l’ente e quali, per così dire, risultino le sue proprietà quando lo si osservi in generale: ens communiter consideratum o l’ens in communi. Così l’ente in generale diviene parimenti oggetto della prima philosophia. Viene alla luce il fatto che, se mi interrogo intorno a ciò che è proprio di ogni ente in quanto tale, oltrepasso necessariamente il singolo ente. Se mi interrogo su questo, in quanto tale, sul che cos’è propriamente, le mie riflessioni vanno al di là. Considerazione: questa operazione, che è l’operazione metafisica, è esattamente l’operazione che è impossibile non fare parlando di una qualunque cosa. Io mi chiedo che cos’è un qualche cosa e sono immediatamente spostato su altre cose che mi dicono altre cose rispetto a questa cosa qui. Questa è la semiotica di Peirce, cioè, un segno rinvia a quell’altro, devo avere quell’altro per sapere di che cosa sto parlando quando parlo del primo, e questa è esattamente l’operazione che fa la metafisica. Lo oltrepasso in direzione delle determinazioni più universali dell’ente: che ogni ente è qualcosa, un uno e non l’altro, che è differenziato, contrapposto e simili. Tutte queste determinazioni: esser qualcosa, unità, alterità, differenza, contrapposizione, sono tali da trovarsi al di là di ogni singolo ente, ma nel loro trovarsi al di là sono totalmente differenti dal trovarsi al di là proprio di Dio rispetto a qualunque cosa. Questi due modi fondamentalmente diversi dell’essere-al-di-là vengono abbinati in un unico concetto. Questo nella metafisica cristiana. Entrambi si trovano al di là, cioè, quando io voglio sapere che cos’è una certa cosa mi sposto su un’altra cosa e, quindi, mi trovo al di là. Ma, mentre per Aristotele, e anche per Heidegger ovviamente, questo spostarsi in un al di là comporta soltanto uno spostamento problematico, cioè qualcosa che dà da pensare, per la Chiesa semplicemente è uno spostamento, un andare al di là che porta poi, alla fine, a Dio, ché è lui la causa di tutto, principio e fine di ogni cosa. Nel paragrafo c) parla della aproblematicità del concetto tradizionale di metafisica. Il concetto tradizionale di metafisica, che ha trasformato la metafisica a modo suo, ha aproblematizzato, cioè, ha tolto il problema della metafisica. Dal momento che il concetto tradizionale di metafisica è in tal modo divenuto esteriore e in se stesso confuso, non si può giungere ad una problematizzazione in senso autentico della metafisica in se stessa o del μετά. Togliendo la problematicità della metafisica ha tolto la possibilità stessa di pensarla in senso autentico, cioè, la metafisica è diventata soltanto la rappresentazione che Dio è al di là delle cose terrene, l’ente supremo. Poi, dice che Kant è stato il primo che ha contribuito alla problematizzazione della metafisica. Però, andiamo a pag. 64, al § 13, dove parla di Tommaso. Vorrei ancora brevemente documentare ciò che ho esposto in modo così generale, cioè i tre momenti del concetto tradizionale di metafisica: la sua esteriorizzazione, il suo essere confuso e la sua aproblematicità, affinché non si creda che si tratti semplicemente di una concezione della storia della metafisica che prende le mosse da un qualche determinato punto di vista. A pag. 65. Egli (Tommaso) prende le mosse dal fatto che la conoscenza suprema, che noi d’ora in avanti chiameremo in breve la conoscenza metafisica – la conoscenza suprema nel senso della conoscenza naturale, alla quale l’uomo deve giungere da solo – è la scientia regulatrix, la quale dà la regola a tutte le altre conoscenze. Questa è la ragione per cui in seguito Cartesio, dal momento che si prefiggeva di dare giustificazione alla globalità delle scienze, dovette, assumendo lo stesso atteggiamento, risalire alla scientia regulatrix, alla prima philosophia che dà la regola a tutto. Andiamo al riassunto che fa a pag. 69. Prima di proseguire nell’esposizione del tema, riassumo ancora una volta quanto è stato detto. Ho tentato di chiarire perché adoperiamo l’espressione “metafisica” senza poterla tuttavia accettare nel suo significato tradizionale. La ragione di questo fatto sta nelle dannose incongruenze interne racchiuse nel concetto tradizionale di metafisica. Già nel concetto di filosofia prima, elaborato nell’antichità da Platone e da Aristotele, è presente un’ambiguità. Abbiamo visto che Aristotele orienta il filosofare autentico secondo due direzioni: come questione intorno all’essere, intorno al fatto che ogni cosa che è, in quanto è, è qualcosa, che è l’una cosa e non l’altra, e simili. Unità, pluralità, contrapposizione, molteplicità e simili sono determinazioni proprie di ogni ente in quanto tale. L’elaborazione di tali determinazioni è un compito dell’elaborare proprio del filosofare autentico. L’essere dell’ente garantisce all’ente la sua enticità, questo ente appare come uno, ma se io devo dire che cos’è questo ente mi trovo a dire altre cose, a inserire altri enti, e pertanto è come se questo uno fosse uno grazie al fatto che è molteplice, cioè molti; a loro volta, i molti sono tali perché c’è questo uno da cui partono. Come dire che un significante è tale per via del significato e il significato è tale per via del significante; per dire una cosa devo dire quella cosa e non un’altra, ma questa cosa è quella che è perché è connessa con infinite altre, e se non ci fossero queste altre quella non sarebbe mai esistita. A pag. 70. Ma a questo punto sorge anche la questione dell’ente autentico, che Aristotele definisce θεον. L’ente autentico, quello al di sopra di tutti gli altri enti. Caratterizza questo ente in modo ancora più chiaro nel concetto della έπιστήμη θεολογική. Cioè, della dottrina teologica. Aristotele non si è reso conto dello squilibrio, cioè della problematicità che è insita in questa duplice direzione del filosofare, o comunque noi non ne siamo a conoscenza. Questo squilibrio consiste nel fatto che la questione intorno a cosa siano uguaglianza, diversità, contrapposizione, di come queste determinazioni si rapportino tra di loro e in che modo facciano parte dell’essenza dell’ente, è qualcosa di totalmente diverso dalla questione che riguarda il fondamento ultimo dell’ente. Questa è l‘ambiguità fondamentale che, secondo Heidegger, è presente in Aristotele e che non ha mai affrontato e, di conseguenza, mai risolto, ovviamente. Dunque, questo squilibrio che c’è all’interno del concetto di metafisica: che cosa sono queste cose che attribuiamo all’ente, uguaglianza, diversità, contrapposizione, ecc., come si rapportano tra loro? In che modo fanno parte dell’essenza dell’ente? Questo problema è qualcosa che è totalmente diverso dalla questione che riguarda il fondamento ultimo dell’ente. Vale a dire, le prime sono questioni che riguardano le proprietà dell’ente, ma queste proprietà dell’ente non sono il suo fondamento. Come facciamo a dire che sono il suo fondamento? In base a che cosa? Per quale via? Tale dannosa incongruenza, cioè il problema, è visibile ancor più chiaramente nella teologia medioevale, orientata in direzione della rivelazione cristiana. La questione delle categorie formali… Sono quelle di cui parlava prima, le categorie formali sono le varie determinazioni. Ricordate che per Aristotele l’essere è determinato dalle sue categorie, cioè tutti i modi in cui è possibile dirlo: la sostanza, la quantità, la qualità, il tempo, lo spazio, ecc.; sono in tutto dieci, sembra che abbia scelto di elencarne dieci perché questo numero gli sembrava più bello. La questione delle categorie formali è qualcosa di diverso dalla questione di Dio. Si riesce a conferire una certa uniformità e omogeneità a queste due direzioni interrogative, soltanto affermando che si tratta, in entrambi i casi, della conoscenza di ciò che è in qualche modo libero dalla materia, dal sensibile. A pag. 71. Sottolineo soltanto le dannose incongruenze e le difficoltà insite nel fatto che Tommaso affermi: questa scienza, che è la scienza suprema e che chiamiamo metafisica equiparando quelle tre espressioni, tratta in primo luogo delle cause ultime, di Dio, che ha creato il mondo e tutto ciò che è, ma allo stesso tempo tratta anche di quelle determinazioni che sono proprie di ogni ente, gli universalia, le categorie astratte, e allo stesso tempo di quell’ente che, per il suo modo d’essere, è l’ente supremo, cioè puro spirito assoluto. La prossimo volta vedremo Suarez. Francisco Suarez era un gesuita spagnolo, vissuto a cavallo del XVI e del XVII secolo. Tutta la metafisica contemporanea è costruita sulla base della metafisica di Suarez. Leggeremo velocemente questa parte perché la cosa che più ci interessa è quando incomincia a dirci della tonalità affettiva che è necessaria per l’interrogare autentico. Per interrogare autenticamente, la metafisica autentica necessita di un particolare stato d’animo: la noia.