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16 marzo 2022

 

Il Sofista di Platone di M. Heidegger

 

Siamo a pag. 562 e sempre alle prese con questioni di grande interesse. Qui Heidegger parla del problema connesso con il τατον e l’τερον, lo stesso e il diverso. La presenza onnipervasiva dello τερον in ogni alcunché costituisce il suo essere diverso da ogni ente; cioè la presenza dello τερον costituisce il non-essere di ogni ente: “fa di ciascuno un non-ente”. Tenete presente questa cosa, è importante e poi si riproporrà: la presenza dell’τερον, di cui aveva già detto nelle pagine precedenti essere ineliminabile da ogni ente, è ciò che fa di ciascun ente anche un non-ente. Ricordatevi dell’espressione ποιεν, che abbiamo già incontrato: ποιεν = γειν είν ούσίαν (fare giungere qualcosa all’essere). Dunque l’essere-presente dello τερον conduce in un certo senso all’essere, all’essere-presente del non-ente. Perché questo τερον, questo diverso, è ciò che dà l’essere al non-ente, lo fa essere come qualcosa. Tutto, quindi – nella misura in cui abbiamo spinto la nostra dimostrazione fino a ciò che è διά πάντων -, è: tutto l’ente è, e al tempo stesso, in quanto ente, non è. Volevo sottolineare questo aspetto. Sta dicendo, in effetti, ciò che concerne la struttura, il funzionamento del linguaggio: ciascuna cosa è, ma al tempo stesso anche non è. Tutto il lavoro di Platone è stato fatto nella direzione di dire che il non-ente è. Lui verifica che in effetti c’è, e se c’è bisogna determinarlo e, soprattutto, porlo come separato dall’ente. Perché il dire che l’ente contiene il non-ente e ponendo questo non-ente come il diverso, come l’altro, è pericoloso, a meno che non si riesca a stabilire che questo altro è altro dall’ente e, quindi, non ha propriamente a che fare con l’ente e, soprattutto, non ne è la condizione. Se avesse ammesso una cosa del genere sarebbe ripiombato nell’eleatismo, e cioè il non-ente come condizione dell’ente e viceversa, per cui se tolgo uno, il non-ente, lo separo, mi scompare anche quell’altro. Sullo sfondo aleggia ciò che in seguito sarà mostrato espressamente: che tale non-essere è qui chiamato: τερον. Per lui è già importante questo, che il μή ν non si chiami più così ma si chiami τερον. Con questo τερον non si è soltanto ricavata la dimostrazione della sussistenza del non-ente, ma nel contempo si è raggiunto anche il terreno sul quale comprendere questo autentico “non”, la cui velatezza è stata finora possibile solo in virtù delle tesi di Parmenide. Poiché dunque lo τερον è presente in modo onnipervasivo, esso fa di ogni ente un non-ente. Questo è il problema con cui si è scontrato Platone. E precisamente, ora, abbiamo a che fare con un’altra modalità dell’esser-diverso. Ogni εδος, dice Platone, è molte cose, cioè, nella concretezza di ogni ente, preso nel suo “che cosa”, vi è in potenza ancora una molteplicità di altre determinazioni reali eventuali, suscettibili di essere messe in risalto singolarmente; ogni ente concreto ha una molteplicità di contenuti essenziali che possono essere indicati, per la trattazione dialettica, nel λέγειν di questo ν come compresenti nel puro νοεν; ed è proprio tale compresenza a costituire ciò che determina l’ν nel suo “che cosa”. Quindi l’ente è qualcosa che simultaneamente molte cose. Di nuovo qui c’è l’ν, l’Uno – tante volte ha posto l’ente come Uno; sì, ma è anche molte cose – e se l’ente è Uno è bene, se l’ente è molte cose è male, e questo ‘ha detto Platone in modo esplicito. Vi rendete conto della necessità di Platone di riuscire in questa operazione di separare l’ente dal non-ente, il bene dal male, la sofistica dalla dialettica. Questo perché se l’ente è anche non-ente non lo posso determinare, perché, come ha detto qui, l’ente è tante cose, ma quante è difficile a dirsi, è un po’ come parlare dell’infinito, dell’indeterminato. Ma se l’ente è indeterminato come posso giungere a dire che la dialettica mostra l’ente così com’è? Non lo può fare, ovviamente, ed ecco quindi la necessità di separare le due cose. Qui è data nel contempo l’impostazione di ciò che Aristotele evidenzierà in seguito come ρος… Ciascun εδοςCome spesso accade εδος può intendersi in molti modi, come immagine ma anche come il mostrarsi, come l’essere, ecc. …è dunque molte cose, e al tempo stesso è πειρον. Se è un qualche cosa è un quid, è qualche cosa, è Uno, ma abbiamo visto che questo Uno è fatto di tante cose, quindi, è indeterminato, è un πειρον … “e l’ente stesso”, è quel che è in questo modo: che esso, “nella misura in cui è gli altri, proprio in quella misura non è”. Perché se lui è una certa cosa, allora se guardiamo l’altro, l’altro non è quello, quindi, è un’altra cosa, e se lui è l’ente l’altro è non-ente: è una conclusione inevitabile, anche per Platone ovviamente. In altre parole, l’essere-altrimenti è il non-essere dell’ν, o viceversa il non-essere è “essere gli altri”. Sono tutte cose che possono apparire banalità, però per Platone, che le stava pensando, si stava parando innanzi un qualche cosa che poi, di fatto, non è mai stato risolto, è stato semplicemente accantonato, dimenticato, eliminato. Questo stato di cose all’interno dell’ente è facile da accettare, dato che ogni sussistenza propria, ogni γένος (ceppo) in quanto φύσις (essere) ha κοινωνία (comunanza) con gli altri. Qui appare affatto chiaro che solo a partire dalla κοινωνία può essere chiarificato l’essere del non-ente. È chiaro che deve essere in comunanza con altro. È ciò che vedevamo nelle pagine precedenti, cioè il modo in cui Platone ha colto che il linguaggio non è altro che relazione, perché κοινωνία viene, sì, tradotta con comunanza ma forse possiamo tradurla più appropriatamente come “relazione”; quindi essere in κοινωνία con altri significa essere in relazione con altri: è il πρόϛ τί, l’essere riferito ad altri, in relazione ad altri. In tal modo abbiamo considerato fin nel minimo dettaglio la trattazione dialettica fondamentale del Sofista, quella che viene comunemente individuata come il nucleo vero e proprio del dialogo… /…/ “Quando parliamo del μή ν, non diciamo qualcosa come un έναντίον (contrario) ciò che semplicemente si esclude rispetto all’ente, bensì τερον μόνον (semplicemente diverso) … Non è il contrario, è ciò che è diverso. …con μή ν intendiamo soltanto un altro”. Questo “soltanto”, τερον μόνον, significa che l’ν viene conservato. Perché l’Uno sarebbe l’esclusione, il μή ν dice non ente, che non c’è l’ente, quindi, si esclude. Era la posizione apparente di Parmenide: il non-essere non c’è, non se ne può parlare. Qui, invece, si mantiene. È la differenza che ponevano i Latini rispetto all’aut aut e al vel, dove nel vel la disgiunzione non è esclusiva, si scrive e/o, li mantiene entrambi; mentre l’aut aut è una disgiunzione esclusiva, o uno o l’altro, non entrambi. In termini forti: l’essere del “non”, il μή, non è nient’altro che la δύναμις del πρόϛ τίLa potenza della relazione, cioè, il poter essere in atto della relazione. …la presenza dell’essere-per. Questa è soltanto la formulazione più netta che la nostra interpretazione offre dell’idea di κοινωνία. A questo punto traduciamo κοινωνία con relazione e va bene. L’essere del non, il μή nel senso dello τερον, è la δύναμις del πρόϛ τί. La potenza dell’essere in relazione con qualcosa. Potenza, non atto: infatti, parla di δύναμις. Il πρόϛ τί è qualcosa che è in relazione ma che “può” essere in relazione. Infatti, poi Aristotele dirà che se può essere in relazione è in relazione. Non è invero questo il modo in cui Platone presenta le cose, ma ciò è implicitamente racchiuso nell’idea della κοινωνία. /…/ Ciò che unicamente gli preme è che lo τερον è un νCioè, che l’altro è un ente. Ma lui ha posto lo τερον come μή ν, come non-ente; come dire a questo punto che il non-ente è un ente. …che quindi esso contiene in sé qualcosa di più di una semplice esclusione. L’άπόφασις (negazione) non può pertanto essere interpretata come se, nel negare, il “contro” fosse inteso soltanto nel senso di una esclusione. Invece, il negare significa soltanto che nell’anteposizione dell’ούκ o del μή (particelle usate dai Greci per il “non”) mostra qualcosa di ciò che segue, di ciò in riferimento a cui quel μή viene pronunciato. Come dire: dicendo “non” sto dicendo “non qualcosa”, se nego, nego qualcosa. Anche il negare è sempre un dire. L’άπόφασις è qui espressamente caratterizzata come τί μηνύει, “essa mostra qualcosa”, e cioè τν πραγμάτων, “delle cose stesse”. Potremmo dire: il loro esser-ci. /…/ Questo parlare che nega è presentificante… Perché se io nego qualche cosa, nel negarlo appunto sto negando qualche cosa e questo qualche cosa che nego c’è nel momento in cui lo sto negando. …porta alla vista qualcosa… Qui la vista adesso diventa importante …l’essere altrimenti del πραγμάτα (delle cose) che si fanno incontro come tali all’interno di un orizzonte già dato di interconnessioni reali. In tal modo, l’έναντίον, in quanto vuoto “contro, si distingue dal concreto “altro”. Questa è la cosa che a Platone premeva. È interessante ciò che qui ci fa notare Heidegger, senza però coglierne tutta la portata, e cioè l’essere altrimenti del πραγμάτα (delle cose) che si fanno incontro come tali all’interno di un orizzonte già dato di interconnessioni reali, cioè, cose che sono date all’interno di un sistema, di un insieme di relazioni, cioè, del linguaggio. Tutto questo naturalmente sfugge a Heidegger. Con la distinzione dell’έναντίον, del vuoto “contro”, rispetto allo τερον, al concreto “altro”, è anche già prefigurata un’indicazione in vista di una concezione più netta del λόγος. Di contro al cieco rivolgersi a qualcosa nel puro nominare che identifica, vi è un vedere che lo scopre nel “come” della sua presenza insieme ad altri. Anche questo è straordinario, che Heidegger riesce a dire senza accorgersene. Verrebbe da dire così perché, in effetti, quando dice cieco rivolgersi a qualcosa nel puro nominare che identifica, vi è un vedere che lo scopre nel “come” della sua presenza insieme ad altri, questo qualche cosa viene scoperto nel suo “come”, nel modo in cui c’è, – se togliamo il modo in cui qualcosa c’è, scompare anche il qualcosa – e questo soltanto in relazione ad altri, cioè preso in una connessione di relazioni. E di contro alla mera cieca esclusione he consegue da tale nominare identificante vi è – se l’interpretazione dell’άπόφασις sussiste a buon diritto – un parlare negativo che, scoprendo, fa appunto vedere qualcosa nelle cose negate. Cioè: la negazione fa vedere ciò che sta negando. Qui c’è un altro aspetto, di cui parlerà ancora, rispetto al vedere: il discorso è ciò che fa vedere, non soltanto all’interlocutore ma allo stesso parlante che dicendo è come se vedesse ciò che dice. Quindi, non è soltanto una figura retorica, nota come ipotiposi, quella figura per cui la descrizione è talmente vivida che fa apparire ciò che sta descrivendo, ma anche nel proprio pensare c’è comunque il vedere. Dunque il non, la negazione, è inteso come un non che dischiude. Quindi, il “non” non esclude ma dischiude, il che è molto diverso. L’annientamento nel λέγεινAnnientamento tra virgolette, perché di fatto non annienta, lo abbiamo appena visto. …il dire-di-no, è un far vedere, non però al modo della mera esclusione rispetto a un puro porre che nomina, non al modo del far-scomparire, del condurre-davanti-al-nulla ciò che viene detto. Ma del dischiudere qualcos’altro. Che cosa dischiude? Dischiude una relazione, non può dischiudere nient’altro che quello. Dischiudere è un mostrare. In fondo anche la negazione è una relazione particolare. Nel campo di questa nuova scoperta dello τερον, in contrasto con il vuoto έναντίον (contro), possiedono dunque entrambi, l’uno e l’altro, la piena dignità della presenza, dell’essere. Si tratta di un peculiare modo della dimostrazione; non una dimostrazione vera e propria, bensì una esibizione nel senso della concrezione dell’alterità. Insieme con l’alterità è dato anche che, poiché essa abbraccia l’uno e l’altro nel modo dell’essere diversi, l’uno e l’altro sono. Come nel vel: e/o, in entrambi i casi sono. In tal modo Platone ha ottenuto un μή ν in quanto ν. Che è quello che in fondo voleva, e cioè identificare il non-ente, determinandolo come ente. Lui pensa di avere risolto almeno la prima parte del problema. Non ha invece tenuto conto che, ponendo la questione in questi termini, diventa ancora più complicato, perché poi si tratta di trovare il modo, il metodo per tenerli disgiunti, separati, mentre per determinarlo ha dovuto ammettere che il non-ente è nell’ente come diverso, come τερον, certo, ma è nell’ente. L’ente è fatto anche di non-ente, per cui se tolgo il non-ente tolgo anche l’ente. È questo il problema che Platone, di fatto, non incontra, e non lo incontra perché chiude il dialogo. Adesso Platone si dimostra manifestamente consapevole di questa nuova, fondamentale scoperta del μή ν. Egli ne dà una chiara formulazione in ciò che la concerne, dicendo: non solo abbiamo mostrato che il μή ν è ma in secondo luogo e soprattutto abbiamo fatto sì che si esibisse τό εδος, l’aspetto di questo stesso μή ν. Si fa vedere. Ricordate che tutto il dialogo verte verso questo obiettivo: fare vedere, fare uscire allo scoperto il sofista, quindi, mostrarlo per quello che è. Aveva detto che lui si nasconde nel non-ente. Ora, individuando il non-ente come ente, è come se avesse tolto al sofista il suo nascondiglio, non può più nascondersi lì perché è stato evidenziato. Abbiamo mostrato come si presenta il μή ν stesso. Tale esibizione include una duplicità. Abbiamo inseguito la sua stessa visibilità e abbia 1. evidenziato l’essere come alterità, rendendo così comprensibile la sua struttura come άντίθεσις; il μή ν è qualcosa che, da un lato, è un differenziato di contro ad altro, dall’altro lato però tale differenziato è a sua vota ridondante… Perché? Perché è πρόϛ τί, è sempre proiettato sempre verso qualcosa. Il τί da una parte lo evidenzia, certo, ma lo evidenzia come πρόϛ τί, come qualcosa che è in relazione ad altro. Con ciò abbiamo al tempo stesso mostrato come la possibilità di commutazione dell’alterità compenetri capillarmente, in ogni dettaglio, qualsiasi ente; ogni altro concretamente reale è se stesso in virtù della provenienza da un determinato γένος, così da poter essere contrapposto all’uno come un altro. In questo modo è come se lui avesse spezzettato questa alterità. Tenete sempre conto che l’obiettivo di Platone è quello di trovare il modo di separare l’ente dal non-ente. A questo punto, certo, c’è il non-ente, ma c’è in quanto altro, rispetto all’ente …nel contraddire, ovvero nel dire-no unicamente a ciò cui ci si rivolge, appigliarsi all’identità e univocità esteriore della parola, perché ci si dedica solo al diverbio, e non al parlare insieme su una cosa. Qui chiaramente parla dei sofisti e pone sempre la differenza tra il sofista e il dialettico, cioè il filosofo: il filosofo vuole trovare l’ente per come è e, quindi, non gioca con le parole, contrariamente al sofista che fa esattamente questo, gioca con le parole. Qui dunque Platone contrappone al διαλεκτικός, ovvero al διαλέγεσθαι (discutere insieme di una cosa), l’άντιλογικός, ovvero l’έριστικός e l’έριζεινTutte quelle attività tipiche del sofista: il contraddire, il contraddittorio, le antilogie, ecc. …la mera schermaglia verbale. Ma contro la tesi qui menzionata non c’è nulla da obiettare finché non si è reso perspicuo che il λόγος è qualcosa d’altro rispetto al λέγειν del ταύτόν. Il λόγος può fare un’infinità di cose, non è sempre necessariamente un λέγειν del ταύτόν, cioè un discoro sullo stesso. Questo compito all’apparenza affatto formale ha una portata tale da rendere finalmente possibile la scienza dialettica. La scienza dialettica compare nel momento in cui il λόγος diventa λέγειν del ταύτόν, cioè diventa un discorso che deve avere come obiettivo lo stesso, cioè l’ente in quanto tale, mentre il λόγος va in tutte le direzioni, e invece no, il λόγος deve essere λόγος dello stesso, un discorso sullo stesso. Per la prima volta è posto qui il problema della negazione, e viene compiuto un primo passo al suo interno. Ciò necessita di una breve chiarificazione fenomenologica. Ogni “non” in ogni dire-no, non importa se in termini espliciti o meno, essendo un parlare di… possiede il carattere del far vedere. Anche il “non” fa vedere qualcosa. Anche il vuoto “non”, la mera esclusione di qualcosa rispetto a qualsiasi altra cosa, mostra, e però fa vedere unicamente ciò su cui la negazione è fondata, cioè quello che, nel dire-no, viene delimitato rispetto al niente. Questa vuota negazione mette il ritenere, cioè il λέγειν e il νοεν, al cospetto, per così dire, del niente: non fa vedere niente altro se non il terreno stesso su cui insiste la negazione. Questo è il senso della negazione in Parmenide. Ancora lui insiste su questa distinzione tra la negazione assoluta, quella che lui attribuisce a Parmenide, e invece quella negazione che consente a lui di dire che il non-ente è, anche lui, un ente. Cosa che peraltro Parmenide non ha mai negato, nei suoi scritti non c’è nulla che dicesse una cosa del genere. Dice: il non-essere non è, ma a fianco dobbiamo leggere che “essere è pensare” e, quindi, non-essere come non-pensare; e, allora, certo che non è, ciò che non è pensiero è nulla, sarebbe il nihil absolutum. Qui c’è una breve cosa su Aristotele, che possiamo leggere. Aristotele riassume tutti i possibili modi dell’essere-opposti, del “contro” e del “non” nel senso più ampio, con il termine formale di άντικείμενον (opposti). Egli distingue quattro modalità degli άντικείμενα: 1. l’άντιφασις, la contraddizione, da lui scoperta per la prima volta, anche se è latente già in Platone; e però è possibile vedere la contrad-dizione soltanto se si ha una visione della φασις (del dire) stessa; 2. l’opposizione di ξις e ςτέρησις (possesso e privazione), 3. gli έναντία (gli opposti), 4. Τά πρόϛ τί (le cose che sono in relazione a). Aristotele ha schematizzato tutte le possibili variabili dell’opposizione. Esempio di άντιφασις è: A è B – A non è B; di ξις e ςτέρησις (possesso e privazione): uno è mosso – uno è immobile; di έναντία (opposti): bello – brutto; di πρόϛ τί (in relazione a): doppio – metà, prima – dopo. Sono quelli che la linguistica chiamerebbe termini sincategorematici, che sono quei termini che non possono stare da soli, come ‘prima’ e ‘dopo’: prima di che cosa? Dopo che cosa? Categorematici sono invece i termini che possono stare da soli, come i nomi propri, che possono stare da soli, non sono dipendenti da qualche cos’altro. Inoltre Aristotele ha concepito più precisamente l’έναντίον (il contrario), cioè il platonico τερον. In Aristotele τερον diventa έναντίον (il contrario), mentre Platone non voleva che fosse il contrario, lui voleva che fosse τερον, che fosse il diverso, non il contrario. Rispetto a Platone ha visto più chiaramente che è costitutivo dell’έναντίον uno stesso, solo rispetto al quale diventa possibile una διαφορά (divisione). Perciò egli ha svolto le sue indagini nella medesima prospettiva, in relazione alla quale qualcosa può essere detto altro rispetto all’uno. Una volta che può essere rappresentata questa prospettiva identica, unitaria, da un lato mediante il γένος (ceppo), dall’altro tramite l’εδος (aspetto), ne risulta una differenza all’interno dello έναντίον. È in tale contesto di una visione più precisa dell’έναντίον e in genere dell’opposizione che ha modificato i concetti puramente ontologici di γένος e εδος, ceppo, origine e visibilità, in categorie propriamente logico-formali, che poi avranno un ruolo come genere e specie. /…/ Perché sia data la possibilità di un λόγος ψευδής (discorso falso), ovvero la κοινωνία di un ν e di un μή ν, è innanzitutto essenziale che sia manifesta l’impossibilità “che tutto possa essere separato da tutto”. Questo può apparire una banalità, per Platone non lo era affatto e non lo è nemmeno oggi: è necessario che ogni cosa non sia svincolata da ogni altra o, per dirla molto rozzamente, che qualunque parola non significhi simultaneamente tutte le altre. Sarebbe complicatissimo parlare. Una simile cosa equivale “a far sparire totalmente ogni rivolgersi a qualcosa”. Se non vi è assolutamente alcuna relazione… D’ora in poi traduco κοινωνία con relazione. …allora non è nemmeno possibile esibire alcunché, e allora non è dato neppure alcun accesso a una visione, agli εδη, e con ciò è cieco il λέγειν e così pure l’esistere dell’uomo, ζον λόγον χον. ζον λόγον χον è ciò che Heidegger intende con Dasein, l’esser-ci. Qui dice però una cosa fondamentale, cioè, se ciascuna cosa non è in relazione con altre non si può parlare. …e solo se è dato un λέγειν è possibile l’esistenza umana. Per questa ragione è innanzitutto necessario conquistare con tutte le forze la possibilità, l’ammissione “della mescolanza dell’uno con l’altro”, o in altre parole: la presenza dello τερον nell’ν. Platone si è scontrato con questo problema: se le cose non sono in relazione non sono, ma siccome sono, perché ne parliamo, le trattiamo, ecc., vuole dire che sono in relazione. Tenete conto che Platone, e Aristotele dopo di lui, erano molto ferrei nelle argomentazioni, cioè, avevano in fondo una grandissima fiducia nella capacità argomentativa, Platone ancora di più di quanto lo sia stato per Aristotele. Aristotele ha, sì, inventato la logica ma, in fondo, ha formalizzato la dialettica di Platone. E sappiamo anche perché era così importante l’invenzione della dialettica e della logica, perché solo la dialettica e la logica mostrano o illudono di mostrare, di fare vedere l’ente per quello che è, così com’è, ταύτόν, direbbe Platone. Il che è una contraddizione in termini, perché il mostrarlo per se stesso, fuori da una relazione, non è possibile. È questo che è sfuggito a Platone, non è stato il solo perché dopo di lui non lo ha visto nessuno: se non è in relazione non c’è nemmeno quello, ma se è in relazione vuole dire che dipende da qualche cos’altro; e questo ente, che io voglio mostrare per quello che è, è sempre quello che è πρόϛ τί, in vista di un altro, direbbe Heidegger: è sempre un in-vista-di… Cosa che poi lui ha elaborato come “progetto gettato”: è il πρόϛ τί il progetto gettato …se fossimo derubati del λέγειν, di quanto di più nobile costituisce il nostro essere, saremmo privati della filosofia. Quasi a sottintendere che saremmo in balìa dei sofisti, degli eleati, e non ci sarebbe più nessuna possibilità di stabilire come stanno le cose, cioè, di imporle a qualcuno, in definitiva. Stabilire come stanno le cose serve a questo, a poterle imporre a qualcuno, sennò cosa volete che importi a qualcuno di stabilire come stanno le cose? Stanno così o cosà, è lo stesso. Ma se devo imporle allora il discorso cambia, devo persuadere l’altro che stanno proprio così, come dico io. È infatti evidente che all’interno dei cinque γένηRicordate, sono l’identità, l’alterità, movimento, quiete, ecc. Qui lui dice che è importante mantenere che ci siano κίνησις e στσις rispetto all’ente, allo stesso e al diverso. Perché a lui interessa questo? Perché non è che sia fissato così, movimento e quiete; no, perché movimento e quiete sono la condizione della conoscenza. La conoscenza è sempre un muoversi verso qualche cosa che non si conosce e, quindi, si parte da qualche cosa che deve essere conosciuto, e se è conosciuto è στσις, è fermo, ma questo fermo si muove verso qualcosa che deve essere conosciuto, ed ecco il movimento. Κίνησις e στσις sono la condizione della conoscenza, è per questo che non li abbandona mai. Ecco dunque il risultato di tale indagine: lo τερον può κοινωνεν (relazionarsi) con la κίνησις, cioè con la ψυχή Qui ψυχή è inteso come uomo, come l’esser-ci, come il Dasein, cioè, ζον λόγον χον …con il λόγος. Qui κίνησις non è una nozione generica, bensì è il titolo a priori per ψυχή, λόγος, e precisamente nel senso del μεταξύ (interconnessione, ciò che sta a metà tra due), benché non chiarito. Se dunque è la κίνησις il tema della trattazione dialettica, allora questo tema altro non è che l’esistere umano, la vita stessa, in quanto essa si esprime e si rivolge al mondo in cui è. È questo che pensava Platone: il movimento non è altro che l’essere dell’uomo; l’uomo si muove continuamente, si sposta, ora è qui, ora è là, e poi pensa, costruisce cose, per conoscere ci deve per forza essere questo movimento; quindi, il movimento è l’essere stesso, è la ψυχή, l’uomo. …anche la στσις … si rivela come la determinatezza a priori dell’ente stesso… Ciò che consente di determinarlo, perché consente la conoscenza …e precisamente come quella determinatezza che rende possibile in esso il suo essere scoperto da parte del λέγειν, ciò che rende possibile la conoscibilità. Infatti, στσις non significa nient’altro che άεί ν, ciò che è sempre… Certo, quando io voglio pensare qualche cosa, qualunque cosa sia, parto da qualcosa che so, che suppongo di sapere, ma che immagino essere proprio quella cosa, perché se cominciassi a porlo come qualche cosa che è τερον, come faccio a partire da lì? Non so dov’è, si muove continuamente. Quindi, deve essere in quiete, deve essere στσις. E deve essere così sempre, non è che questa cosa, che mi si sta mostrando in questo istante, tra un attimo sarà tutt’altro, anche questo non lo posso pensare, se lo pensassi non potrei costruire nulla a partire da lì; quindi, devo pensare che sia sempre. Questo significa che ciascuna cosa che le persone pensano, quelle cose note come opinioni, sono delle cose pensate da ciascuno come cose che sono sempre. Ciascuno pensa che la sua opinione dovrà sempre essere così, perché è pensata, come dicevano i Latini, sub specie æternitate, nel modo dell’eternità. …affiora per Platone il fenomeno del tempo, come quel fenomeno che determina l’ente nel suo essere: il presente, παρουσίαουσία, sostanza, viene da παρουσία, il mostrarsi: la sostanza viene da ciò che si mostra, dal farsi vedere di qualche cosa. Ma per potere farsi vedere in quanto essere, in quanto sostanza, occorre che sia quello che è. Platone, sì, certo, ha voluto mostrare l’ente così come lui è, ma è ciò che tendenzialmente pensavano i Greci, in realtà, e cioè che l’essere, l’ουσία, la ψυχή, il λόγος sono quello che vedo. Tutte queste cose, l’essere, l’ουσία, la ψυχή, il λόγος, indicano tutte un’unica cosa che permane, che è quello che vedo, che è quello che incontro. E il λέγειν, il dischiudere l’ente rivolgendosi ad esso, non è nient’altro che il rendere-presente la visibilità dell’ente stesso e quindi questo stesso in ciò che esso è… Renderlo visibile, cioè, parlando io rendo visibile l’ente, lo vedo. Questo è interessante perché non lo vedo con gli occhi – tra poco lo dirà –, lo vedo con il νοεν, con il pensiero. È così il λόγος – e con esso l’uomo, il filosofo, il sofista, la suprema possibilità di esistenza – il tema di questo cavillare all’apparenza astratto. In realtà sta parlando dell’esistenza dell’uomo: l’uomo esiste in relazione alle cose che incontra, lui è le cose incontra, come dirà Heidegger: lui è il mondo in cui si trova, e per i Greci era lo stesso. Tutti questi aspetti, come dicevo prima, l’ουσία, la ψυχή, il λόγος, ecc., sono tutti “sinonimi”, tra virgolette perché non sono veri e propri sinonimi che mostrano la stessa cosa, cioè, l’esistenza dell’uomo, il modo in cui ciascun umano esiste, che esiste in quanto parlante, ovviamente: ζον λόγον χον. Se però l’essere inganna, allora tutto è necessariamente pieno di είδώλα, είκόνες, φαντασίαι. Se la parola può ingannare, allora tutto è pieno di simulacri, di immagini, di fantasie. Είδώλα: quegli elementi visibili che si limitano ad apparire-come, ma non sono ciò per cui si spacciano; είκόνες: immagini, raffigurazioni di qualcosa che esse stesse non sono; φαντασίαι: inteso nel senso platonico, come φαινεται: ciò che si mostra, ciò che si limita ad apparire-come… questi sono termini con cui Platone si è incontrato e che gli rendono la vita difficile nel volere giungere a cogliere l’ente per quello che è, cioè l’ente non ingannevole ma l’ente vero, autentico. Pertanto, l’ostensione della congiungibilità di λόγος e τερον, cioè del λόγος ψευδής conduce al contempo alla possibilità di comprendere i fenomeni peculiari dell’είδώλον, dell’είκών, della φαντασία. Si tratta di un fenomeno enigmatico: qualcosa è in quanto ciò che al tempo stesso non è. Adesso Platone ha raggiunto una comprensione di tale fenomeno, avendo con ciò fatto un passo avanti verso la comprensione ontologica dell’αίσθητον stesso. Bisogna abbandonare l’abitudine di inserire la filosofia platonica nell’orizzonte scolastico secondo cui Platone vedrebbe da una parte la sensibilità e dall’altra, come in un’altra cesta, il sovrasensibile. Egli ha visto il mondo in termini altrettanto elementari di come lo vediamo noi stessi, solo in maniera assai più originaria di noi. Per Platone ciò che vedeva era una domanda, che non permane più oggi in quanto si suppone di avere ottenuta la risposta.