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16 febbraio 2022

 

Il Sofista di Platone di M. Heidegger.

 

Siamo a pag.466. Stiamo assistendo qui a qualcosa di grandioso, a una battaglia tra Platone e Parmenide, attraverso l’eleate, a una battaglia che deciderà il modo in cui si penserà nei millenni successivi e in cui si pensa ancora oggi: la battaglia tra la dialettica di Platone e la sofistica o retorica, che ancora Platone non distingue. Gli eleati hanno perso questa battaglia senza mai essere stati argomentativamente sconfitti. Nessuno ha mai argomentato in modo tale da potere mostrare la falsità delle loro affermazioni. Però hanno perso. Hanno perso perché la dialettica è diventata l’unico modo di pensare. La dialettica, intesa platonicamente, è quel procedimento che consente di conoscere l’ente così com’è. Per finire questo capitolo ci sono poche pagine ma sono pagine dense e ricche di questioni. Quando gli eleati dicono έν ν το παν (l’ente uno come tutto) adoperano per l’una e medesima cosa sia il nome Uno che il nome ente. Con questo però, dice lo Straniero, intendono in fondo che siano due nomi, cioè ente e Uno, per una sola cosa, proprio loro che dicono έν ν, cioè, l’ente è Uno, che tutto ciò che è è Uno. Di più si imbattono in una difficoltà ancora maggiore non appena si riflette su fatto che essi parlano dell’ente ossia dell’essere. Non c’è nemmeno bisogno di ricorrere al λόγος, che lo stesso Platone scinderà più avanti in συμπλοκή, unione di nome e di verbo. Già solo nello stesso nome, che è un ingrediente del λόγος, è possibile mostrare la difficoltà di questa posizione. Qui già si avverte come sia evidente che per dire una cosa, dicendo quella cosa, ne dico anche un’altra. Infatti, il nome, essendo espressione, deve essere espressione di qualcosa. Il nome significa alcunché, in specie qualcosa che il nome stesso non è. Se io dico tavolo, la parola tavolo non è il tavolo. Uno è Uno έτερον, è un diverso, è un’altra cosa. Dunque, già con il nome di qualcosa, cioè con un significato che intende alcunché, tu dici due enti… Dicendo tavolo dico la parola tavolo e dico ciò che il tavolo significa, quindi, almeno due enti. Qualora, però, si volessero identificare il nome e il δηλομενον, ovvero l’espressione e ciò che essa intende, rende visibile, non rimane più nulla di cui l’espressione sarebbe espressione... Se io identifico, usando i termini di de Saussure, significante e significato, se per così dire li incollo, non c’è più il segno, perché il segno è l’unione di significante e significato in quanto distinti. Se sono la stessa cosa non c’è più l’espressione, non si esprime più niente. …ovvero, anche se il nome deve essere comunque νομα τινς, espressione di qualcosa, senza però riferirsi a qualche cos’altro da sé, allora rimane το νομα νόματος (il nome del nome). Che questo nome può essere solo νόματος νομα ma non di qualche cos’altro… Cioè, il nome del nome ma non di qualche cos’altro. Quindi, nomino il nome, che in realtà significa niente. In tal modo la difficoltà di tale principio è stata già chiaramente mostrata in una componente fondamentale del λόγος stesso. Bisogna osservare che qui Platone intende νομα (nome) nel senso del … qualcosa; tuttavia, egli non riflette ulteriormente sulla specifica struttura dell’interconnessione della parola con ciò che essa significa. Gli basta unicamente il dato di fatto ontologico formale per cui la parola in quanto tale pertiene a ciò che essa significa. In fondo, aveva già inteso, solo che non ne ha tratto le conseguenze, le implicazioni. Il risultato cui approda la trattazione dell’Uno, come determinazione dell’ente, viene fissato in 244d, 11-12. Questa frase riassume in un certo senso il risultato dell’intera disamina precedente. Certo, si tratta di un passo corrotto, in quanto ha creato sin da principio evidenti difficoltà di comprensione. Esiste una intera letteratura su questo passo. Sostanzialmente, possiamo qui limitarci a due versioni, il cui esito, come quello di tutte le altre, è in definitiva il medesimo. La prima è stata fissata da Schleiermacher, ripresa da Heindorf; la seconda è stata accolta nell’edizione inglese del Burnet, sulla base di una congettura di Apelt. Le due frasi sono queste. E così l’Uno è unicamente l’Uno dell’Uno, e questo a sua volta l’Uno del nome dell’espressione. C’è l’Uno che è Uno dell’Uno, ma c’è anche l’Uno dell’espressione in cui la dico. Questo è importante perché c’è l’Uno, certo, ma se non lo dico non c’è niente. La seconda frase è questa: c’è l’Uno come espressione dell’Uno e poi, a sua volta, l’Uno dell’espressione. L’Uno, in quanto espressione dell’Uno, in quanto Uno detto, è a sua volta l’Uno dell’espressione, perché questa espressione che dice l’Uno a sua volta è Uno. In entrambi i casi il senso è chiaro: la πόθεσις έν ν το παν è un discorso sull’ente e il suo senso è che questo ente è Uno. Tale πόθεσις costringe, quanto al suo senso, a prenderla sul serio come ϑέσις, ossia come λόγος. Un λόγος è sempre un λέγειν τί (un dire qualcosa), ovvero, questo τί, che è inteso nel λόγος, è come tale un τί λεγμενον, un qualcosa che viene detto. In tale struttura del λόγος si avrà dunque, in riferimento alla ϑέσις eleatica, un τί, che è il λεγμενον (detto), cioè l’ente. Ciò che si dice è un ente. 2) questo ente è un detto. Ci si rivolge a esso in quanto Uno (il detto è Uno); 3) ente in quanto λεγμενον è espresso nel nome. L’insieme di quanto nella ϑέσις è contenuto, inteso, espresso, ένν, νομα (Uno, ente, nome). Questi tre momenti fondamentali devono dunque essere nel senso di questa stessa ϑέσις l’una e medesima cosa. Soltanto quest’Uno dice la tesi è. In altre parole, il senso vero e proprio della ϑέσις stessa urta contro il contenuto fenomenico di ciò che essa stessa reputa. Dice “È Uno”. Sì, però, questo Uno è fatto di ένν, νομα, e allora sono tre. È sempre lo steso problema dell’Uno e dei molti. Adesso, la stessa tesi di Parmenide, έν ν το παν, L’Uno ente come il tutto, viene affrontata da un altro lato. Ora non si guarda più unicamente al fatto che ci si rivolge all’ente in quanto Uno, bensì il principio viene sottoposto a esame nella sua interezza: έν ν το παν. Lo specifico, il quid, di cui si tratta in questa tesi è l’ente. Ciò di cui si parla è l’ente. È l’ente che è Uno ed è il tutto. Questo quid, appunto l’ente, inteso nel suo come, è παν, è tutto. L’ente di cui si parla è inteso sin da principio come το παν, come il tutto, e di questo quid l’ente nel suo come viene detto Uno, laddove dunque l’Uno è ciò a cui ci si rivolge in quanto qualcosa. Questo qualcosa cui ci si rivolge è l’ente, ma ci si rivolge in quanto Uno. A domanda è ora orientata a questo: in che modo l’ente possa essere inteso come παν. Ovvero, poiché ad esso, al posto di παν, sta l’espressione όλονAnche όλον vuole il tutto. A un certo punto Platone cessa di parlare di παν e usa quest’altra parola. Ci si chiede: in che senso l’ente di cui parla la tesi è il tutto? L’ente deve essere infatti Uno. Adesso, quindi, non si parla più come in precedenza di Uno e di ente come nomi ma del chiarimento dell’Uno, dell’unità di quell’Uno, giacché il tutto è una modalità dell’Uno. Il tutto è Uno. Lo όλον, il tutto, in cui è inteso l’ente, quello stesso ente al quale per quel che lo riguarda ci si rivolge in quanto Uno, questo tutto, come carattere dell’ente è qualcosa d’altro rispetto all’ν έν, cioè all’Uno ente, oppure è la stessa cosa? Di nuovo, ci sono due modi per indicare la stessa cosa? La risposta: come possono non dire che sia lo stesso, lo dicono appunto nella tesi. Ma che concetto di όλον è, dunque, adoperato qui? A tal fine viene ricordato un brano del poema didascalico di Parmenide… Naturalmente Heidegger lo riporta in greco, ma noi andiamo a leggere la buona traduzione di Reale. Lo stesso è il pensare e ciò a causa del quale è il pensiero. Il pensare è la stessa cosa di ciò che lo causa. Che cosa causa il pensiero se non un altro pensiero? Perché senza l’essere, nel quale è espresso, non troverai il pensare. Qui Parmenide è straordinario. Dice senza l’essere, nel quale è espresso, senza che il pensiero sia pensiero di qualche cosa. Il pensiero è pensiero di qualche cosa, è un λέγειν τί. Sta dicendo: se dice, dice qualcosa. Quindi, senza questo essere non troverai il pensare; il pensare non è altro che attribuire alle cose un essere, un significato. Nient’altro o è o sarà all’infuori dell’essere, poiché la Sorte lo ha vincolato ad essere un intero e immobile. Per esso saranno nomi tutte quelle cose che hanno stabilito i mortali, convinti che fossero vere: nascere e perire, essere e non-essere, cambiare luogo e luminoso colore. Inoltre, poiché c’è un limite estremo, esso è compiuto da ogni parte, simile a massa di ben rotonda sfera, a partire dal centro uguale in ogni parte: infatti, né in qualche modo più grande né in qualche modo più piccolo è necessario che sia, da una parte o dall’altra. Né infatti c’è un non-essere che gli possa impedire di giungere all’uguale, né è impossibile che l’essere sia dell’essere più da una parte e meno dall’altra, perché è un tutto inviolabile. Infatti, uguale da ogni parte, in modo uguale sta nei suoi confini. Abbiamo sempre detto che il linguaggio è un tutto da cui non si esce, dai cui confini non è possibile allontanarsi, cioè, non è possibile uscire dal linguaggio. Ne risulta chiaramente che l’ente viene inteso nel senso di una sfera e, precisamente, ben arrotondata, simile dunque a una ben rotonda sfera, a un tutto che, a partire da un centro, in tutte le direzioni, è ugualmente forte. Non è possibile che in qualche punto sia più grande o più forte che qui o lì. Un ente siffatto, questo è il senso di όλον, il tutto, in Parmenide. Se noi pensiamo questo όλον come il linguaggio, in effetti… C’è una arte del linguaggio che sia meno del linguaggio o che sia più linguaggio? È possibile uscire da confini del linguaggio? No. E come τοιοτόν όλον (il tutto in sé) possiede μσος σχατα (un centro e delle parti). A partire dal centro in tutte le direzioni sino ai confini della sfera l’ente è appunto uguale. Ebbene, in quanto il tutto possiede centro e confini, esso è tale da avere mere (parti). Si tratta, dunque, di una totalità ben precisa, una totalità dotata di parti. Questa totalità può essere intesa in un certo senso come unità. Qui c’è una cosa interessante. Questo tutto è fatto di parti, cioè, non posso determinarlo se non attraverso queste parti di cui è fatto. Lo όλον è, quindi, come dirà poi Aristotele, un διαιρετν (scomponibile, per cui fatto di parti). Ciò che questo όλον, in quanto scomponibile, sarà poi espresso da Aristotele nel concetto rigoroso di συνεχές (unione). Uno όλον siffatto, όλον nel senso dello scomponibile, può dunque avere la determinatezza dell’Uno… È un tutto, un Uno, anche se fatto di parti ma è un tutto. Ma questo Uno è un Uno ben preciso, cioè, l’Uno inteso in vista delle parti, l’Uno come συνεχές L’Uno come unione di queste parti. Quindi, l’Uno come unione. In effetti, sta dicendo che l’Uno non c’è fuori delle parti. La questione, potremmo dirla così, è che perché ci sia l’Uno io devo dirlo. E se lo dico, se lo determino, lo determino attraverso qualche altra cosa. Qui si pone una questione notevole, che poi è stata cancellata nel corso dei millenni, e cioè posso determinare qualcosa soltanto attraverso l’indeterminabile. Perché se determino qualcosa lo significo, dico che cos’è, ma questa significazione ha un termine oppure posso aggiungere cose, una, poi un’altra, un’altra ancora, all’infinito? Voglio dire che questo determinare qualche cosa muove da u ληθς n significato, determinare non è altro che dare un significato, ma questo significato è indeterminato. Quindi, io posso determinare solo a partire dall’indeterminato, posso dire che cos’è il significante solo in relazione al significato, ma questo significato è indeterminato, non ha un fine, un termine. Naturalmente, questo indeterminato posso determinarlo ma, di nuovo, determinandolo potrò determinarlo solo attraverso altre cose indeterminate, e così via. Non c’è scritto ma è sottinteso che l’unità nel senso della totalità è in quanto tale pur sempre qualcosa. Essa dipende da un Uno più originario... Qui è come se ci stesse dicendo che c’è un Uno più originario che fa un po’ da matrice per tutti gli Uno di cui intendo parlare. Quindi, c’è un Uno originario e poi l’Uno che dico. Il che si può facilmente ricondurre alla questione hegeliana dell’in sé e del per sé. …e preceduta da un senso di Uno che è la condizione in quanto unità. Questo Uno che precede il tutto come Uno… Sarebbe l’idea di Uno. Invece, il tutto come Uno è già un tutto συνεχές, direbbe lui, cioè un insieme di cose che poi sono Uno, che sono un tutto. Ora, questo Uno che precede lo έν όλον, assolutamente privo di parti, esso è l’ληθς έν, l’Uno autentico… Quello che non ha parti, cioè, l’idea di Uno. In qualche modo potremmo dire che è l’Uno fuori del linguaggio. È un assurdo naturalmente, però l’idea originariamente poteva essere questa, che non doveva l’esistenza a nient’altro, senza rendersi conto che se non c’è nient’altro che gli fornisce l’esistenza non esiste nemmeno lui. Se si esamina il senso dell’Uno alla fine si trova questo μερές (senza parti) che Aristotele chiama διαίρετον (indivisibile). Pertanto, lo Straniero può affermare: questo Uno, l’Uno come τοιαύτον (in quanto tale), non dunque lo έν alethòs bensì l’Uno come συνεχές, come unione, consta di molte parti e solo sulla base di queste e per esse, ma come tale questo Uno non si accorda con il senso proprio di Uno, qualora gli rivolga propriamente a esso… Qui continua a distinguere tra l’Uno, immutabile, fermo e uguale a se stesso, e l’Uno di cui parlo, l’Uno che dico. Così si è intanto trovata la differenza all’interno del concetto di Uno, lo έν ληθς, e due come Uno come unità delle parti. Lo έν ληθς sarebbe l’Uno autentico. Andiamo avanti. Qui ci sono invece delle oscurità. L’oscurità della nozione di non. Quando l’ente viene distinto dal tutto e del tutto si dice che non è ente. Con ciò si afferma che l’ente non è qualche cosa, è altro rispetto ad alcunché. È insomma qualcosa che non si annovera come ente. Questo è possibile solo sulla base di una fondamentale oscurità del non. L’oscurità relativa alla distinzione tra ente come essere e ente come ente. Tale difficoltà diventa ancora maggiore in quanto nel corso della discussione reale si deve parlare... Eh già, si è accorto di questo fatto. …si deve parlare: a) dell’essere dell’ente, b) dell’essere dell’essere. L’oscurità per cui determinati caratteri dell’essere che abbiamo già incontrati in precedenza, ν, έν, τί (l’ente, l’Uno, il qualcosa) non vengono visti nella loro cooriginarietà, bensì già qui, e molto di più in seguito, nella κοινωνία τν γενν (comunanza dei generi). Sussiste una certa tendenza a subordinare i caratteri ontologici a una certa derivazione, a una genealogia, come dicevamo in precedenza, a partire dall’Uno. Queste oscurità sono visibili come tali solo prendendo le mosse da una base univoca della problematica ontologica, entro la quale, anche quella greca è compresa e mostrarsi viva. La problematica ontologica è il problema di sapere che cos’è qualcosa. Anche in seguito né Aristotele né Platone perverranno a un fondamentale chiarimento di tale oscurità. Ancora oggi esse rimangono altrettanto irrisolte, anzi, non vengono più nemmeno comprese come problemi fondamentali. Tali oscurità non possono essere eliminate se non elaborando in primo luogo la base ontologica. E, tuttavia, proprio questo dialogo, nelle disamine che seguono, getterà almeno una certa luce su questo scenario confuso. Secondo una precisa direzione esso offre uno spunto indirizzato a una concezione essenzialmente positiva della negazione, che poi assumerà un’ampia portata in Aristotele. È il modo di affrontare la questione della negazione non come la cancellazione di qualche cosa – questione che riprenderà Hegel – ma come un qualche cosa che è altro rispetto a un altro elemento. Ma il fatto di essere altro, a fianco del primo elemento, consente al primo elemento di essere quello che è. C’è il famoso esempio che abbiamo sempre fatto: A è B. B è altro da A, ma B è A, dice che cos’è A; ma questo B è altro da A; quindi, A sarebbe altro da sé, anche ma non solo, perché è anche A, perché se A fosse altro da sé non sarebbe neanche B. Quindi, occorre che sia sé e altro da sé, simultaneamente. Tali oscurità, contenute nell’analisi del principio di Parmenide, possono essere chiarite come oscurità, non già nel senso di una loro soluzione, richiamando alla mente il modo in cui tutta questa trattazione si attiene al λόγος σχυρς di Parmenide… σχυρς sarebbe la parola più forte, più potente, di Parmenide. …nel senso in cui i Greci in generale, quando discutono di argomenti teoretici, si sono attenuti al λόγος. Questo fatto va inteso in un senso del tutto estremo. Bisogna tenere conto del fatto che λόγος viene sempre recepito come ciò che è detto... Il λόγος per i Greci non è mai pensato come un’astrazione. In greco antico il λόγος è ciò che viene detto. Per questo dicono giustamente che il λόγος è un λέγειν τί, un dire qualcosa, un λγειν τ κατά τινς, un dire qualcosa su qualcosa. …ciò che è espresso verbalmente, ed è per questo che si parla dello φθγγεσθαι. Che cosa volete propriamente intendere con senso dell’essere quando pronunciate la parola ente? Che cosa dite con la parola ente? Dite qualcosa o dite niente? Se dite qualcosa che cosa? Queste sono tre domande fondamentali del pensiero, ciò con cui il pensiero dovrebbe sempre e comunque confrontarsi: che cosa sto dicendo, dicendo questo? Qui c’è un’altra questione interessante, la questione che riguarda il vedere. Per Platone si tratta, attraverso la dialettica, di potere stabilire che ciò che vedo è esattamente ciò che credo o dico di vedere. Cosa che il sofista non fa. Lo dicevamo forse l’altra volta, il sofista è l’unico nella storia a non credere nel vedere, a non credere che ciò che vedo sia ciò che credo che sia. E questa è la dialettica: fare in modo che ciò che è sia esattamente ciò che dico che è. Ma c’è questo “dico” che viene a creare problemi, perché se dico che è, devo sempre dirlo che è, cioè, non è di per sé, da solo, dovrebbe dirsi da solo ma non può naturalmente farlo; quindi, occorre che ci sia io che lo dico e, dicendolo, ecco che accadono una serie di cose: dicendo quello dico necessariamente altro. Che cosa dite quando pronunciate la parola ν? In questa domanda fondamentale la modalità del dire non è formulata come λέγειν, bensì come φθγγεσθαι, esprimere, esprimersi rivolgendosi ad altri. Non è, quindi, semplicemente un dire ma un dire rivolgendosi a qualcuno e chiedergli conto. La πόθεσις, nel senso del principio di Parmenide, può dunque essere analizzata in quattro direzioni… Il primo è il che cosa tematico, il di che cosa si parla, ed è l’essere; poi, questo principio ha in sé un determinato contenuto proposizionale, ciò che esso dice sull’essere; nella misura in cui questo principio è espresso, detto, nel peculiare momento in cui viene pronunciato, esso implica determinati caratteri che devono essere distinti dal contenuto proposizionale e che noi dobbiamo intendere come caratteri dell’essere detto, propri del suo essere proferito. Qui essere detto è inteso come essere detto del λέγειν in quanto scoprire. È quello che dicevo prima, cioè, qualche cosa devo dirlo perché sia, ma dicendolo mi trovo a dire un sacco di parole. E ultimo, rispetto a tale essere detto, dobbiamo distinguere il pronunciato in quanto tale, l’essere espresso in ciò che si dice. Solo a partire da qui, infatti, se si distingue l’essere espresso come tale è possibile comprendere l’itera argomentazione condotta a proposito del nome, la quale conduce gli eleati ad ammettere che il nome è Uno, nel senso della loro tesi. Uno, έν, che non può intendere qualcosa a meno che non si voglia interpretare il significato dell’νομα a sua volta come νομα. Questo tipo di argomentazione ha senso soltanto se l’νομα in quanto tale… Cioè, il suono, il pronunciato. …viene inteso esso stesso come un ente. Se io dico il nome anche questo mio dire il nome è anche lui un ente. E, in effetti, è proprio così ed è così che viene inteso anche il λόγος come un ente, solo se il λόγος è concepito in questo modo. Solo sotto questo aspetto diventa comprensibile anche tutta la trattazione del λόγος nell’ultima parte del dialogo. Il λόγος non viene più considerato un ente astratto. Il linguaggio non è un ente astratto, il linguaggio è relazioni, è il dire, è ciò che si dice continuamente, cioè, una reazione continua, che rinvia ad altre relazioni, all’infinito. Bisogna perciò distinguere l’oggetto tematico… Ciò di cui si parla. …il contenuto proposizionale… La proposizione che lo esprime. …i caratteri dell’essere detto… I modi in cui la cosa si dice. …e i momenti dell’essere espresso. Tutti e quattro questi momenti strutturali della πόθεσις, in quanto sono qualcosa, offrono l’occasione, alternandosi nell’uso del termine ν, di reciproca sostituzione. A causa di questo confuso intrecciarsi di differenti ντα (enti), che nella πόθεσις sono dati in modo puro, è in generale possibile l’argomentazione relativa allo έν ν (ente Uno). Non solo essa è possibile ma per Platone persino necessaria al fine di mostrare che nell’έν ν, purché sia inteso come τί, come qualcosa, è già data tutta una serie di fenomeni e una molteplicità di caratteri dell’essere. Una volta che dico che l’ente è Uno, ho già detto il qualcosa, l’ho già posto come un qualcosa; quindi, di nuovo, non si tratta più di un’astrazione di qualcosa che è fuori del linguaggio, ma è qualcosa che accade nel dire. Sta qui la questione centrale, sta qui riflettendo su ciò che accade nel dire, mentre parlo, non ciò che accade in generale. Un’ultima cosa importante. Nella disamina critica che abbiamo ripercorso non si tratta tanto di contrapporre l’Uno in quanto Uno a una pluralità; qua, al contrario, una pluralità rispetto all’Uno. L’essenziale è che, invece, Platone considera l’Uno come determinazione dell’ente nel senso della συναγωγ dialettica (dell’unione dialettica) facendone quell’Uno che c’è, implicitamente e costantemente in ciascuno dei molti. Quel che importa non è, dunque, che l’ente uno solo o più di uno, come se l’aspetto primario e decisivo e unico fosse la numerazione dei principi, bensì il fatto che l’ente, ovvero l’Uno, sia implicito nei molti nel senso della κοινωνία e implicito nei molti nel senso della comunione. Queste poche righe meritano una riflessione. Platone ha colto che l’Uno e i molti sono inseparabili, nel senso che nell’Uno ci sono i molti e nei molti c’è l’Uno. Ma che cosa manca ancora? Lui li tiene separati nel senso che ancora pone l’Uno e i molti come cose che, sì, stanno insieme ma non sono lo stesso. È solo a questa condizione è possibile la dialettica, quell’argomentazione che porta a sapere che cos’è veramente qualcosa. Questo in Platone è sempre presente: la distinzione tra l’Uno e i molti, perché l’Uno per Platone è il bene e i molti sono il male, non possono essere la stessa cosa. Anche se non c’è l’uno senza l’altro, però c’è una divisione tra i due. Non potrebbe mai ammettere che il bene e il male sono lo stesso, come facevano gli eleati; deve poterli distinguere e, quindi, inventa la dialettica. La dialettica è quella, chiamiamola, arte che dovrebbe stabilire con certezza cosa è e cosa non è, in modo da tenere separato l’Uno dai molti, l’Uno come il bene, i molti come il male. La dialettica è questo, la sofistica no. La sofistica gioca sul fatto che entrambe le cose sono lo stesso e che non si possono distinguere. Non posso distinguere l’Uno dai molti perché l’Uno è fatto dei molti e i molti sono fatti dell’Uno. Questa operazione che fa qui Platone, come dicevo all’inizio, ha determinato il modo di pensare per i millenni successivi, e cioè da allora in poi si è immaginato, creduto, voluto che fosse possibile sapere come stanno le cose. E la dialettica è propriamente quell’arte che consente di sapere come stanno le cose. Ma a che condizione? Deve escludere i molti o quantomeno tenerli separati, divisi. Ma il problema, lo dicevo all’inizio, sta nella determinazione di qualcosa, e cioè io non posso determinare l’Uno senza i molti e non posso determinare i molti senza l’Uno. Questo significa che non può darsi l’uno senza l’altro, è questo il punto, che se tolgo l’uno tolgo anche l’altro. Platone invece immagina di potere togliere i molti, cioè il male, e lasciare l’Uno, il Bene, per poterlo mostrare. Si tratta di questo poi, in fondo: potere mostrare il Bene agli altri in modo che lo perseguano. Se Bene e male sono lo stesso, come impongo di perseguire il Bene se è anche male? Non lo posso fare.

Intervento: Tutto riguarda anche il potere…

Ciò che fa la volontà di potenza, cioè il linguaggio, è questo: il linguaggio non è che il dominio sull’ente che il linguaggio stesso produce. È questa la questione centrale, quello che dovrebbe rendere tutto molto più perspicuo, chiaro: il linguaggio costruisce quell’ente sul quale vuole dominare. Come lo costruisce? Tutte queste pagine lo illustrano: è il τί, il qualcosa, e il λέγειν è sempre un λέγειν τί, un dire qualcosa, dicendo dico qualcosa. Questo qualcosa è esattamente quell’ente – Heidegger lo sottolinea: è sempre un ente, è sempre un qualcosa – è quell’ente che il λέγειν costruisce. Dire è dire qualcosa. Questo qualcosa è l’ente che il linguaggio costruisce, ed è l’ente sul quale il linguaggio intende dominare. Come? Se il τί, il qualcosa, rimane indeterminato, questo indeterminato è ciò che mi determina il dire, ma lo determina un indeterminato e, invece, io voglio che tutto sia determinato, perché solo così lo posso dominare. E, allora, ecco che questo qualche cosa, questo τί del λέγειν τί deve essere ciò che occorre dominare, controllare, determinare. Solo così ho il controllo o l’idea di potere controllare il linguaggio: immaginando che possa determinare qualcosa attraverso un’altra cosa determinata. Ma il significato non è mai determinato, il significato è un rinvio infinito. Il linguaggio è la volontà di dominare quell’ente che il linguaggio stesso costruisce. E ciò che il linguaggio costruisce è il τί del λέγειν τί, il qualcosa che il mio dire dice. È una cosa straordinariamente complessa ma, come ho detto all’inizio, questa battaglia, questo πόλεμος, come avrebbero detto i Greci, tra la dialettica e la sofistica è quella battaglia che i sofisti hanno perso e che ha determinato il modo, ancora oggi, in cui si pensa, oggi si pensa ancora così, in modo dialettico, nell’accezione platonica del termine, cioè, di quel procedere che dovrebbe giungere a stabilire come stanno le cose, escludendo dunque il come non stanno. Il come non stanno deve poter essere individuato, determinato e allontanato perché i molti sono il male. Questo lo dice Platone: l’Uno è il Bene, quindi, devo sempre ricondurre all’Uno il come stanno veramente le cose. E oggi si continua a pensare esattamente così, come ha voluto Platone. Platone ha fatto in questo senso un lavoro straordinario, ha determinato il modo di pensare dei millenni futuri.