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Parmenide di M. Heidegger

 

 

16-3-2016

 

Pag. 201: Il dire iniziale di una parola viene generalmente occultato e soffocato dai suoi significati. (Il dire iniziale per Heidegger è lasciarsi interrogare da qualcosa, lasciare cioè che qualcosa venga incontro, questo dire dice lui “viene soffocato dai suoi significati” ovviamente i significati sono qualche cosa che giunge a rispondere alla domanda ma la domanda a questo punto è come se venisse imbrigliata nel significato, chiusa nel significato cessa di domandare, cessa di essere la parola iniziale. A pag. 203 A differenza di tutte le altre, compresa quella cristiana, l’essenza fondamentale della divinità dei greci si fonda sul fatto che gli dei greci traggono origine dall’essenza e dall’essere che è essenzialmente sicché anche la lotta tra i vecchi e i nuovi dei quelli olimpici altro non è che il conflitto che radicandosi nell’essenza dell’essere ne determina l’apertura nello schiudersi della sua essenza, nel medesimo contesto essenziale rientra il fatto che sia gli dei, sia gli uomini greci nulla possono di fronte al destinamento quindi nulla possono di fronte al destinamento e contro di esso, la Μορα (la dea del fato) è essenzialmente al di sopra degli dei e degli uomini mentre, per esempio, pensato in senso cristiano ogni destino è opera della divina provvidenza, del dio creatore e redentore che in quanto creatore padroneggia e calcola ogni ente in quanto ente creato, ragione per la quale ancora Leibniz dice “cum deus calculat, fit mundus” (cioè poiché dio calcola allora è dato il mondo). Gli Dei dei greci non sono personalità e persone che padroneggiano l’essere (come è il dio cristiano) ma l’essere stesso che guarda entro l’ente (questo gli servirà poi per intendere meglio la questione del δαίμων e dell’in-solito che squarcia il solito) tuttavia è proprio perché l’essere ovunque e in ogni momento supera infinitamente ogni ente e se ne distingue che là dove, come nel caso dei greci, l’essenza dell’essere è pervenuta inizialmente nello svelato gli dei sono ancora più superiori, ovvero in termini cristiani e moderni, più spirituali, e immateriali nonostante gli elementi umani che vi si possono individuare. Proprio il fatto che gli dei sono damones che appaiono contemporaneamente nell’apparire in ciò che è abituale e solito, costituisce il loro carattere in-solito talmente puro nella misura e nella mitezza che nel loro apparire, aδώς e χάρις il pudore e la benevolenza dell’essere risplendono in anticipo in ogni cosa, risplendendo mostrano e mostrando dispongono (nella concezione greca dio non è qualcuno come nella concezione cristiana, qualcuno che è il padrone assoluto, il dio cristiano è l’apoteosi della fantasia di potenza, della volontà di potenza perché può tutto, per il greco no, il dio non è altro che l’essere, ciò che si disvela, ciò che appare, ciò che si mostra e consente all’ente di darsi e che quindi irrompe nell’ente, appunto sarebbe l’in-solito che irrompe nel solito mostrandolo differente) Ora il nome e la nominazione del divino qeŒon come ciò che guarda e risplende entro non sono soltanto un contrassegno meramente fonetico, il nome inteso come la parola prima è ciò che fa apparire quanto va nominato nel modo in cui esso è nella sua essenza iniziale, ma l’essenza dell’uomo esperita in senso greco si determina in base al riferimento dell’essere che si schiude all’uomo, di modo che l’uomo è colui che ha la parola, (“l’essere si dischiude all’uomo” nel senso che è qualcosa che si incontra, che si incontra e che apre, potete immaginarlo come una domanda, la domanda che apre a un discorso, che apre a un racconto, che apre alla parola di fatto) tuttavia secondo la sua essenza la parola è il far apparire l’essere nominandolo (“la parola è il far apparire l’essere nominandolo” quindi qui a questo punto invece è la parola che fa apparire l’essere, lo fa apparire non che lo faccia esistere, ma lo fa apparire, poi ovviamente facendolo apparire anche lo fa esistere) L’uomo è lo ton logon com l’ente che si schiude nella nominazione e nella saga (la saga è il racconto) e che nel dire custodisce la sua essenza (è nel dire che l’uomo custodisce la sua essenza, la sua essenza è quella di essere appunto colui che parla, questa è la sua essenza, essere parlante) la parola in quanto nominazione dell’essere cioè il μύθος nomina l’essere nel suo guardare entro e risplendere iniziali nomina cioè to θεον gli dei (gli dei sono appunto questo in-solito che è l’essere) Proprio perché to qeŒon e to δαιμόνιον “il divino” sono l’in-solito che guarda entro la svelatezza e si manifesta nel solito, ne consegue che il μύθος la cui essenza si determina a partire dallo svelamento in modo altrettanto essenziale di quella del θεον e δαιμόνιον è l’unica modalità adeguata in riferimento all’essere che appare. (qui il mito, il racconto, la saga la cui essenza dice Heidegger si determina a partire dallo svelamento quindi dall’λήθεια, dice che è l’unica modalità in cui appare il divino, cioè perché ci sia l’insolito. Occorre che ci sia il solito, e perché ci sia il solito occorre parlare, cioè occorre il mito, la saga, il racconto, il discorso, la parola, quindi è solo nella parola che c’è qualcosa di solito e quindi c’è l’irruzione dell’in-solito) perciò il “da dire” e il detto della saga sono il divino in quanto apparire e in quanto percepito nel suo apparire, perciò il divino è il mitico, perciò la saga degli dei è mito, perciò in fine solamente l’uomo esperito in modo greco e solamente esso, nella sua essenza e conformemente all’essenza dell’λήθεια, è colui che dice dio (cioè soltanto il greco dice dio pensandolo come l’essere, cioè pensandolo come quella irruzione. Adesso facciamo una connessione con la linguistica: soltanto l’uomo greco coglie l’irruzione del significato nel significante, nel senso che lo lascia essere, lo lascia essere perché accoglie l’essere, accoglie l’insolito, accoglie cioè il δαίμων, qui il significato ovviamente è in un’accezione diversa da quella di cui parlava prima “la parola iniziale è soffocata dal significato” qui il significato non è altro che l’in-solito, l’in-solito è ciò che non è previsto ovviamente, se no sarebbe solito, ciò che non è previsto è ciò che dicendo interviene, interviene in sovrappiù rispetto a ciò che si dice, quel “di più” di cui parlava anche Derrida, quel in più che c’è nel dire, come dire che l’insolito è qualcosa che eccede rispetto al solito) pag. 209 Questo richiamo del divino fondato sull’essere stesso viene recepito dall’uomo nel detto e nella saga poiché è solo e anzitutto nel dire che accadono sia lo svelamento del non velato sia la messa al riparo dello svelato anzitutto e solamente nella parola intesa come “svelare” la visione è essenzialmente presente entrando nello svelato (ricordate che diceva che la svelatezza è qualche cosa che si strappa via dal velato) soltanto nell’ambito di svelamento della parola, cioè del percepire che dice, la visione guarda al veder vero quell’apparente mostrarsi che essa è, solo se riconosciamo il rapporto originario fra l’essenza dell’essere e la parola siamo in grado di comprendere perché nella grecità e unicamente in essa al divino to teion deve corrispondere il dire della saga o μύθος, tal corrispondere è in generale l’essenza essenziale di ogni corrispondenza (quindi al divino e all’in-solito che irrompe nel solito lui dice “a questo deve corrispondere il dire della saga cioè del mito, c’è un’irruzione dell’in-solito e a questo corrisponde nel senso che risponde insieme con lui il mito, il mito, il racconto sorge da questo insolito, cioè dall’irrompere dell’in-solito nel solito, se volete dirla freudianamente, il racconto sorge dall’insorgere delle fantasie in ciò che si dice) Qui si parla di arte in riferimento al modo in cui l’opera d’arte lascia apparire l’essere e lo porta nella svelatezza. Pag. 213: La statua e il tempio stanno nello svelato in un dialogo silenzioso con l’uomo, se non ci fosse la parola silenziosa il dio guardante non potrebbe mai apparire in quanto visione della statua e dei suoi tratti formali così come il tempio senza stare nell’ambito di svelamento della parola non potrebbe mai esistere quale dimora di dio. Il fatto che i greci non abbiano descritte e commentato esteticamente le loro opere d’arte dimostra che esse se ne stavano ben custodite nella chiarezza della parola senza la quale una colonna non può essere colonna, un timpano non può essere timpano, un fregio non può essere fregio (soltanto se c’è la parola, quindi soltanto se la parola crea un racconto allora è possibile che le cose siano quelle che sono) Solo ed esclusivamente con il loro poetare e pensare i greci esperiscono in modo essenzialmente incomparabile l’essere nella svelatezza della saga e della parola le loro architetture e le loro sculture possiedono quella nobiltà del costruito e del plasmato che le contraddistingue, queste opere sono soltanto nel medium della parola cioè della parola essenziale e dicente quindi nell’ambito della saga del mito (quindi vedete che in Heidegger la questione della parola è fondamentale, ripete continuamente che soltanto nella parola accade qualche cosa e ciò che accade è l’irruzione dell’in-solito nel solito, cioè accade qualche cosa di non previsto, ma l’irruzione dell’ insolito nel solito non è altro che l’accadere dell’essere, del disvelarsi dell’essere, questo disvelarsi dell’essere è ciò che consente il dire, che consente la produzione del dire, e anche la produzione artistica, che è poi la stessa cosa) (Pag. 214) Nel μύθος appare il δαιμόνιον (nel dire, nel racconto, è lì che compare, che accade qualche cosa) come la parola e l’avere parola reggono l’essenza dell’uomo cioè il riferimento dell’essere all’uomo così con la medesima ampiezza essenziale vale a dire in riferimento all’insieme dell’ente il δαιμόνιον determina il tratto fondamentale dell’essere riferito all’uomo (quindi “il δαιμόνιον determina il tratto fondamentale dell’essere riferito all’uomo”, l’essere chiaramente non può non essere riferito all’uomo, infatti lui parla di “esserci” non qui ma in altri testi, è il δαιμόνιον che determina questo tratto per cui l’essere riguarda l’uomo, perché il δαιμόνιον è essere e appunto sempre l’in-solito) Ovviamente con la traduzione romana cristiana nel senso della beatitudine cioè dello status del beatus l’εδαιμονία è stata trasformata in mero attributo dell’anima umana la beatitudine, ma εδαιμονία significa l’ε che domina in misura adeguata ovvero l’apparire e l’essere presente nel δαιμόνιον, quest’ultimo non è uno spirito che dimora da qualche parte nel profondo del petto, il discorso socratico platonico circa il δαιμόνιον come voce interiore significa soltanto che il suo disporre e determinare non giunge dall’esterno, da qualche ente lì presente bensì dall’essere stesso invisibile e inafferrabile che è più vicino all’uomo di qualsiasi appariscente disponibilità dell’ente (è chiaro che è più vicino nel senso che sempre tornando alla questione del solito e dell’in-solito ciascun ente non può darsi se non c’è l’essere, cioè se non c’è l’in-solito, se non c’è il significato) Il luogo in cui il δαίμων, il divino, l’in-solito che si dà entrando nella svelatezza deve venire propriamente detto, questo luogo è il dire una saga, μύθος, alla fine del dialogo platonico sull’essenza della polis si parla di un δαιμόνιον τόπος cioè il luogo del demonio ora comprendiamo cosa vuol dire questa denominazione τόπος, in greco significa luogo ma non nel senso del mero posto entro una pluralità di punti ovunque indifferenti, l’essenza del luogo consiste nel fatto che essi in quanto rispettivo “dove” mantiene raccolta la cerchia di ciò che in virtù di una coappartenenza appartiene al luogo e rientra in esso, il luogo è l’originariamente raccogliente contenere ciò che si coappartiene ed è quindi per lo più qualcosa di molteplice a causa della reciproca appartenenza di luoghi riferiti l’uno all’altro ciò che chiamiamo una località. Nell’ambito stesso della località vi sono dunque vie, percorsi, cammini un δαιμόνιον τόπος è una località in-solita, il che ora significa un “dove” entro i cui siti e percorsi l’in-solito risplende espressamente in cui l’essenza dell’essere è essenzialmente presente in un senso eccellente (ora parlare di topos δαιμόνιον cioè di luogo che come dice lui non è un posto localizzato in un qualche cosa ma lo accosta a ciò che si intende con località, un qualche cosa quindi che raccoglie molti elementi, non è un punto nello spazio, raccoglie molti elementi cioè si tratta di una connessione di elementi, questo l’in-solito che interviene, il significato, questa fantasia non sono un elemento che interviene ma un insieme di elementi, e cioè una combinazione di elementi, il significato è una combinazione di elementi che interviene in ciò che si dice per rendere ciò che si dice insolito, insolito cioè dicevamo la volta scorsa non familiare, io penso di dire una cosa che mi è familiare ma in questa cosa che io credo che sia familiare c’è del “non familiare” cioè l’Unheimliche) Un simile pensiero pensante implica ovviamente (Pag. 220) un sapere, un’accuratezza della meditazione e della parola che superano essenzialmente ogni pretesa di esattezza meramente scientifica, secondo l’esperienza dei pensatori greci questo pensiero rimane sempre un salvare lo svelato dal velamento inteso nel senso della sottrazione occultante, tale sottrazione viene esperita nel senso più originariamente che in qualsiasi altro ambito. (questo che sta dicendo qui “il pensiero rimane sempre un salvare lo svelato dal velamento” è importante, salvare lo svelato dal velamento cioè dalla λήθη significa “prendersi cura” in un certo senso dello svelato, significa prendersi cura dell’essere in modo particolare perché ciò che si svela, ciò che appare è sì certo l’essere ma l’essere è ciò che da all’ente la sua enticità, è l’apparire del significato ma il significato è ciò che dà al significante la sua esistenza, quindi “salvare lo svelato” significa anche fermare il significante. Qui c’è una questione di cui Heidegger non parla però si potrebbe anche cogliere in questo senso: salvare il significante dall’irruzione dell’insolito come un mantenerlo per quello che è senza che si alteri, senza che si differenzi, allo scopo di poterlo utilizzare, poi è chiaro che questa irruzione dell’insolito non è arginabile, non è eliminabile, tuttavia per potere usare un elemento linguistico devo pensare che quell’elemento linguistico è quello che è, è come se lo dovessi salvare dall’irruzione del significato in un certo senso, o forse è proprio salvandolo, cioè fermandolo che offro l’opportunità al significato di intervenire, solo se fermo il significante cioè se il significante non differisce da sé allora posso coglierlo per quello che è e quindi coglierne il significato; se il significante fosse sempre differente da sé allora a questo punto non ci sarebbe nessun significato, perché non ci sarebbe il significante, perché non saprei a quale significante dare un significato se fosse sempre altro da sé, quindi occorre questo “salvataggio” del significante dall’in-solito per poterlo utilizzare. Questo, come dicevo prima, non toglie nulla al fatto che ci sia comunque l’irruzione dell’in-solito ma perché ci sia irruzione dell’insolito occorre che questo solito sia quello che è, in altri termini è come dire che perché ci sia un significato occorre necessariamente, questo lo diceva De Saussure, e il significante è l’aspetto immanente del segno, ciò che appare, il significato non appare, interviene, si dà certo ma non appare fisicamente diciamola così, mentre il significante ha una forma, ha una sostanza, come diceva Hjelmslev: c’è un’espressione e un contenuto e entrambe hanno una forma e una materia…

Intervento: La sottrazione occultante è quella appunto che vela ma in riferimento alla prima frase “Il dire iniziale di una parola viene generalmente occultato e soffocato dai suoi significati” è come se fosse il significato, in questo caso attribuito a un significante quello che produce questa sottrazione occultante …

(Sì, cosa che non può comunque eliminarsi nel senso che il significante dicendosi comporta un significato, ma questo significato che interviene a rendere il significante un significante al tempo stesso vela il significante, cioè il significante scompare perché a questo punto c’è il significato, significato che ovviamente, come dicevo prima è necessario che ci sia, ma c’è sempre una differenza tra significato e significante, c’è la barra, c’è la differenza ontologica, per cui non c’è mai una sovrapposizione per cui il significato si inchioda al significante e fanno tutt’uno, c’è sempre una differenza, c’è sempre un differire per cui il significato al momento in cui interviene si differenzia dal significante, cioè non è più il significante e non c’è più il significante, in questo senso il significante viene velato dal significato, cioè l’ente dall’essere quindi c’è una disvelatezza nel momento in cui, per dirla in termini linguistici “la disvelatezza che consente, nel momento in cui qualche cosa appare, per esempio un significante, questo qualcosa può apparire perché c’è un significato, ma nel momento in cui questo significante viene preso dal significato non è più un significante, cioè il significante si vela. Il significante per disvelarsi necessita del significato senza il quale non c’è nessun significante, ma proprio perché c’è il significato, il significato sì lo disvela ma al tempo stesso lo vela, esattamente quello che fa l’essere per Heidegger rispetto all’ente, l’essere fa apparire l’ente, ma nel momento in cui l’ente appare l’essere non c’è più, altrimenti l’essere sarebbe un ente anche lui, cioè deve scomparire, deve sottrarsi, deve tornare nel velato. È in questo continuo movimento, movimento di cui parlavamo la volta scorsa tra significante e significato, tra essere e ente che è ininterrotto cioè uno compare e mentre compare scompare e compare quell’altro, l’altro compare ma mentre compare scompare e compare quell’altro e così via all’infinito, in un movimento incessante) Pag. 223 - Nella grecità domina ovunque anzi tutto la semplice luminosità dell’essere che lascia che l’ente sorga nello splendore e sprofondi nell’oscurità (ecco il movimento) pertanto ciò che rientra nell’apparire dell’essere appartiene ancora al genere dell’in-solito così che il divino non ha bisogno di venire attribuito, assegnato all’essere solo successivamente e in un secondo tempo (come avviene nel cristianesimo) ma se è vero che all’essenza dell’essere iniziale appartengono sia l’λήθεια sia la sua opposizione essenziale la λήθη allora entrambe sono inizialmente un θεον (dio) perciò la λήθη ancora per Platone ha un’essenza demonica, è ancora il caso di scandalizzarci se nel pensiero iniziale di Parmenide l’λήθεια appare come θέα? Come dea? Al punto in cui siamo dovremo stupirci piuttosto al contrario (quindi l’essere è sì l’in-solito però non è disgiungibile dal solito, l’essere pur essendo diverso per via della differenza ontologica dall’ente non è disgiungibile, non può darsi l’uno senza l’altro, l’essere senza l’ente è un essere che non si manifesta mai, l’ente senza l’essere è un ente che non ha nessuna enticità, cioè che non è niente) pag. 224: Dice Omero: ma per colui che beve costantemente quest’acqua (sarebbe l’acqua della λήθη) il riferimento all’ente nel suo insieme e a se stesso sta nel velamento che tutto sottrae e nulla lascia trattenere (parla dell’ente “nel suo insieme e a se stesso che sta nel velamento che tutto sottrae che nulla lascia trattenere”, cioè tutto sottrae ma non trattiene nulla quindi ciò che è sottratto non è perduto, perché la λήθη non lo trattiene se no scomparirebbe del tutto e cesserebbe questo movimento tra disvelatezza e velatezza. Egli non potrebbe esistere come uomo sulla terra poiché in tal modo ogni ente rimarrebbe nel velamento e non vi sarebbe in genere alcuna cosa svelata a cui l’uomo potrebbe riferirsi, sarebbe cancellato totalmente e questa è la condizione per i greci per essere un uomo, il fatto che qualche cosa ci sia, non scompaia quando viene velato, e questo non comporti una cessazione totale, se no diceva appunto Heidegger non ci sarebbe più niente) Dove domina un oblio assoluto e quindi smisurato in tedesco maß-los cioè un velamento esso non può comunque costituire il fondamento essenziale dell’essere umano giacché non concede assolutamente alcun genere di svelamento e quindi priva la svelatezza del suo fondamento essenziale (il fondamento essenziale è il movimento tra λήθη e λήθεια, tra il velamento e la svelatezza) viceversa da ciò possiamo desumere che la possibilità della svelatezza implica comunque una certa misura di velamento sottraente (se qualcosa si svela è perché prima era velata) la svelatezza domina quindi la λήθη intesa come velamento che non lascia schiudere e che quindi sottrae ma che nel contempo tiene pronto il fondamento essenziale dello svelamento (è sempre un movimento continuo, sta dicendo soltanto che la λήθη, il velamento, è un velamento che non trattiene ma rilascia continuamente, e questa è la condizione perché ci sia la svelatezza, se no sarebbe velato per sempre e chiuso il discorso) /…/L’uomo proviene dalla località del luogo divino e insolito del velamento sottraente proprio perché la λήθη appartiene all’essenza dell’λήθεια la disvelatezza non può essere solo la mera eliminazione della velatezza, l’alfa privativa di λήθεια non significa affatto solamente un generico e indefinito “dis” (un)(dis-velatezza) e “non” (nicht) piuttosto come sottrazione di ciò che appare nel suo apparire è necessario salvare e trattenere il disvelato, il trattenere si fonda su un costante salvare e conservare, questo conservare lo svelato (ricordate Nietzsche, diceva qualcosa del genere a proposito del mettere al riparo qualche cosa, del conservare, mettere al riparo per l’autoconservazione, quindi per il super potenziamento, diceva però che tutto questo segue a un mettere al riparo qualcosa, proteggerlo dalla distruzione, dal nichilismo) questo conservare lo svelato accade nella sua essenza pura quando l’uomo aspira liberamente allo svelato cioè incessantemente e lungo tutto il suo viaggio mortifero sulla terra /…/ aspirare liberamente a qualcosa e pensare soltanto a ciò si dice in greco μνάομαι il permanente, il permanente e costante che si estende lungo un itinerario o un tragitto si dice in greco νά il costante pensare a qualcosa il puro salvare il pensato nella svelatezza è l’νάμνησις (cioè il ricordare) Platone concepisce l’ente che si mostra e in quanto tale perviene alla svelatezza come ciò che entra nella visuale e si schiude così nel suo aspetto, l’aspetto (sarebbe l’idea) edos, l’aspetto stando nel quale qualcosa è presente in quanto svelata vale a dire è, in quanto svelato è. (tutto questo si dice edos) La visuale, la vista che qualcosa offre e con cui guarda l’uomo si chiama idea (idea è la visuale, è la vista che qualcosa offre e con cui guarda l’uomo, l’uomo guarda attraverso questo, cioè attraverso l’idea, che è interessante, non so se Platone la pensasse così però il fatto che l’uomo guarda con la sua idea  già mostra in un altro modo come e che cosa accade rispetto all’irruzione dell’in-solito nel solito, come dire che l’uomo guarda attraverso l’irruzione dell’insolito, guarda attraverso le fantasie) L’idea è il volto in cui di volta in volta l’ente che si svela guarda l’uomo, l’idea è la presenza di ciò che è presente l’essere dell’ente (qui chiaramente Platone pone una sorta di autorità della presenza, una priorità della presenza, una questione su cui per esempio Derrida avrebbe da ridire)

Intervento: mi pare che in Heidegger c’è questo aspetto che non è l’uomo che guarda ma è l’ente che si mostra e mi chiedevo se in questo mostrarsi è un aspetto che si mostra, coglievo questa questione per cui non è l’uomo che guarda ma è l’ente che si mostra l’oggetto che viene incontro più che essere gettato contro …

Sì, tenendo conto che anche l’uomo è un ente, e che anche il dire, la parola è un ente, allora “l’ente che si svela guarda l’uomo” non è una sorta di antropomorfizzazione delle cose ovviamente, ma dicendo che è l’ente che guarda l’uomo diceva Sandro l’ente è ciò che si lascia presentare) L’idea è la presenza di ciò che è presente l’essere dell’ente (beh questo è Platone ovviamente) ma dal momento che l’λήθεια è l’oltrepassamento della λήθη (perché l’λήθεια è il disvelamento cioè strappa via alla λήθη il velamento, il velo) lo svelato è il venir salvato e messo al riparo nella svelatezza. L’uomo può rapportarsi all’ente in quanto svelato solo pensando costantemente alla svelatezza dello svelato quindi all’idea e all’ εδος ottenendo così di salvare l’ente dalla sottrazione nel velamento (che è quanto vi dicevo prima, del prenderci cura, del mantenere qualche cosa, del fermare qualche cosa, dice “l’uomo può rapportarsi all’ente in quanto svelato solo pensando costantemente alla svelatezza dello svelato, ottenendo così di salvare l’ente dalla sottrazione nel velamento” come se dovesse fermare qualche cosa che si è disvelato per impedire che scompaia nella velatezza. Se scompare nella velatezza non può più farci niente, occorre quindi che mantenga nella disvelatezza, questo non significa che non ci sia più la velatezza ovviamente anzi è la condizione perché un significante che si disvela deve essere conservato in quanto tale per evitare che si dissolva nel velato, che si dissolva nel suo significato, cosa che non può fare tuttavia però perché ci sia il significato, perché il significato compaia occorre che il significante sia mantenuto nella sua disvelatezza, cioè che venga fermato in qualche modo quindi come dice Heidegger “salvato dalla sottrazione”, altrimenti ogni significato si dissolve, non ci sono più significanti, cesserebbe il linguaggio. Il significante deve venire salvato ogni volta ma questo salvataggio del significante non è altro che prendere il significante e, adesso diciamola così, fare come se, un po’ alla Nietzsche, come se fosse quello che è, come se non ci fosse più la velatezza, però questa operazione non riesce ovviamente, sarebbe paradossale perché se io togliessi il significato al significante, il significante cesserebbe di essere, tuttavia se non c’è il significante, cioè qualche cosa che è quello che è, che si è disvelato, non c’è più neanche il significato e quindi questo significante devo fermarlo in qualche modo perché possa darsi il significato. Poi, dandosi il significato, allora il significante si vela di nuovo, ma questo movimento continuo di cui dicevo prima è il movimento del segno, il prendersi cura, mantenere la svelatezza del significante è la condizione del linguaggio, la condizione cioè che qualche cosa possa, dicendosi, essere quello che è per poi mostrare che non è quello che è, per accorgersi che qualcosa non è quella che è occorre che sia quella che è)

Intervento: perché non si potrebbe aver cura del significato?

(Perché il significato è ciò che non appare, sta dicendo Heidegger che il significante è ciò che si disvela, il significante è l’aspetto immanente del segno, ciò che si percepisce, il significato non lo percepisce, il significato è un’idea, è la questione della differenza ontologica: l’essere interviene sì ma non appare propriamente, appare l’ente, se io immagino che l’essere appaia allora parlo dell’ente non dell’essere) è per questo che nel senso di Platone cioè pensato in modo greco il riferimento all’essere dell’ente è l’νάμνησις, una parola solitamente tradotta con “ricordo” o addirittura con “reminiscenza” con tale traduzione tutto è volto in termini psicologici mentre il riferimento essenziale l’idea non viene minimamente colto, la traduzione di νάμνησις con reminiscenza induce a ritenere che qui si tratti soltanto che all’uomo torna in mente qualcosa di dimenticato invece già sappiamo che i greci esperiscono il dimenticare come evento del velamento dell’ente sicché anche il così detto “ricordare” è fondato sulla svelatezza e sullo svelamento (qui la differenza fondamentale tra il pensiero greco e quello romano, cioè il “ricordare” romano è riportare un oggetto che è sparito, riportarlo a ente, per il greco no “il dimenticare” è un accadere del velamento e quindi è sempre preso in questo movimento del velare e del disvelare mentre nel modo romano la dimenticanza è la cancellazione) d’altronde è anche vero che in Platone contemporaneamente il mutamento dell’essenza dell’λήθεια in μοίωσις (è ciò che cerca un adeguamento) inizia un mutamento della λήθη cioè in questo caso dell’νάμνησις che agisce in contrasto con essa (sta dicendo che anche in Platone comunque c’è già un modo di pensare che è poi quello romano) l’evento del svelamento sottraente si trasforma dunque nel comportamento umano del dimenticare, nel contempo ciò che contrasta con la λήθη si trasforma in un ri-prendere operato dall’uomo, tuttavia finché pensiamo l’νάμνησις platonica e l’πιλανθνesqai soltanto a partire da ciò che viene dopo ovvero in termini moderni in senso soggettivistico soltanto come “ricordare” “dimenticare” non comprendiamo quel fondamento greco essenziale che irradia ancora una volta la sua ultima luce nel pensiero di Platone e Aristotele /…/ Quindi con ciò appare evidente che il μύθος non strappa qualcosa di svelato alla velatezza ma parla dell’ambito in cui nasce l’originaria unità essenziale di entrambi in cui cioè l’iniziale è (il mito, il racconto non toglie via qualcosa alla velatezza e lo dice, ma parla nell’ambito di questa originaria unità essenziale di questo movimento di svelatezza e velatezza, ecco qui ancora dice) pag. 229 Non è il poeta che invoca la dea (a questo punto la dea è la verità,) bensì senza avere ancora pronunciato la prima parola è lui stesso l’invocato cioè colui che si situa già nel richiamo dell’essere e che salva l’essere dalla sottrazione demonica del velamento (che significa questo? Potrebbe sembrare che il poeta è invocato da qualche cosa che quindi lo precede, che sta prima di lui, sì e no, si tratta del fatto che per potere parlare occorre già il significato, occorre che perché la parola si dia e ci sia: la Langue, prima di pronunciare la prima parola questa prima parola per potere essere pronunciata, per potere dire un significante occorre che ci sia il significato, per cui Heidegger dice, il poeta che invoca la dea che è la verità, è lui stesso invocato cioè è lui stesso che si situa già nel richiamo del significato “e dunque salva l’essere dalla sottrazione demonica del velamento” e dunque salva la verità dalla sottrazione demonica del velamento cioè dalla sottrazione della λήθη, salva l’λήθεια dalla λήθη, salva ciò che è disvelato dalla sua scomparsa, ma per fare questo è necessario che ci sia. Facciamo una specie di schema: occorre che ci sia significato perché ci sia il significante se no è significante di niente, ma è il significato che consente l’esistenza del significante. Una volta che il significante è apparso allora occorre sottrarlo dalla “sottrazione demonica” del velamento, occorre cioè mantenerlo, salvarlo, questo non significa che poi questo velamento non intervenga, ma perché possa intervenire di nuovo un velamento occorre strappare questo disvelato dal velamento iniziale, cioè cogliere il significante per quello che è che come sappiamo non può darsi senza significato, viene dal significato, così come l’ente procede dall’essere. Ma per potere utilizzare questo significante devo sottrarlo al velamento, devo sottrarlo al significato perché se il significante non fosse sottratto al significato questo significante sarebbe qualunque cosa e il suo contrario perché sarebbe in una deriva incessante, infinita, e quindi non potrei mai individuarlo, non potrei mai dire che è un significante, non potrei mai fare questo, non potendo fare questo non c’è il significante. È quello che diceva prima, se non c’è il significante non c’è il significato, non c’è più niente, non c’è linguaggio, non c’è logos, quindi occorre salvare la svelatezza del significante dalla velatezza del significato perché solo a questa condizione posso mantenere questo movimento fra significante e significato. Sta riprendendo ciò che fa De Saussure e che poi riprende Derrida, e cioè mantiene distinti i due elementi, significante e significato, e Saussure ci mette la barra, Heidegger parla di differenza ontologica ma è la stessa cosa, un qualcosa che mantiene comunque la differenza tra il significante e il significato, il significante non è il significato e il significato non è il significante anche se questi due elementi sono indisgiungibili perché insieme costituiscono il segno, la parola. Tuttavia è necessario che ci sia tanto l’uno quanto l’altro ma che siano sempre distinti, se non fossero distinti il segno cesserebbe di esistere. Per questo è importante il concetto di “salvare il disvelato” che è il salvare il significante dall’oblio, dalla velatezza, salvarlo dalla sua scomparsa totale: il significante scompare se non è più significante, quando per esempio diviene significato, ma se è significato allora non c’è più segno perché il significante a questo punto scomparendo lascia il significato senza nessuna esecuzione possibile, come la Langue di De Saussure senza la Parole, è niente).

Intervento: ecco era questa la questione centrale (significato velamento come se il significante che è lo svelato, l’immanente, mi ha colpito molto la questione dell’idea, dell’aspetto che si mostra …

Ciò che Heidegger sta dicendo, e infatti lì riprendeva Platone, e che l’ente è quello che è perché c’è un’idea che lo fa essere quello che è …

Intervento: io invece l’ho intesa in un altro modo di come ne parla Heidegger, questo ente si mostra ma si mostra a chi? All’uomo che può cogliere questo mostrarsi attraverso l’idea cioè attraverso la parola … perché l’uomo si accorga di un ente che si mostra occorre utilizzi il significante, e quindi l’idea è questo mediano che consente all’uomo e quindi la parola di accorgersi di un ente che si mostra che si svela in questo caso, “salvarsi” è proprio attraverso questa idea che si salva questo ente che si mostra ….io l’avevo intesa in questo modo) sì lui prima riprende la questione da Platone “qualche cosa è quello che è per via dell’idea che è nell’iperuranio eccetera” però dice lui c’è qualche cosa in più perché questa idea, poi che Platone la metta nell’iperuranio è un altro discorso …

Però questa idea è l’essere, bisogna tenere conto che l’idea è l’essere, è l’essere che quindi consente la svelatezza del significante, perché nel significante c’è il significato, cioè c’è l’essere perché l’idea è l’essere sono le varie forme in cui l’essere si manifesta, che sono l’λήθεια, la φύσις e l’δέα e altre cose, sono i modi in cui l’essere appare nel dire, In questo senso l’idea è ciò che consente al significante di essere quello che è.