INDIETRO

 

 

15 novembre 2023

 

Aristotele Analitici Secondi

 

Aristotele negli Analitici Secondi si occupa della dimostrazione e di quali sono le garanzie della dimostrazione. Dice che la dimostrazione deve muovere da premesse certe, ma, tenendo conto di tutto ciò che ha detto fino ad ora, quali sono le premesse certe? Quelle che io decido essere tali. Di fatto, leggendolo ci si accorge che ogni cosa non è altro che λόγος, discorso. Tant’è che, come dicevamo tempo fa, nella lotta tra platonismo e aristotelismo alla fine ha vinto Platone. Ha vinto Platone perché lui, sì, garantiva che le cose erano così come sono, cosa che Aristotele non fa. L’ούσία è il significato, mentre per il platonismo l’ούσία, la sostanza, ciò che qualcosa veramente è, è l’idea, che nessuno vede ma che garantisce che le cose sono quelle che sono. Questa garanzia non c’è da nessuna parte in Aristotele. Ecco perché ha vinto Platone e continua a vincere a tutt’oggi, mentre Aristotele è stato abbandonato. Cosa è successo dopo Aristotele nella storia del pensiero? Teofrasto, la Scolastica, quindi, una ripetizione pedissequa di Aristotele; dopo ci sono stati gli stoici, gli scettici, sino ad arrivare al I sec. a.C. con gli epicurei, e la ripresa di Democrito da parte di Lucrezio. Ma del pensiero dirompente di Aristotele non c’è più stata traccia. Con questo voglio dire che bisogna praticamente arrivare fino ad Heidegger per riscoprire questo aspetto di Aristotele, che è sempre stato cancellato perché, lo abbiamo detto varie volte, di Aristotele è stata fatta una lettura platonica: Aristotele è stato interpretato platonicamente: l’ούσία è diventata il che cosa sono veramente le cose, che è poi l’idea di Platone, cioè, è stata spostata all’idea di Platone. Per Aristotele, invece, delle cose ci sono soltanto i praedicamenta, le categorie, cioè, i modi in cui si dice; l’ούσία è fatta di queste cose, è fatta di ciò che si dice. Una lettura non platonica di Aristotele non è mai stata fatta perché avrebbe comportato anche, nella Metafisica per esempio, il problema del principio primo. Nei manuali si cita sempre il principio primo di Aristotele, ma il principio primo è la δόξα, altro che il principio, Dio, ecc. Lasciamo poi stare la nozione di Dio, così come è sempre stata interpretata, che non c’entra niente con θεόν di Aristotele, che è piuttosto il pensiero pensante di Gentile, se in qualche modo vogliamo dargli una connotazione. E, allora, che cosa succede a un certo punto in questo percorso? Siamo al I secolo dopo Cristo, quindi quattro secoli dopo Platone. C’è una corrente di pensiero che è poco nota: i Medioplatonici. L’esponente più noto è Filone di Alessandria, che era un ebreo di lingua greca e che ha scritto Il commento allegorico alla Bibbia e altri sulla filosofia mosaica. Alcuni hanno considerato Il commento allegorico alla Bibbia come un preludio alla semiotica. Con i Medioplatonici accade qualche cosa che nessuno ha veramente preso in considerazione, e cioè una sorta di aggancio con Platone, dove l’idea dell’Uno incomincia a prendere forma. Un secolo dopo questa idea dell’Uno diventerà la base del pensiero di Plotino: l’Uno come ciò da cui tutto procede. Prima con gli stoici e poi con gli scettici, anche sulla scorta dei megarici, c’era stata come una sorta di ebbrezza perché prendevano malamente tutto ciò che avevano posto già i presocratici (Eraclito, Parmenide, Anassimandro, Democrito, ecc.); dico malamente perché non avevano colta la portata teoretica, ma avevano colto solo l’aspetto popolare. Per gli scettici non c’è la verità, nulla è vero, quindi, compresa questa affermazione. È stato ripreso malamente perché è stato un eleatismo ingenuo; nei sofisti, ma anche in Eraclito e in Parmenide, c’era questo aspetto, ma all’interno di un pensiero teoretico molto potente, che si è poi perso, non ha avuto più seguito. Invece, come reazione probabilmente a una cosa del genere, ecco il Medioplatonismo, cioè, il recupero di Platone, ma con l’idea dell’Uno, dell’Uno da cui procedono i molti. È una variazione di Platone, Platone non è così, per Platone i molti non procedono dall’Uno, per Platone ci sono l’uno e i molti. Come sappiamo, Platone dice che l’uno è il bene e i molti sono il male. Porre l’Uno come ciò che genera i molti comporta non solo che l’Uno controlla i molti, ma li tiene definitivamente separati. Questo ha costituito, come vedremo più avanti in Plotino, l’innesco per potere pensare in modo definitivo all’Uno come qualcosa di totalmente differente e inconciliabile con i molti. Cosa che a tutt’oggi permane: succede qualcosa nel mondo e tutti sono pronti a schierarsi, buoni e cattivi, bene e male. Questa cosa non è naturale come potrebbe apparire, ma è un retaggio del neoplatonismo, innescato dai Medioplatonici. Mi stavo domandando circa la nascita dei monoteismi, c’è quello prefilosofico, l’ebraismo, e due monoteismi postfilosofici, il cristianesimo e l’islamismo. Questi monoteismi sono costruiti sull’idea dell’Uno che genera i molti, di un Uno definitivamente separato dai molti. Dopo Plotino non c’è più la possibilità di pensare come faceva Eraclito, ἒν πάντα εἰναι. Il lapsus di Diels è emblematico perché anche lui si è formato con una impostazione, che è di tutti, neoplatonica, ed è per questo che traduce πάντα come se fosse πάντον, il tutto, come se l’uno fosse il tutto, che è esattamente la posizione di Plotino. Non era questo che diceva Eraclito, come ci fa notare in modo preciso Heidegger, diceva πάντα e non πάντον. Ora, l’ebraismo tutto sommato poteva rimanere l’unico monoteismo, e invece no, a un certo punto è sorta la necessità di tenere separati l’uno dai molti, in modo definitivo e irreversibile, perché solo così è possibile dominare, è possibile orientarsi: solo se sappiamo che cos’è bene e che cosa è male ci orientiamo. Il che è vero solo in parte, perché è vero che ci orientiamo, ma come? Ogni volta che decidiamo qualcosa cogliamo un elemento e scartiamo gli altri; però, questo non ci conduce a pensare o a credere che queste cose che scartiamo siano il male.

Intervento: …

Platone diceva che le idee sono loro a essere autentiche e che fanno esistere le cose, gli enti. Sono le idee che stanno nell’Iperuranio l’unica garanzia delle cose che vediamo. Noi vediamo un libro perché c’è l’idea del libro, sennò non potremmo conoscere il libro. Quindi, che cos’è veramente il libro, la sostanza? Viene dall’idea, viene da Dio, in fondo. Tutte queste cose, invece, erano assenti in Aristotele; in Aristotele non c’è niente di tutto ciò. Aristotele non è stato per nulla utilizzabile per costruire, per così dire, l’impero, e quindi poteva leggersi soltanto attraverso Platone: l’ούσία è la sostanza, quindi, l’idea di Platone, l’idea che fa delle cose quelle che sono, e non l’ούσία che, sì, fa essere le cose quelle che sono, ma, λόγοι, discorsi, praedicamenta. Le cose sono discorsi, sono categorie, quindi, praedicamenta, ciò che se ne dice; da qui, ovviamente, non era possibile costruire nessuna religione. Come abbiamo detto varie volte, per Platone le cose sono quelle che sono per virtù propria, mentre per Aristotele le cose sono quelle che sono in virtù di altro, cioè, in virtù dei λόγοι, dei discorsi. È interessante vedere qui come svolge Aristotele la questione, perché lui probabilmente si rende conto del problema della premessa maggiore nei sillogismi. Finché si tratta di stilare tutte le regole, di compilare il suo programma, finché fa questo va tutto bene. Qui, invece, negli Analitici Secondi è come se si dovesse rendere conto di queste cose non più attraverso dei programmi, ma attraverso dei discorsi. Rileggiamo questo passo a pag. 843. La soluzione dell’aporia di Menone. Ricordate lo scritto, il Menone, di Platone. Socrate vuole dimostrare che lo schiavo ha già tutte le informazioni per costruire un calcolatore, praticamente; lui non sa ma, facendogli le domande giuste e facendolo ragionare, Menone costruisce la geometria senza saperne assolutamente nulla; quindi, queste cose le conosceva già. Questo va naturalmente a supporto della teoria della reminiscenza di Platone: vediamo le cose, le conosciamo, perché ci ricordiamo di quelle che sono lassù nell’Iperuranio. L’aporia è questa, e cioè per conoscere devo già sapere. È un’aporia interessante, il sottotitolo dice “soluzione dell’aporia” ma, in realtà, non c’è nessuna soluzione. Ora lo vedremo, Aristotele non risolve il problema, perché sarebbe come dire che per imparare a parlare occorre già sapere parlare. Non c’è uscita, perché come faccio a imparare qualcosa se non conosco delle cose, se non so, per esempio, che alcune cose sono istruzioni? Come dire che anche per potere negare il linguaggio devo usare il linguaggio: sono tutte varianti della stessa cosa. È un’aporia dalla quale non si esce. Ogni insegnamento e ogni apprendimento razionale derivano da una conoscenza preesistente. Aristotele lo pone così, come un assioma. Sono delle reminiscenze che aveva dell’insegnamento di Platone, del quale era stato allievo per un certo periodo. Questo è evidente a coloro che considerano la questione in tutti i casi: infatti le matematiche, tra i saperi scientifici, procedono in questo modo e così ciascuna delle altre forme di sapere tecnico. È vero? Il matematico per sapere fare di conto ha bisogno di sapere che cos’è un numero? No. Quindi, è già confutata la prima affermazione: questo sapere preesistente non è necessario. Similmente accade anche circa le argomentazioni, sia quelle che si sviluppano attraverso sillogismi sia quelle che procedono per induzione; entrambe, infatti, producono l’insegnamento attraverso conoscenze precedenti, poiché le prime le assumono nel senso in cui le comprendono anche gli interlocutori… Nel primo caso, quello dei sillogismi, si assumono nel senso che anche gli interlocutori, quando io dimostro un qualche cosa, capiscono quello che dico. …mentre le seconde provano l’universale attraverso l’evidenza del particolare. È l’induzione: il particolare è evidente e se c’è un altro particolare che si affianca a questo sarà la stessa cosa; e questa è l’analogia. Qui Aristotele, pur sapendolo credo, non parla di inganno, ma l’induzione è un inganno, puro e semplice. È un inganno il fare credere che si compie un universale a partire da un particolare, come è possibile? E così anche le argomentazioni retoriche riescono a persuadere allo stesso modo: procedono o per esempi – e questo è un’induzione – o per entimemi – e questo è un sillogismo. In due modi è necessario avere conoscenze precedenti: alcune cose, infatti, bisogna assumere preliminarmente che sono… Dirà poi perché. Ricordatevi bene questo: alcune cose, infatti, bisogna assumere preliminarmente che sono, assumerle preliminarmente, nessuno le ha dimostrate. …di altre, bisogna comprendere che cosa significa ciò che viene espresso; di altre, entrambe le cose. Per esempio, del fatto che è vero affermare o negare ogni cosa si deve conoscere preliminarmente che è; del triangolo invece che significa questa cosa qui, dell’unità poi entrambe le cose, sia cosa significa sia che è. /…/ È possibile acquisire conoscenze se si sono venute a conoscere prima alcune cose… Potete notare subito l’aporia: io vengo a conoscere attraverso questo procedimento. Certo, dice lui, questo procedimento va bene, ma è come se dicesse che questo procedimento ha bisogno di un altro procedimento preliminare, che c’è già prima e in cui ho colto delle cose. …mentre di altre perché si acquisisce conoscenza anche simultaneamente, per esempio come accade per quelle cose che ricadono sotto l’universale di cui si ha conoscenza. A pag. 847. Prima di essere condotti a conclusione, ovvero di assumere un sillogismo, bisogna comunque dire che in un certo modo si conosce, in un altro no. In effetti, ciò che non si sa in senso assoluto se è, come si può sapere in senso assoluto che ha due angoli retti? Prima devo sapere che esiste quella cosa che chiamiamo triangolo e dopo…, oppure sono simultanei? Adesso vediamo. Tuttavia, è chiaro che così si sa, perché si sa universalmente, ma non si sa in modo assoluto. Altrimenti, si verificherà l’aporia che si trova nel Menone, e allora non si imparerà niente, o solo le cose che si sanno. Menone può imparare perché sa già, se non sapesse non potrebbe imparare niente. Ora, si dovrà parlare come quelli che cercano di risolvere l’aporia “sai se ogni coppia è pari o no?”. Quando qualcuno dice di sì, gli presentano una coppia che non sapeva esistesse, così neppure saprà che è pari. Come dirime la questione Aristotele? Con l’universale, naturalmente: io non conosco i particolari, ma so che tutte le figure che hanno certe proprietà ricadono sotto queste caratteristiche. D’altra parte, costoro sanno ciò di cui possiedono e di cui hanno assunto la dimostrazione, e l’hanno assunta non riguardo a ogni cosa di cui sanno che è un triangolo o che è un numero, ma i9n senso assoluto riguardo a ogni numero e triangolo… /…/ tuttavia nulla impedisce, credo, che ciò che si apprende in un senso si sappia e in un altro si ignori. La matematica sa del numero, lo usa continuamente e anche molto bene, ma non sa che cos’è; quindi, da una parte lo sa e dall’altra no. A pag. 849. Riteniamo di conoscere scientificamente ogni cosa in senso assoluto – ma non nel modo sofistico, cioè accidentalmente – allorché riteniamo di conoscere la causa per cui la cosa è, che essa è causa di quella cosa, e non è possibile che questa sia altrimenti. Dunque, è chiaro che il conoscere scientificamente è un fatto di questo tipo; e vi sono infatti coloro che non conoscono scientificamente e coloro che conoscono scientificamente… I primi hanno cognizione di causa, gli altri no. Se poi vi è anche un altro modo di conoscere scientificamente, lo diremo in seguito; diciamo pure che si conosce scientificamente per dimostrazione. Chiamo “dimostrazione” un sillogismo scientifico, chiamo “scientifico” quello in virtù del quale, per il fatto di possederlo, conosciamo scientificamente. È una bella definizione circolare. Che cosa chiamo scientifico? Ciò che è nella scienza. Che cosa chiamo scienza? Ciò che è scientifico. Ora, se conoscere scientificamente è tale quale abbiamo posto, è necessario anche che la conoscenza scientifica dimostrativa proceda da premesse “vere”, “prime”, “immediate”, più note, anteriori e che siano cause della conclusione: così, infatti, anche i principi saranno propri di ciò che è dimostrato. Le premesse debbono essere vere, prime e immediate. Il problema è trovarle, stabilire che sono proprio così, le prime. È un problema perché, se sono le prime, e adesso lo dirà, ovviamente non c’è dimostrazione perché, se procedessero da una dimostrazione non sarebbero prime, ma seguirebbero come risultato, come conclusione di un altro sillogismo e si innescherebbe, quindi, un processo all’infinito, per cui non ci sarebbe mai conoscenza. Dunque, è necessario che ci sia qualcosa di indimostrabile a partire dal quale si dimostra; per determinare qualcosa è necessario che questa determinazione avvenga tramite l’indeterminabile. Aristotele lo pone come necessario perché se non fosse così, se la premessa maggiore fosse dimostrata, dovremmo poi dimostrare quella che l’ha dimostrata, e così via all’infinito. Quindi, non deve essere dimostrata né essere dimostrabile. Infatti, l’induzione è dimostrabile? No, come faccio a dimostrare che, essendo sorto oggi il sole, sorgerà anche domani? Non lo posso dimostrare. A pag. 853. Il sillogismo dimostrativo deve poi procedere da premesse prime indimostrabili… Non è che accade, no, “deve”, sennò non esiste la scienza, ogni dimostrazione rimbalzerebbe su un’altra, all’infinito. Ma se il sillogismo muove da una premessa non dimostrabile, che cosa lo supporta? Ecco, ventisei secoli fa è stata definita la scienza. Le premesse devono essere cause e più note e anteriori: cause perché, quando conosciamo la causa, allora conosciamo scientificamente, e anteriori, se davvero sono cause, e conosciute preliminarmente non solo nel secondo modo, cioè per il fatto che vengono comprese, ma anche perché si sa che sono. Come faccio a sapere che sono? Perché l’ho deciso. Lui fa un esempio interessante, cioè, devo per esempio ammettere che parlando nego oppure affermo che questa cosa c’è. Quindi, che cosa c’è? C’è il linguaggio, nient’altro che linguaggio, perché il linguaggio è questo: affermare, negare, decidere, separare, giungere e disgiungere, σύνϑεσις e διαίρεσις. Il linguaggio è relazione, perché nella relazione se una cosa è questa non è quell’altra, ma è quella che è in virtù del fatto che non è quell’altra e, quindi, senza quell’altra non è nemmeno lei. Chi ha visto il problema? Non poteva essere inteso bene da Aristotele; diciamo che lo mette a tema ma non lo problematizza, perché senza il linguaggio non si riesce a intendere ma rimane lì in sospeso; e, infatti, in Aristotele rimane in sospeso. Il titolo del capitolo è “Soluzione dell’aporia di Menone”, titolo messo dai traduttori e che non c’è in Aristotele. Non c’è nessuna soluzione dell’aporia. Chiamo “anteriori” e “più note per noi” le realtà più vicine alla percezione, “anteriori” e “più note in assoluto” le più distanti. Le “più note per noi” sono quelle che vediamo; più distante, invece, è l’universale perché è il prodotto di un’induzione e, quindi, occorrono più passaggi per arrivarci. Principio è una premessa immediata di una dimostrazione, immediata quella di cui non c’è un’altra anteriore. Se non c’è un’altra anteriore vuol dire che non c’è dimostrazione. Il principio è indimostrabile per definizione, perché sennò non è principio: se lo poniamo come principio lo poniamo necessariamente come indimostrabile.

Intervento: A proposito dell’induzione, non essendo dimostrabile, è come se dicesse che dai molti non si può dedurre l’Uno e, se dai molti non si può dedurre l’Uno, o li si pone come simultanei o niente.

Bravo. Questa è una bella questione. In Plotino, in effetti, la cosa è precisa perché, se si potesse dai molti trarre l’Uno, significherebbe che Dio è dimostrabile, ma se è dimostrabile vuol dire che c’è una dimostrazione che lo precede, che lui è il risultato di un calcolo, e se c’è qualcosa che lo precede non è più Dio, perché ci sarebbe qualcuno sopra di lui. Come diceva qualcuno, nemmeno Dio può contraddirsi, perché ci sarebbe una legge al di sopra di lui. Questo è importante, si riallaccia alla questione dell’Uno. In effetti, questo Uno non deve esser deducibile in nessun modo: Dio non può essere dedotto, non può esserci una dimostrazione dell’esistenza di Dio, nonostante Anselmo. Non può, e questa sarebbe la vera obiezione ad Anselmo, è questa che fa crollare tutto: se Dio fosse dimostrabile non sarebbe più Dio perché ci sarebbe qualcosa prima di lui, la sua esistenza seguirebbe a qualche cos’altro.

Intervento: …

Aristotele in qualche modo aveva già risolto il problema. È vero che da qualcosa partiamo: partiamo dalla δόξα, che è l’unica cosa da cui possiamo partire, ma possiamo far procedere Dio dalla δόξα? No, viva Iddio, non possiamo, Dio sarebbe il risultato, il prodotto della chiacchiera, che Dio sarebbe allora? Principio è una premessa immediata di una dimostrazione, immediata quella di cui non c’è un’altra anteriore, cioè, il principio non è deducibile, sennò non è un principio, ma è la conclusione di un sillogismo, il quale prevede un medio e una premessa maggiore. Premessa… Aristotele distingue la premessa dal principio. Premessa è l’una o l’altra parte di una contraddizione, una sola cosa predicata di una sola cosa: premessa dialettica quella che assume una delle due parti indifferentemente, dimostrativa quella che assume una delle due determinatamente, poiché vera. Quindi, il fatto di distinguere il principio dalla premessa pone il principio come qualcosa a sé stante. Posso utilizzare il principio come premessa, perché no, ma devo sapere che è un principio, e cioè che è qualcosa che viene accolto per quello che è, perché è così e tanto basta. Enunciazione è una parte o l’altra di una contraddizione, contraddizione è un’antitesi di cui non c’è di per sé un intermedio, la parte di una contraddizione che connette qualcosa a qualcosa è un’affermazione, quella che separa qualcosa da qualcosa è la negazione. L’affermazione, quindi, è una connessione, qualcosa che si connette con qualche cos’altro; mentre la negazione è qualcosa che separa questa connessione. Questo è un altro modo per pensare comunque e sempre nei termini dell’uno e dei molti: la giunzione, la sintesi che porta all’uno; la disgiunzione che separa, che toglie di mezzo quella cosa che impedisce all’uno di essere uno, quella cosa che impedisce a Dio di essere Dio, e cioè i molti, che non posso coesistere con Dio. Ora qui procede in innumerevoli definizioni. Di un principio sillogistico immediato chiamo “tesi” quella che non né possibile provare, né è necessario che possieda uno che è in procinto di apprendere qualcosa; tuttavia, è necessario che colui che è in procinto di imparare possieda un assioma. Se uno è in procinto di imparare deve avere già qualche cosa a disposizione, deve avere un assioma. Che cos’è un assioma? È un insieme di termini… che è poi la stessa cosa che fa ancor oggi la logica formale: l’assioma è una sequenza di termini, di formule ben formate, che è una tautologia, cioè, è sempre vero per qualunque valore di verità attribuito alle variabili. Anche Vico parlava dell’assioma, che chiamava degnità, come ciò che è degno di essere detto, di essere posto. A proposito di una tesi è un’ipotesi quella che assume una delle due parti indifferentemente della contraddizione, ossia se affermo “qualcosa è” o “qualcosa non è”; invece è una definizione quella che prescinde da ciò. Poi, però, si corregge. Eppure, la definizione di aritmetica pone che l’unità è l’indivisibile secondo la quantità, ma questa non è un’ipotesi, poiché che cos’è un’unità e che l’unità è non sono la stessa cosa. Di nuovo, anche qui c’è l’influsso platonico perché sta dicendo che l’uno e i molti non sono la stessa cosa. Il che è vero, non sono la stessa cosa, ma sono simultanei. Dice che il dire che cos’è l’unità è diverso dal dire l’unità è: quando dico che l’unità è sto ponendo una tesi che non posso dimostrare, ma la pongo – la tesi è una posizione; il che cos’è invece rinvia al significato, rinvia ai molti perché, se dico che cos’è una tesi, di che cosa è fatta, mi sposto immediatamente su altre cose, devo dire altre cose. Però, ci sta dicendo che entrambe le cose, anche se non le pone come simultaneità, sono necessarie: è necessario che qualcosa sia ed è necessario che qualcosa sia qualche altra cosa. Il chiedere che cos’è qualche cosa è come chiedere quale altra cosa è, oltre a se stessa; ma se stessa non è senza quell’altra.