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15 dicembre 2021

 

Il Sofista di Platone di M. Heidegger

 

Heidegger sta facendo un discorso che merita di essere ripreso. Si pone due domande e con la prima si chiede questo: come si incontrano gli enti? Ciascuno è in mezzo agli enti, ma come li incontra? L’altra domanda è: perché li incontra? A questa seconda domanda si può rispondere facilmente, e cioè li incontra perché parla, se non parlasse non incontrerebbe nessun ente, mai, neanche per sbaglio. Dunque, come si incontrano gli enti? Heidegger riprende un termine utilizzato da Aristotele nell’Etica nicomachea, ληθεειν, che spesso è tradotto con dialettica, ma lui lo intende in un altro modo ed esattamente come lo “essere scoprenti”. Ciascuno è scoprente, scoprente perché per i Greci il mondo, le cose sono nascoste e bisogna scoprirle, farle venire in luce – come diceva Eraclito: la natura ama nascondersi. L’essere scoprenti è ovviamente una caratteristica dei parlanti, perché lui dice che si scopre con il λόγος: è solo con il λόγος che è possibile scoprire le cose, senza λόγος non c’è alcunché e, occorre aggiungere, senza il λόγος non c’è neppure il nulla. Infatti, verrebbe da pensare che senza il λόγος non c’è nulla; no, anche il nulla ha bisogno del λόγος per esistere, per essere pensato, sennò non c’è nemmeno lui. Quindi l’ληθεειν è questo essere scoprenti è la caratteristica dell’umano, del parlante: parlando è colui che scopre. Questo è interessante perché se si tiene conto dell’importanza che aveva nel mondo greco la vista, il vedere le cose – la stessa parola λήθεια, far venire in luce e, quindi, lo vedo – tuttavia, è il λόγος che consente di vedere le cose. L’ληθεειν, che è proprio dell’πιστήμη, rappresenta una modalità ben precisa ed è certamente quella su cui si fonda, secondo i Greci, la possibilità della scienza. Da questa nozione del sapere trae orientamento tutto lo sviluppo successivo e oggi pure la teoria della scienza. Tale concetto di sapere non è il risultato di una deduzione, esso è al contrario desunto dal fenomeno del sapere. Proprio per questo il sapere è una custodia dell’essere scoperto dell’ente, una custodia indipendente dall’ente che, tuttavia, ne dispone. Resta fermo, però, che lo scibile di cui posso disporre deve essere necessariamente così com’è e deve esserlo sempre eternamente ente, non divenuto, ciò che sempre è già stato e sempre costantemente sarà così com’è, ente in senso proprio. Questo è il primo approccio alla questione dell’πιστήμη. πιστήμη oggi è tradotto con scienza, ma è qualcosa di più per il greco antico: l’πιστήμη è un modo di sapere, un modo certo che necessita dell’idea che le cose siano eterne, immutabili. Infatti, a un certo punto distingue tra l’πιστημονικόν e il λογιστικόν : il primo ha a che fare con l’πιστήμη, riguarda l’πιστήμη e la σοφία , cioè il sapere, il sapere assoluto; il λογιστικόν  ha a che fare con il linguaggio, propriamente con il λόγος , è qualcosa che riguarda la τέχνη, il saper fare qualcosa in vista di, e la φρόνησις, che è il discernere, il separare. La τέχνη è un sapere che è sempre oscillante perché grazie alla φρόνησις posso distinguere, discernere, quindi, ho sempre delle possibilità, è sempre un qualcosa in fieri, mentre l’πιστήμη e la σοφία no. Mentre la τέχνη ha a che fare con qualcosa di mutevole, il sapere, la σοφία, il sapere assoluto, e l’πιστήμη, come sapere certo, non mutano. Però, l’aspetto interessante in tutto ciò è che Heidegger, leggendo Aristotele – qui sta parlando di Aristotele, solo dopo parlerà di Platone –, si domanda come si scopre l’ente, come lo incontro, in che modo io sono scoprente l’ente. Attraverso la σοφία? Attraverso l’πιστήμη? No, dice, attraverso la τέχνη, attraverso quindi la manipolazione dell’ente, attraverso il volere fare qualcosa con l’ente per qualche cos’altro. In altri termini, vengo a sapere dell’ente, scopro l’ente, perché lo voglio manipolare, perché lo voglio dominare. Ma per dominarlo, per potere fare qualcosa con l’ente, devo conoscerlo. E come lo conosco? Attraverso l’πιστήμη, attraverso la σοφία, cioè, devo presupporre un sapere che deve essere sempre lo stesso per potere utilizzare quella cosa lì. Se fossi matematico allora ogni volta che vedo il due avrei la certezza che quel due rimarrà un due, non si trasformerà in una macchina per il caffè o in un’altra cosa, ma rimarrà un due, so per certo che non muterà. Questo “so per certo” da dove arriva? Dall’πιστήμη, dalla σοφία, e cioè dall’idea che questa cosa sia lì, identica a sé per sempre. Questo sapere deve essere per sempre, quella cosa deve essere assoluta, deve essere sempre e soltanto se stessa, quindi, non deve mutare mai, mentre la τέχνη si occupa dell’ente che, invece, è mutevole e, di fatto, lo trasformo, lo manipolo, ecc. Questo ci indurrebbe a pensare che la conoscenza, anche quella epistemica o la σοφία come sapere assoluto, abbia come condizione la volontà di potenza, la volontà di dominare l’ente. Se ho la volontà di dominare l’ente, devo conoscere questo ente, devo sapere com’è davvero, com’è sempre e non com’è adesso, in questo istante, non sapendo come sarà un istante dopo; devo dunque sapere che sarà sempre così, solo allora lo posso manipolare, solo allora interviene la τέχνη. Emerge qui qualcosa di strano ovvero che l’ente è determinato nel suo essere mediante un momento del tempo: il permanere perenne caratterizza questo ente nel suo essere. Gli ντα sono ἀΐδια, gli enti sono per sempre. ἀΐδιον appartiene alla stessa radice di ε, in ogni momento perdurante, è ciò che è tutt’uno con se stesso, senza mai essere interrotto. All’incirca αἰών significa tempo della vita, inteso come pienezza della presenza. Ogni essere vivente ha il suo αἰών, il tempo determinato in cui è presente. Nell’αἰών è espressa la quantità di presente di cui un vivente dispone. In senso più ampio αἰών significa la durata del mondo come tale, che per Aristotele è eterno, non divenuto e intramontabile. L’esistere, sia quello del vivente che quello del mondo nel suo complesso, ha dunque la sua determinazione nell’αἰών che è un termine importante per il greco perché è questo perdurare che consente l’πιστήμη e la σοφία e, di conseguenza consente la tecnica, da cui tuttavia è partito tutto il movimento. La tecnica ha bisogno di sapere che quella cosa che sta manipolando è quella e, pertanto, ha bisogno dell’πιστήμη e della σοφία. Una volta che è stabilito che è quella, ecco che allora la tecnica può operare. L’esistere, sia quello dei viventi che quello del mondo nel suo complesso, ha dunque la sua determinazione nell’αἰών e nell’οὐρανός (urano, il cosmo, il cielo, ecc.) che assegna al vivente il suo αἰών, cioè il suo perdurare, il suo essere presente. Inoltre, gli ἀΐδια, i perduranti, sono ciò che sempre precede quanto alla presenza, ciò che è transitorio… Quindi, ciò che è sempre è più importante di ciò che è transitorio. /…/ ciò che un tempo è venuto all’essere, e perciò non era presente. Perciò gli ἀΐδια sono ciò che costituisce l’inizio per ogni altro ente; essi sono ciò che autenticamente è. Infatti, per i Greci essere significa essere presente, presenza. Pertanto, ciò che è sempre in questo istante è ente in senso proprio ed è l’ρχή, l’origine di ogni altro ente. Qualsiasi determinazione di un ente, se deve essere tale, viene ricondotta a un ente che è sempre ed è compresa a partire da esso. Quindi, c’è la ricerca di conoscere l’ente per poterlo manipolare, dominare; ma conoscerlo significa sapere che cos’è, per sapere che cos’è deve essere sempre quello che è, ma se è sempre quello che è vuol dire che questo “essere sempre” funziona come principio, come ρχή, come il da dove viene qualche cosa. Nella Fisica Aristotele offre un chiarimento preciso dell’espressione “essere nel tempo”. Essere nel tempo vuol dire essere misurato con il tempo in rapporto all’essere e, quindi, in Aristotele non abbiamo un concetto arbitrario, banale, di ciò che è nel tempo. Al contrario, tutto ciò che si misura con il tempo è nel tempo, ma è possibile misurare qualcosa con il tempo determinandone gli istanti, una sequenza di singoli istanti, però, ciò che è sempre, ciò che è costantemente adesso, possiede innumerevoli istanti, senza limiti, è πείρων. Poiché gli infiniti istanti dell’ἀΐδιον (del perdurante) non sono misurabili, l’ἀΐδιον, l’eterno, non è nel tempo. Ma proprio per questo, esso non è sovratemporale, nell’odierno senso della parola. Dal punto di vista aristotelico, infatti, ciò che non è nel tempo è pur sempre ancora temporale, vale a dire, determinato a partire dal tempo, come appunto l’ἀΐδιον, che non è nel tempo ma è determinato dall’πείρων degli istanti. Qui c’è anche un’altra questione, quella dell’πείρων, e cioè questi istanti, che costituiscono l’ἀΐδιον, il perdurante, costituiscono l’πείρων. Questo vuol dire che sono innumerevoli, che non sono numerabili, sono infiniti. La seconda determinazione dell’πιστητν (l’oggetto della scienza) compare per la prima volta nell’Etica. L’πιστητν è ἀποδεικτόν (apodissi, dimostrazione, ecc.), Aristotele lo esprime così “è insegnabile”. L’πιστητν, lo scibile in quanto tale è παθητός (viene da μθημα, da cui matematica; sarebbe l’oggetto della scienza), quindi, apprendibile. Il sapere implica che lo si possa insegnare, cioè, far apprendere e comunicare. Si tratta di una determinazione costitutiva non solo del sapere a anche della τέχνη. Questo sapere, di cui si avvale la τέχνη, oltre che essere un sapere che ha riferimento alla σοφία e all’πιστήμη, cioè alla certezza del sapere, deve essere trasmissibile, comunicabile. Vengono immediatamente alla mente le parole di Gorgia – nulla è, se qualcosa fosse non sarebbe conoscibile, se fosse conoscibile non sarebbe comunicabile –  che aveva visto che c’erano dei problemi rispetto a queste questioni. A partire da questa insegnabilità è chiarito che cosa conti nel sapere: il sapere è un essere posti rispetto all’ente che dispone di ciò che è scoperto, anche senza essere costantemente presso di esso. Il sapere è insegnabile, cioè comunicabile senza che vi sia bisogno di uno scoprimento in senso proprio. Come dire che il sapere è un essere posti rispetto all’ente che dispone di ciò che è scoperto, cioè può utilizzarlo. A questo punto l’ente diventa un utilizzabile, un qualche cosa di cui dispongo sempre per altro. È ovvio che qui c’è un punto centrale in tutto il pensiero greco, e cioè che se qualche cosa è apprendibile deve essere quello che è, sennò come si fa ad apprendere qualcosa che cambia continuamente? Quindi, è necessario che ci sia questo sapere, questa σοφία e questo πιστήμη. Aristotele pensa innanzitutto al parlare naturale. Qui vi è una duplice modalità del parlare. Quando gli oratori tengono un discorso pubblico in tribunale o nell’assemblea fanno appello a una maniera comune di intendere le cose, che è nota a tutti. In tale discorso non si producono argomenti scientifici ma si cerca di persuadere in qualche modo l’uditorio. Ciò accade ricorrendo a un esempio convincente, essi indicano l’universale che deve essere vincolante per gli altri attraverso l’evidenza della fattispecie, vale a dire di un caso determinato. Questo è un modo di persuadere gli altri. Questa via è detta παγωγή (induzione) ed è più un condurli per mano che un’argomentazione vera e propria. È anche possibile adottare una procedura che consiste nel ricavare premesse vincolanti e universali, attingendole alla comprensione naturale a ciò che si sa e su cui si concorda; ci si basa su determinate conoscenze di cui dispongono gli ascoltatori e che non vengono messe ulteriormente in discussione e partendo da esse si ricorre al συλλογισμός (sillogismo) nel tentativo di dimostrare qualcosa agli ascoltatori. Συλλογισμός e παγωγή sono i due procedimenti attraverso i quali è possibile far acquisire agli altri un sapere su determinate cose. La conclusione ricavata, a partire da conoscenze pregresse, è il tipo di comunicazione proprio dell’πιστήμη e dunque è possibile insegnare a qualcuno una determinata scienza senza che egli abbia visto o debba vederne per conto proprio tutti gli aspetti, purché egli disponga di certi presupposti. I presupposti sono quella cosa che Heidegger chiamava “chiacchiera” e Husserl “Lebenswelt”. Questa μάϑησις (insegnamento) trova la sua applicazione più pura nella matematica. Gli assiomi matematici sono quelle cose a partire dalle quali si compiono, sì, le singole deduzioni, senza avere però una vera comprensione di quegli assiomi. Lo stesso matematico non discute gli assiomi ma si limita a lavorare con essi. È vero che nella matematica moderna esiste un’assiomatica ma è evidente che i matematici fanno un’assiomatica di stampo matematico; essi cercano di dimostrare gli assiomi ricorrendo alla deduzione e alla dottrina della relazione, adottando cioè un procedimento che a sua volta è fondato sugli assiomi. In questo modo, però, non è possibile chiarire gli assiomi stessi. Il compito di mettere in chiaro ciò che sin da principio ci è già familiare spetta piuttosto all’παγωγή, una modalità di chiarimento basata sul puro e semplice stare a osservare. L’induzione in fondo si fonda sull’osservazione: ho visto che è successo così questa volta, tutte le altre volte succederà lo stesso. È quindi evidente che l’παγωγή è il principio ovvero ciò che rende accessibile l’ρχή. Qui c’è qualcosa che continua a ritornare nei testi che stiamo leggendo ultimamente, come nella Metafisica di Aristotele, e cioè l’ρχή, il principio primo di tutto, da dove arriva? Dall’παγωγή, dall’induzione, dalla chiacchiera, dal sentito dire, dal “si pensa, si crede, si suppone”. È quindi evidente che l’παγωγή è il principio ovvero ciò che rende accessibile l’ρχή. L’παγωγή è il momento più originario, non l’πιστήμη. È l’induzione, è l’παγωγή, è il sillogismo il momento basilare, non l’πιστήμη, non la scienza come certezza, che si costruisce sul sillogismo, sull’induzione, sulla chiacchiera. L’παγωγή conduce originariamente al καθολοu, mentre l’πιστήμη e il συλλογισμός sono ἐκ τόν καθολοu… Καθολοu è una parola greca che viene da κατά, secondo il tutto, l’intero, l’universale. Quindi, l’παγωγή, l’induzione, conduce all’universale, mentre l’πιστήμη e il συλλογισμός sono ἐκ τῶν καθολοu, cioè, sono fuori dall’universale, hanno quindi a che fare con il particolare. L’παγωγή è dunque necessaria in ogni caso, sia che ci si limiti a essa sia che se ne consegua una effettiva dimostrazione. Ogni πιστήμη è didascalia, cioè presuppone sempre qualcosa che, in quanto πιστήμη, non può essere essa stessa a chiarire. Per quanto si cerchi l’ρχή, questo si mostra infondato, infondabile, se non, e qui torniamo alla Metafisica di Aristotele, su quello che i più pensano: i più pensano così, quindi, sarà così. Questo è il fondamento dell’πιστήμη, della scienza. Essa è πόδεiξis, cioè, un far vedere che muove da ciò che è già noto e familiare. L’apodissi è la dimostrazione; per dimostrare devo partire da qualche cosa che conosco; non posso dimostrare partendo da qualcosa di cui non so nulla, anche se abbiamo visto che la dimostrazione è anch’essa un problema: per dimostrare la deduzione è necessaria l’induzione, e viceversa. Per questo l’πιστήμη fa già sempre ricorso a una παγωγή, che però non è essa stessa a compiere. Infatti, sin da principio ha sufficiente familiarità con ciò a partire da cui. Dunque, l’πιστήμη, in quanto πόδεiξis, presuppone sempre qualcosa. L’πιστήμη come dimostrazione presuppone sempre qualcosa, e ciò che presuppone è proprio l’ρχή. Questa, però, non si rende accessibile da sé. Che cosa vuol dire che non si rende accessibile da sé? Ha svelato il funzionamento del linguaggio: l’ρχή, il principio, per essere tale, deve essere inserito in una relazione e, quindi, l’ρχή dipende comunque da altro. È la stessa cosa che dicevamo a proposito di Dio quando leggevamo Porfirio: l’ρχή, il principio primo, da sé non può dimostrarsi perché la relazione comporta il metterlo in relazione, in connessione con altre cose, per cui non è più principio primo ma è qualcosa che dipende da altro. Poiché dunque l’πιστήμη non è in grado con le sue sole forze di far vedere ciò che le sta a monte, nell’ληθεειν dell’πιστήμη (nell’essere scoprenti rispetto alla scienza, all’πιστήμη, al sapere certo) si manifesta una mancanza: essa non riesce a far vedere l’ente in quanto tale, poiché proprio l’ρχή si pone completamente al di fuori della sua portata. Ecco perché l’πιστήμη non è ξις dell’ληθεειν, la più alta delle possibilità nel novero dell’πιστημονικόν è piuttosto la σοφία. Quindi, dice, l’πιστήμη è mancante, manca di un supporto deciso, forte, sicuro, certo, perché, come abbiamo visto, è supportata da questo ρχή, ma questo ρχή non può dimostrarsi da solo, ha bisogno di altro, mentre, dice, la più alta delle possibilità nel novero dell’πιστημονικόν è piuttosto la σοφία. Ciò nonostante un sapere autentico va sempre oltre la semplice conoscenza dei risultati. Chi dispone solo dei risultati finali e si limita a procedere oltre nel suo discorso non ha alcun sapere; egli possiede l’πιστήμη solo da di fuori. Il sapere in senso proprio dispone del συλλογισμός, sa percorrere una serie di passaggi da cui dipende la conclusione. L’πιστήμη è dunque un’ληθεειν che non offre un vero e proprio accesso all’ente. È, invero, quell’ente che è sempre in quanto quest’ultimo le rimane ancora occultato nelle ρχαι (principi). Qui, come si vede, c’è una ricerca forte, potente, da parte del pensiero greco per accertare il sapere, per potere stabilire un sapere certo. Adesso Heidegger sta parlando di Aristotele, però, stiamo parlando del Sofista, cioè di un dialogo platonico sulla possibilità stessa della conoscenza, quindi, del sapere. È possibile questo sapere? Lo sappiamo bene che per gli eleati questo costituiva un problema. Platone nel Sofista tenta di risolvere il problema, ma poi, di fatto, non lo risolve. Qual è lo scoglio contro cui va a cozzare continuamente? Che qualunque cosa venga certificata come sicura, certa, lo è sempre in relazione a qualche cos’altro. E questo qualche cos’altro come lo certifico? O andiamo avanti in una progressione infinita oppure compiamo un atto di forza, di volontà – voglio che sia così – però, per Platone non era la soluzione ideale, lui voleva invece giungere attraverso una dimostrazione, una πόδεiξis dell’ρχή, del principio, ma si accorge che questa ρχή non può dimostrarsi da sé ma ha bisogno di altro, come ciascun elemento linguistico, che per potere dirsi ha bisogno di altro, sennò non si dice. Continua a ripetersi il problema centrale, che già avevamo visto nel Sofista di Platone, del linguaggio. È contro questo che si scontra il pensiero di Platone, non soltanto di lui ovviamente, mentre gli eleati lo hanno messo in evidenza lasciandolo così com’è, perché non possiamo fare niente, se parliamo è così, Platone vuole invece eliminare il problema, senza poterlo fare. Posso dire che cos’è un qualche cosa senza dire altro rispetto a questo qualche cosa? E come faccio? Posso dire senza dire qualcosa? No, non posso. Finora non abbiamo ancora potuto propriamente vedere nell’πιστήμη un fenomeno che più o meno esplicitamente è racchiuso in tutti i modi dell’ληθεειν, cioè dell’essere scoprenti. Questo essere scoprenti è ciascuno. L’πιστήμη, nella misura in cui viene praticata come un compito, è essa stessa una πρξις (fare), benché si tratti di una πρξις che non ha per scopo un qualche risultato, come invece il produrre, ma si prefigge soltanto di acquisire l’ente come ληθές (come vero). Solo che qui Heidegger dimentica che vuole trovare l’ente come ληθές, come vero, per poterlo usare. Solo se è vero, solo se è quello che è lo posso usare. Il compito e lo scopo dell’πιστήμη consistono dunque nel conoscere l’ληθές; innanzitutto e per lo più, però, il conoscere è al servizio del fabbricare. Il conoscere è un conoscere per fare qualche cos’altro. L’ληθεειν contribuisce a costituire il modo di attuazione di una ποίησις o di una πρξις (di una produzione o di un fare generico) /…/ La ζωή dell’uomo, a differenza degli animali, è πραγματική ποιητικός μετά λόγου (un fare secondo il linguaggio). Essa è caratterizzata da πρξις και λήθεια (dal fare e dalla verità), dalla πρξις e dalla λήθεια, l’essere scoperto dell’esistere stesso, come pure dell’ente al quale l’agire si riferisce. Entrambe queste determinazioni fondamentali, in considerazione della visibilità e delle sue possibilità, possono ora essere formulate come ασθησις, νος, ορεξίς (percezione, pensiero, intenzione). Perciò Aristotele dice κύρια (dominante, superiore, signore) dominanti fra le possibilità di ogni comportamento umano sono: ασθησις, νος e ορεξίς. Ogni atteggiamento dell’esistere, quindi, è determinato come πρξις και λήθειαCioè, qualunque cosa si faccia è determinato anche dalla verità, dall’essere scoperto, dall’essere vero: non posso fare se ciò che faccio non è in relazione a qualcosa che considero vero.  Nel caso dell’πιστήμη, del conoscere scientifico, il carattere della πρξις non è emerso espressamente in quanto la conoscenza scientifica è autonoma e tale autonomia è già essa stessa πρξις e ορεξίς. Nella τέχνη, invece, l’ληθεειν è quello di una ποίησις. La τέχνη è invece una διάνοια ποιητικέ  (un pensiero produttivo), un pensiero che penetra l’ente in profondità e che concorre al produrre, al modo cioè in cui qualcosa deve essere fatto. Perciò in ogni τέχνη, in quanto ποίησις, è in ogni πρξις. L’ληθεειν è un λγειν che parla esattamente come vuole l’ορεξίς, l’intenzione. Come dire che tutto ciò che si fa parla come vuole l’intenzione. Ma qual è l’intenzione? Quella di dominare l’ente. Quindi, tutto ciò non è altro che una serie di modi per controllare l’ente, per dominarlo, per possederlo. Qui non si tratta di speculare sull’ente in termini teorici, bensì di esprimere l’ente in modo tale che esso offra la giusta indicazione per la corretta realizzazione di ciò che deve essere prodotto, così nella τέχνη e nella φρόνησις l’ληθεειν è orientato alla ποίησις e alla πρξις. Ma è orientato alla produzione e al fare dalla mia intenzione, cioè il mio essere scoprente, il mio incontrare gli enti è orientato dalla mia volontà, da ciò che io voglio fare. Ma cos’è che voglio fare? Manipolare l’ente, e per manipolare l’ente devo conoscerlo, per conoscerlo devo trovare l’ρχή, il principio, e il principio lo trovo dove? Lo trovo, come dicevamo prima, nell’παγωγή, nell’induzione, nel sillogismo, lì trovo l’ρχή. E, quindi, ci si trova in una situazione particolare. Come nel caso dell’πιστήμη anche per la τέχνη si tratta innanzitutto di determinare l’ente a cui essa si rivolge. Devo determinarlo, il problema è come. Nella τέχνη la dimestichezza è orientata la ποιητόν (il produrre), a ciò che deve ancora essere prodotto e che dunque ancora non è… Questo nella τέχνη: io ho in animo di fare qualche cosa, che però ancora non c’è. Ciò che ancora non è non è sempre. Ogni dimestichezza, in quanto guida e dirige una produzione, si muove entro il raggio di un ente in divenire e in cammino verso il suo essere. E il τεκνάζειν è appunto un osservare, non nel senso però che tale osservare sii esaurisca in sé; esso è bensì orientato allo ὅρος, a far sì che qualcosa accada in questo modo preciso. Dice qui queste cose per distinguere la τέχνη, come qualcosa fatto per altro, e θεωρέιν, che invece non è fatta per altro, il teorizzare è fatto per se stesso. Il θεωρέιν della τέχνη non è speculazione bensì guida l’approccio verso un fine, uno scopo. Così l’ente della τέχνη è un qualche cosa che ancora non è ma che sarà. Tutto questo ci porta a fare ancora una considerazione. L’ente è qualunque cosa, e quindi anche me naturalmente, un pensiero, un desiderio, un timore, tutte queste cose sono enti. Torniamo alla domanda originaria: in che modo ci si approccia all’ente? Ci si approccia all’ente in questo modo: io voglio l’ente per modificarlo, per modificarlo devo conoscerne il principio, devo sapere esattamente che cos’è, devo determinarlo. La questione, che gli eleati avevano in qualche modo avvertita, anche se non la espongono in termini espliciti, è che nel fare questo, cioè nel determinare l’ente, l’ente si allontana. Dopo duemilacinquecento anni, Heisenberg ha rilevato la stessa cosa facendo i suoi esperimenti. Questo ente devo determinarlo per usarlo, determinandolo questo ente si nasconde. E qui torna Eraclito: la φύσις, che è l’ente, e qualunque cosa, si nasconde, nel momento in cui lo determino dilegua, direbbe Hegel. Ecco la potenza del pensiero degli eleati, che certamente non avevano raggiunto la questione del funzionamento del linguaggio, però avevano inteso che l’ente non lo posso determinare se non in quanto altro da sé: determinandolo dico delle cose che non sono più quell’ente. Platone, invece, nel Sofista si adopera per dimostrare che è possibile determinare l’ente. Lui lo farà a partire dal non ente – il perché lo vedremo più avanti – ma in tutta questa operazione Platone si perde e, infatti, come abbiamo visto, il dialogo Sofista a un certo punto si tronca, non c’è una conclusione, è troncato, perché proseguirlo sarebbe stato pericoloso, avrebbe potuto portarlo a considerare che le sue argomentazioni non erano sufficienti a inficiare il pensiero degli eleati. La questione riguarda l’ρχή di questo ente, e cioè fino a che punto la τέχνη possa scoprire da sé l’ρχή cui si rivolge. E, infatti, la τέχνη immagina, utilizzando qualcosa, di sapere che cos’è questo qualcosa, oppure non ha bisogno di chiedersi che cos’è, semplicemente lo utilizza. Però, qui, in questo caso, è in atto un pensare teoretico e, quindi, è impossibile sottrarsi alla domanda. Un matematico non si chiede che cosa sia un numero, non gliene importa niente, lo usa e bell’e fatto; però, non sapendo in nessun modo che cos’è, si trova a ignorare che questo numero, che sta utilizzando, è un elemento linguistico e che, quindi, incontra tutti quei problemi che incontra il linguaggio, che incontra ciascun elemento linguistico. Quindi, a questo punto, quando per qualunque motivo intende determinarlo, ecco che si accorge dell’impossibilità e, allora, ricorre a dei trucchetti, come per esempio la teoria dei limiti, e cioè fa finta che il problema non ci sia. Questo ha degli effetti su tutto il pensiero matematico? No. Questo sarebbe però da approfondire perché potrebbe anche avere degli effetti. Per Russell la logica, che per lui era la logica matematica, è quella cosa di cui nessuno sa di che cosa si parla e che cosa si stia esattamente facendo. Certo, può non essere necessario saperlo, e infatti non lo è per svolgere, per fare i conti, ma nel momento in cui la matematica, come strumento della scienza, si pone come quella cosa che dovrebbe rendere conto dello stato delle cose, ecco che allora il problema si affaccia immediato. Qualunque teoria scientifica non rende minimamente conto dello stato delle cose: questa è la conclusione inevitabile di tutto ciò che stiamo andando dicendo. Non lo può fare e non lo può fare perché non ha un fondamento da cui muovere con certezza. Il fondamento è fatto di niente, come abbiamo visto. Ma se la fisica, la matematica, la scienza in generale, non possono in nessun modo dire come stanno le cose, cioè com’è il mondo, che cosa fanno? Sì, costruiscono modelli possibili, ma ciascuno di questi modelli possibili è un modello che possibilmente descrive uno stato di cose. Ma se questo stato delle cose è inaccessibile, allora che fa? Ecco come ritorna la questione del principio. Anche nella matematica, il suo scopo, che è quello di dire come stanno le cose, fallisce necessariamente. Qui pone la questione dell’εδος, dell’immagine. L’εδος è l’anticipazione – stava facendo l’esempio della casa – della presenza della casa… Cioè, è in base a questa idea che uno costruisce la casa, idea che poi mette in atto. /…/ e allora l’εδος è dunque l’ρχή. A partire da esso ha inizio la κίνησις (movimento); questa κίνησις è dapprima quella della νόησις (pensiero, deliberazione), poi quella della ποίησις, dell’agire, che scaturisce dalla deliberazione. /…/ La τέχνη è il terreno su cui può essere avvistato qualcosa come l’εδος. Non a caso abbiamo trattato della τέχνη, è in essa infatti che l’εδος si fa anzitutto presente nella τέχνη. Cioè, nel volere fare qualcosa per qualche cos’altro, cioè nella volontà di manipolazione dell’ente. Qui addirittura l’εδος, l’immagine, sorge nel momento in cui io voglio modificare l’ente. Questo volerlo modificare produce l’idea, l’immagine di questa modificazione.