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TERMINI: Conversione - Sensazione - Emozione

 

Come sapete ciascuna teoria che si rispetti è composta da due parti, una pars destruens e pars construens, da una parte dice come non si fa, e da quell’altra dice come si fa. Ciò che utilizza ciò che andiamo dicendo è che queste due parti sono la stessa cosa. Intendo dire che man mano che siamo andati avanti, a ciascuna cosa a cui cominciavamo a porre delle obiezioni, immediatamente questa stessa obiezione che si poneva produceva necessariamente un’altra cosa a fianco. Questo non ha nulla a che fare con il nichilismo, ma ha condotto in effetti a una considerazione tale per cui mentre si coglie con relativa facilità l’aspetto distruttivo di tutto questo marchingegno non sempre si accoglie quello adiacente che è costruttivo. Ma com’è che questo avviene? Sono motivi terribili che adesso vedremo. La questione è da porre in questi termini: la guarigione così come è comunemente intesa, anche dalla psicanalisi più sofisticata, non esiste. Ciò a cui può giungersi è una conversione, isterica, religiosa, come preferite, una conversione a un’altra religione, cioè la guarigione così come è supposta generalmente, anche come acquisizione della consapevolezza o del funzionamento di una struttura. Non c’è nessuna guarigione, ma perché uno dovrebbe guarire? In effetti la questione è talmente semplice che sfugge perlopiù, tempo fa forse raccontavo a proposito di un ragazzo che venne da me molti hanno fa e che faceva uso di droga di tutti i tipi, droghe pesanti. La questione si pose già da subito in modo interessante, lui venne da me spinto dai suoi genitori i quali, quando si accorsero che c’era qualche cambiamento lo ritirarono subito, ma lui non aveva di fatto nessuna intenzione di dire che avrebbe voluto cambiare, non drogarsi ecc., era così, un omaggio a papà e a mamma, perché di fatto non aveva nessuna intenzione ma tutto sommato la sua posizione era assolutamente legittima, perché doveva cambiare? Per chi? E in cambio di che? Uno si droga perché questo lo fa stare bene, infatti si droga anziché darsi una bastonata sulle dita, ora la questione che mi posi allora e che mi pongo anche oggi è che la guarigione non c’è perché è strutturalmente paradossale, e tutto ciò che viene avvertito come continuo stare male è in generale qualcosa di assolutamente irrinunciabile, tempo fa dicevo così come una battuta, un’altra cosa che una persona mi disse: se non sto più male cosa faccio? Non aveva mica torto, aveva tutte le ragioni di questo mondo, se uno non sta male che fa? Perché un drogato smette ad un certo punto di drogarsi e poi riprende? Perché ciò che ha in cambio non è niente, soprattutto poi quando le comunità in cambio gli propongono di coltivare pomodori, non è così entusiasmante come un viaggio con l’acido. Ora, vi dicevo che di fatto non c’è assolutamente nessun motivo per cessare di soffrire, ma dicendo che non c’è nessun motivo intendo dire che non c’è nulla in alternativa che offra, a pari condizioni e a pari prezzo, la stessa intensità di sentire, la stessa forza di emozioni, di sensazioni. Considerate che da sempre gli umani vanno in cerca di forti emozioni, dal ragazzino che si arruola per sfidare il nemico alla signora annoiata della vita coniugale che cerca un amante, in definitiva entrambi cercano delle emozioni, adesso non ci soffermiamo sulla questione dell’emozione in quanto tale, questo non ci interessa ma appena per indicare che sono quasi luoghi comuni, questa ricerca di emozioni, forti se è possibile. Voi accettereste di passare la vita con una persona che non vi dà nessuna emozione? Forse no. Ora ci sono alcune cose che producono emozioni fortissime, non tutte sono facilmente reperibili, altre sì, sono facilmente reperibili e costruibili. La sofferenza è una violenta emozione, allora dicevo perché rinunciare a una cosa del genere? Perché mai? Anche se sentirete dire da una persona che soffre che non vuole la sofferenza ma questo, come dire, è una captatio benevolentiæ, se non la volesse non soffrirebbe, perché se potesse ammetterlo, se ammettesse mai una cosa del genere che cosa accadrebbe? Che non soffrirebbe più? C’è questa eventualità, e comunque questa eventualità basta da sola a fermare qualunque intenzione, ma le cose che abbiamo dette e che stiamo dicendo, consentono di individuare con buona precisione ciò che sta avvenendo, è pur vero che se uno è abbastanza abile può, con grandissima precisione intendere quali sono le regole del gioco o, se si preferisce, qual è il referente di ciò che si dice, che è la stessa cosa, come dire che tutto questo è noto ormai, acquisito, ma la questione rimane tale e quale se non c’è una conversione. Mi riferisco con conversione in particolare alle scuole di psicanalisi più recenti, compresa quella di Lacan. Ciascuno che seguiva il discorso di Lacan era certo che il discorso di Lacan fosse vero, e così per altri, necessariamente. Come si potrebbe seguire il discorso di Lacan con la certezza assoluta che fosse totalmente falso? Dunque c’è un atto di fede, c’è una conversione, e questa ha degli effetti sorprendenti, occorre dire, fa camminare gli storpi, fa vedere i ciechi, la fede fa spostare le montagne. Dunque la conversione produce effetti sorprendenti, una persona che ha fede può fare le cose più incredibili. Pensate alle cattedrali, sono cose meravigliose, poche cose sono state fatte di così meravigliosa grandezza, come le opere di fede. Dire che l’unica soluzione è letteralmente la conversione può sembrare bizzarro, eppure effettivamente è l’unica soluzione, per cui se uno cerca la soluzione c’è soltanto quella. Anche perché la questione continua a interrogarci e ancora poco l’abbiamo affrontata, la struttura stessa del linguaggio sembra convogliare letteralmente in quella direzione, per quale motivo esattamente ancora non lo sappiamo, però c’è questa eventualità, in questo caso ciò che ci troviamo a fare è un’operazione assolutamente folle, e cioè quella di andare contro a ciò che il linguaggio stabilisce, in un certo senso, però ancora non sappiamo se è esattamente così. Ma sia come sia, sembra che la ricerca di una soluzione sia la ricerca di una conversione, e cioè di un’altra cosa a cui credere. In effetti la più radicale, la più assoluta, la più precisa conoscenza della struttura del proprio discorso cambia pochissimo rispetto a ciò che dicevo prima, all’attesa di una soluzione, ma l’attesa di una soluzione punta propriamente ad attendersi che qualcosa costringa inevitabilmente e inesorabilmente a mutare direzione. Èuna cosa su cui sto riflettendo, non è che sia una cosa chiarissima tuttavia...

- Intervento: Qualcosa che costringa, un’autorità per esempio...

Sì, chiaramente usando dei significanti come “costringere”, vengono utilizzati nella stessa accezione in cui funzionano degli elementi, di fatto occorrerebbe precisare che cosa si intende con costrizione, non perché la costrizione sia quella...

- Intervento: A proposito di necessario, Aristotele parla di costrizione e aggiunge alla costrizione “il doloroso”.

Parla di costrizione logica e acquisisce una certa portata laddove si precisi la regola... dove qualche cosa funzioni come costrizione logica, cioè impone la presenza di alcuni elementi con la presenza di altri, questa è una decisione che si stabilisce... la costrizione logica non ha nessun referente in natura, da qualche parte per cui debba essere qualche cosa di stabilito, è ciò che di volta in volta si stabilisce che sia, tenendo conto delle regole che si intendono utilizzare in quel particolare frangente, allora diventa quella cosa. Dicendo che il referente di ciascun elemento, o di ciascun discorso, non è altro che una regola del gioco che lo costituisce, diciamo qualcosa di notevole, perché di fatto riprende in modo radicale i termini da cui siamo partiti, cioè da questo gioco che stiamo facendo che muove da elementi che non siamo riusciti a negare, e finché non riusciremo a negarli funzioneranno. Perché questo? Non lo so. Ciò che so è che è un gioco che, almeno per il momento, consente una maggiore produzione di elementi e richiede la quantità minore possibile di ingenuità, solo questo. Ho detto mille volte che le cose che diciamo, anche se appaiono innegabili, non esistono da nessuna parte, sono atti linguistici, ma la tentazione di pensare che esistano da qualche parte è sempre forte, è sempre presente, anche nei pensatori più robusti come Heidegger, Wittgenstein; è lì si impone come un corpo, possiamo chiamarlo un anello debole di una catena che in altre circostanze sembra forte. Ciò che non può non dirsi, tenendo conto del fatto che sto parlando... ma ciò che non può non dirsi da dove lo traggo? Dal discorso, nient’altro che da questo. Ora cosa c’entra tutto ciò con quello che dicevamo prima? C’entra, perché le considerazioni anche più sofisticate, pare che non possano nulla di fronte alle emozioni più forti. Non avevano torto gli antichi, la persuasione è molto più potente della convinzione. Pensate alla guerre di religione, avete mai sentito parlare di guerra a causa di teoremi matematici? Non importa niente a nessuno. Ora la questione fondamentale, diciamola così, tra virgolette, che cosa uno avrebbe in cambio rinunciando a una tale forte emozione? Che cosa potrebbe mettere al pari? La ricerca teoretica? Può essere. Una volta, durante una conferenza all’Araba Fenice dissi che tutto sommato si tratta di questo in ciascun caso, di ricerca teoretica, cioè una ricerca dei fondamenti o di ciò che risulti affidabile. Ma forse potremmo riflettere proprio su questo: a quali condizioni potrebbero eventualmente accogliersi in cambio della sofferenza o di una forte emozione comunque, anche perché dovremmo produrre una emozione altrettanto forte. Ma è possibile rinunciare all’emozione? Forse dovremmo cominciare a riflettere su questa nozione, visto che non sembra del tutto marginale nel discorso di ciascuno, una forte sensazione esercita un’attrazione irresistibile. Come dicevo pare che ciascuno la ricerchi in un modo o nell’altro. Noi possiamo dire così d’acchito che è qualcosa che muove, in un modo o nell’altro, per definizione, forse muove se stessa, ma questo muoversi come è avvertito? Perché da ciò che andiamo dicendo potrebbe apparire che il discorso possa compiere questa operazione, di muovere qualcuno. Tutto questo parrebbe condurci alla questione della responsabilità di cui dicevamo, tutto bene, non c’è nulla contro le emozioni, soltanto sto discutendo con voi di questa nozione, la decisione posta in questi termini sembra inevitabile, il discorso non può non muovere... ma torniamo alla questione, uno non rinuncia a stare male, e non ci sarebbe niente di male, il fatto che venga enunciato come il male è per i motivi di cui dicevamo prima, e cioè lasciare intendere che non lo si vuole, e fin qui tutto bene, ma provate a considerare questa direzione, questo muoversi tutto sommato del discorso, con tutto ciò che questa direzione produce, sia legato in qualche modo a una certa scena, immagine, e quindi a un altro discorso, la questione sembra sempre la stessa in definitiva, e cioè che un discorso, una frase, anche un singolo lessema può funzionare in questo modo e cioè come aggancio per provare un’emozione. Qui la questione si fa straordinariamente complessa, potremmo dire così, che provo una forte emozione perché ho incontrato una sofferenza, una cosa che mi ha fatto soffrire moltissimo, oppure una grande emozione per avere risolto un quesito teoretico, potrebbero essere in effetti la stessa cosa, e forse lo sono, e allora perché l’una anziché l’altra? Anzi probabilmente la sofferenza produce una sensazione più duratura, più facilmente riproducibile, la soluzione di un quesito teoretico si esaurisce più rapidamente, anche se poi altri possono sorgere, quindi sembra strano dire che sono la stessa cosa, però in entrambi i casi provo una emozione e cioè ci si trova presi in qualcosa che si sta muovendo, potremmo dire, letteralmente, che lo sposta da una posizione in cui poteva pensare di essere. E questa posizione in cui si può pensare di essere dopo un po’ risulta insopportabile appunto perché non succede niente. Vi sarà capitato un sacco di volte di sentire dire: non succede mai niente, è sempre tutto uguale, cioè non c’è nessuna emozione potremmo dire. Quindi tutto sommato l’una cosa e l’altra, la sofferenza e la soluzione di un quesito teoretico, potrebbero essere esattamente la stessa cosa, perché prediligere l’una o l’altra? La sola cosa che possiamo dire è che esistono regole differenti in questi giochi, tutto qui, comunque... ma sappiamo d’altra parte che esistono regole differenti in moltissimi giochi che vanno facendosi, ma una soluzione di un quesito teoretico è una conversione?

- Intervento: Stavo pensando alla conversione del male in un percorso intellettuale...

Qualcosa del genere, una conversione, conversione qui... a quali condizioni possiamo dire che qualcosa è una conversione? Che cessi di credere una cosa e ne creda un’altra, ovviamente. Ciò su cui mi stavo interrogando è che questo gioco che andiamo inventando possa non comportare una conversione, domanda difficile, e dipende da cosa si intende con conversione, altra questione ancora più difficile: è possibile intendere con conversione qualcosa che nega la conversione? Sì, soltanto dopo che si è stabilito che cosa sia la conversione, ovvio no? E allora dire che non c’è guarigione fuori dalla conversione è stabilire delle regole in un gioco, e cioè non è enunciare uno stato di fatto, non si enuncia niente, questione che può apparire un po’ strampalata, perché sempre meno è possibile stabilire un dato di fatto, qualche cosa che sia stabile. Posso affermare che non c’è guarigione ma soltanto conversione se e soltanto se utilizzo delle regole particolari, se no tutto ciò non significa assolutamente niente. Avete immediatamente la misura per così dire di questa sorta di rinvio o di infinitizzazione come dicevamo tempo fa, possiamo dire che se qualcuno crede alla sofferenza ci sono buone probabilità che intenda la conversione in un certo modo, e che quindi si converta esattamente allo stesso modo in cui possiamo pensare, come dicevamo tempo fa, se una persona è fortemente e fermamente cattolica, la domenica vada a messa. La persona è prevedibile nella misura in cui si conoscono le cose in cui crede, dicevamo tempo fa, fa ciò che crede, e quindi può avvenire che la sofferenza guarisca attraverso una conversione, se è questo il gioco che si sta facendo. La sofferenza cessa nella conversione, cioè la sofferenza si volge in conversione se e soltanto se è questo il gioco che si sta facendo, e cioè se la sofferenza ha una certa funzione nel discorso, cioè se effettivamente funziona in un certo modo, produce una certa cosa, se è quello il gioco che si fa, così accade. Ora tutto questo potrebbe lasciare intendere che se mai riuscissi a venire a sapere quali sono le regole, e cioè il referente del mio discorso, per esempio questa sofferenza potrebbe non essere più necessaria, in teoria è così in pratica no. Mi spiego meglio, perché non teniamo conto che dicendo questa cose stiamo facendo un certo gioco linguistico che non è affatto quello che si verifica al momento in cui si dà della sofferenza, proprio per il fatto stesso che si sta dando della sofferenza, avviene un gioco linguistico che esclude per definizione, direi, qualunque inserzione di altre regole, per definizione perché se queste altre regole potessero essere inserite la sofferenza cesserebbe, ma questo non è possibile, grosso modo come non è possibile pensare simultaneamente due cose differenti, e allora? Che farcene di tutto ciò intanto che si dice? Che ne so? Ciascuno ne faccia ciò che ritiene più opportuno, nel senso che gli strumenti che mano a mano andiamo ponendo, inventando, in effetti possono avere molti utilizzi, uno di questi potrebbe essere il trovarsi a pensare che questa stessa domanda: “cosa me ne faccio?”, fa già un gioco che è totalmente differente da quello che viene fatto, per esempio, nella Sofistica, è praticamente incompatibile, e allora o l’uno o l’altro, o l’uno o l’altro in accezione in cui indicavamo prima, che non posso pensare simultaneamente in due modi differenti, qualcosa lo vieta. Ciascuno di voi può divertirsi a riflettere intorno a che cosa esattamente lo vieti. Dicevo riflettere su che cosa lo vieti, possiamo passare una serata piacevole riflettendo su cosa impedisce di pensare simultaneamente due cose differenti. Perché no? Potrebbe non essere un cattivo modo di passare la serata. Come vi avevo annunciato ho detto cose terribili, nel senso che ho forse reso più esplicito ciò che già molti di voi avvertivano, aggiungendo questo elemento, e cioè che domanda che cosa fare, già sta facendo un altro gioco, di cui sicuramente possiamo discutere, possiamo svolgere o intenderne le regole ma, come dire, o si pensa in un modo o si pensa in un altro. Non è così semplice, il problema che permane è come possa un modo di pensare variare, ed è curioso perché peraltro varia continuamente, solo che non essendo, come dicevo prima, possibile pensare in due modi differenti, non è possibile nemmeno accorgersene, io posso cambiare il modo di pensare, ma lo penso nel modo in cui lo penso adesso, un po’ come diceva Heidegger rispetto alla traduzione dei testi degli antichi greci, noi possiamo tradurli, ci sono ottimi grecisti però...

- Intervento: Come dire che il mio modo di pensare non è mai esistito

Possiamo dire anche questo, perché no?

- Intervento: non ci sono i termini per poterlo pensare. e dove sono i termini?

E come lo sappiamo, che non ci sono più i termini per pensare? Il fatto che ciascuna volta si pensi differentemente? Impossibile.

- Intervento: Lei diceva prima che l’eventualità di cogliere il referente in un discorso non implica in pratica che la sofferenza si dissolva.

Si potremmo dire che si cambi il modo di pensare.

- Intervento: Quindi già qualche cosa varia, lei dice come possiamo dirlo?

Sì, possiamo dirlo tuttavia questo “già”, come dire... questa proposizione che lei afferma ha delle regole che la prevedono, cioè questo “prima” non esiste in natura, il fatto che le cose varino, variano rispetto ad un gioco che prevede che le cose varino...

- Intervento: Qui interviene la domanda, la domanda più banale è allora che cosa accade in un’analisi.

Sì, bella domanda, che cosa accade? Lei ha fatto molti anni di analisi di che cosa si è accorto?

- Intervento: Certamente, che un certo modo di pensare non esiste più nei termini, proprio “che non è mai esistito”, che non è più possibile pensare nei termini e nei modi in cui si pensava prima: Ma già dire prima... come accade che qualcosa vari?

Se si instaurano delle regole tali per cui questo sia previsto, adesso lei mi chiede come si inseriscono queste condizioni, queste regole? Voi sapreste persuadere un cattolico fondamentalista che dio non esiste? (...) Sicuro? Io non ci ho mai provato, dico questo perché tutto ciò che lei potrebbe dire, non può essere accolto in nessun modo, adesso lo dico in un modo un po’ buffo: una persona si trova presa in un gioco che non prevede le sue obiezioni, quindi sono nulla, non possono essere accolte, ecco, ciò che Freud rispetto alle nevrosi e alle psicosi, (...) sì non tanto nei confronti degli altri, io dicevo così per semplificare, ma soprattutto rispetto... proprio lì volevo arrivare, rispetto al proprio discorso. Come dicevo, uno può sapere molto bene ciò che avviene, ma non per questo non prova un’emozione. La difficoltà sta in questo, nel fatto che non c’è nulla al mondo per cui debba rinunciare a una cosa del genere, l’emozione lui la prova, lui può sapere perfettamente che cosa produce un’emozione, che cosa la consolida, la determina, a quali condizioni la posso provare, ma viaggiando in autostrada a 180 km all’ora se vede a distanza di 100 m una serie di macchine ferme, prova una certa emozione, nonostante sappia... e ancora di più quando si accorge che la macchina si è fermata in tempo, che se non si ferma allora ... cioè qualcosa avviene, ora sono queste forti emozioni che non sono rinunciabili, noi potremmo dire: ma è meglio provarle in un modo che in un altro, perché a noi piace fare un altro gioco?...

- Intervento: Qual è l’etimo di emozione?

Ex movere, muovere da.

- Intervento:...

Sì, in effetti il fatto è che nessuno non trova nessun motivo a fare questa operazione, lo scambio, appunto; eppure, eppure l’unico scambio che sembra di intravedere è quello con la teoresi, la ricerca pura e semplice e assolutamente fine a sé stessa, così come la sofferenza per altro.

- Intervento: Potrebbe essere che la sofferenza venga da questa ricerca, sia un modo della ricerca? Ciascuno è preso nella teoresi...

Difficile porla come struttura, posta così, come andiamo dicendo ultimamente sarebbe come porla come una sorta di procedura.

- Intervento: La ricerca viene dalla domanda, la domanda è strutturale, la domanda impone la ricerca, la domanda così banale che faceva Freud, da dove vengono i bambini?

A quale condizioni è possibile che una domanda si formuli? Si formuli nel senso che esista? Con formulare la domanda intendo porla in atto in qualche modo. Nella Sofistica la situavo tra il “che si dica” e il fatto “che si dica qualcosa”, però anche questo è da valutare. Sì, è un gioco che stavo facendo lì, ma in altri? O dobbiamo pensare che quando diciamo strutturali sia una sorta di verità sub specie æternitate, no, vedete che la questione non è semplice...

- Intervento: quando lei invece parla di teoresi...

Per teoresi intendo una elaborazione delle condizioni del linguaggio e quindi ciò che può intendersi come strutturale o meglio come invariante o come variante. Ciascuna volta uno può imporre, per così dire, alla teoresi le regole che ritiene più opportune, più confacenti all’obiettivo che vuol raggiungere, come fanno i logici: pongono degli assiomi che servono alla dimostrazione di certi teoremi, devono essere funzionali a quello che si vuole fare.