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15 novembre 2017

 

M. Heidegger, Essere e Tempo 

 

Siamo a pag 400. L’avvenire inautentico ha il carattere dell’aspettarsi. L’aspettarsi dal futuro. L’autocomprensione che si prende cura in quanto Si-stesso a partire da ciò in cui si è indaffarati, ha il “fondamento” della sua possibilità in questo modo estatico dell’avvenire. Heidegger continua che, sì, certo, il Si, cioè il modo inautentico di vivere, è ciò da cui si nasce. Si nasce nel Si, nel luogo comune della chiacchiera. Questa è una questione un po' complicata in Heidegger. Verrebbe da pensare che l’inautentico sia originario rispetto all’autentico, nel senso che l’inautentico precede l’autentico, e per giungere all’autentico occorre un atto di volontà, un volersene trarre fuori. Però, sembrerebbe in certi momenti he questo inautentico abbia la sua condizione nell’autentico, ma non è proprio così, in effetti. Infatti, poi dice Soltanto perché l’Esserci effettivo si aspetta il suo poter-essere da ciò di cui si prende cura, esso può essere in attesa e ripromettersi qualcosa. L’Esserci effettivo si aspetta il suo poter essere, nel senso che c’è sempre questo movimento… L’Esserci si aspetta che cosa? L’unica cosa che può aspettarsi è il suo poter essere, perché è l’unica cosa che lui stesso è. Quindi, non è tanto, come verrebbe da pensare, che c’è l’essere da una parte e il Si inautentico come condizione, però, questo Si ha come condizione, a sua volta, l’Esserci in quanto autentico e, pertanto, non si capisce più cosa c’è prima. Però non è così, perché lui dice che, sì, l’Esserci è in atto, in quanto poter essere, e questa è la condizione anche del Si per potere pensare qualunque cosa. E, in effetti, ha ragione, ciò che si fa dopo è accorgersi, cioè, è questo esserci che riflette su se stesso, ed è questo che porta all’autentico. Finché non riflette su se stesso ma si beve tutto quanto gli raccontano non va da nessuna parte. In questo senso l’Esserci è prioritario, è prioritario perché sono io. Nasco certamente nel Si, nella chiacchiera, però, posso accorgermi di esserci, ma finché non me ne accorgo continuo a vivere nella chiacchiera. L’aspettarsi deve aver già sempre aperto l’orizzonte e l’ambito da cui qualcosa può essere atteso. Se non c’è la comprensione, che è l’apertura, non c’è neanche un Si, non c’è niente, se non c’è questa possibilità non vedo neanche le cose, non c’è niente da vedere. L’attendere è un modo dell’avvenire fondato nell’aspettarsi, avvenire che si temporalizza autenticamente come anticipazione. Ecco perché nell’anticipazione è insito un essere-per-la-morte più originario che nell’attesa per la morte. Dice che l’attendere è un modo dell’avvenire fondato nell’aspettare qualcosa, ma nell’aspettarsi. La comprensione, in quanto esistere nel modo di un poter-essere comunque gettato, è primariamente ad-veniente. L’ad-venire è la gettatezza, è questa che ad-viene. Quindi, la comprensione è sempre primariamente ad-veniente, cioè riguarda sempre la gettatezza: io comprendo in quanto gettato e in questa gettatezza qualche cosa può venirmi incontro, perché c’è un’apertura verso qualcosa e questo qualcosa è la Cura. Io sono in quanto prendentemi cura delle cose ed è in quanto mi prendo cura che queste cose sono qualcosa, se non me ne prendessi cura non sarebbero niente. Il prendersi cura quotidiano si comprende a partire dal poter-essere che gli viene incontro nel quadro del possibile successo o insuccesso rispetto a ciò di cui esso si prende cura. Questo è il modo con cui ci si confronta con le cose: voglio fare qualcosa, riesco o non riesco, ecc. All’avvenire inautentico, all’aspettarsi, corrisponde un proprio esser-presso ciò di cui si prende cura. Comunque, è sempre un modo di prendersi cura, inautentico perché mi aspetto delle cose, che mi vengano incontro da sé. Il modo estatico di questo presente si rivela se lo poniamo a raffronto con quello che gli corrisponde nella temporalità autentica. Estatico lui lo intende come ciò che sta fuori, come ciò che è gettato fuori, la gettatezza. All’anticipare, proprio della decisione, corrisponde un presente in conformità al quale un decidersi apre alla situazione. Questo è importante. L’anticipazione non è per Heidegger il prevedere qualcosa che sta per arrivare o il farlo accadere prima, l’anticipazione c’è già nella gettatezza, nella gettatezza qualcosa si anticipa e adesso vediamo come, perché è importante. E, infatti, parla della decisione, è lì che qualche cosa si anticipa, nell’attimo, come sta per dire, in cui decido. Nella decisione, il presente non solo è sottratto alla dispersione nel mondo della cura più prossima, ma è mantenuto nell’avvenire e nell’essere-stato. Nell’attimo della decisione, ci sta dicendo, il presente, così come è inteso comunemente, è sottratto alla dispersione del Si, ma, essendo sottratto a questa dispersione, si mantiene nell’avvenire e nell’essere stato. Vale a dire, la decisione mantiene l’essere stato, la mia storicità, e la gettatezza, mantiene questi due aspetti in quella cosa che Heidegger chiama “attimo”. Il presente, mantenuto nella temporalità autentica e quindi autentico, lo chiamiamo attimo. Sarebbe l’attimo della decisione. Questo termine deve essere inteso nel senso attivo dell’estasi. Cioè, della gettatezza. La decisione comporta la gettatezza. Esso significa l’estaticità dell’Esserci… Estaticità dell’Esserci significa che l’Esserci è sempre gettato fuori da sé. Questa era una delle questioni che aveva affrontato e che lo condusse a parlare della nullità dell’Esserci: l’Esserci non ha nessun fondamento, perché quando l’Esserci vuole fondarsi trova una pura possibilità, non trova più l’Esserci in quanto tale, come qualcosa che sta lì, sicuro, saldo, trova per l’appunto il nulla. Esso significa l’estaticità dell’Esserci, decisa e mantenuta nella decisione… Quindi, tutto questo che vi dicevo è mantenuto nella decisione. …tale estaticità è aperta a ciò che nella decisione si incontra in fatto di possibilità e di circostanze di cui ci si può prendere cura. Il fenomeno dell’attimo non può assolutamente essere chiarito partendo dall’istante. Lui intende l’istante come un fenomeno temporale, proprio del tempo come intratemporalità: l’istate “in cui” qualcosa sorge, passa o è semplicemente-presente. (pagg. 400-401) L’istante sarebbe qualcosa di definito nel passare del tempo. “Nell’attimo” nulla può accadere; ma solo esso, in quanto presente autentico, rende possibile l’incontro con ciò che può essere “in un certo tempo” come utilizzabile o semplice-presenza. Questo attimo, che sarebbe il presente autentico, è l’attimo della decisione, in cui nulla accade perché non c’è propriamente un’attesa di qualche cosa che deve arrivare da chissà dove. Nulla accade perché è pura possibilità e in questa pura possibilità non accade nulla, non c’è niente, è soltanto pura possibilità. Questo è l’attimo della decisione, in cui decido ma dove ancora non è successo niente. Magari dopo accadrà qualche cosa, ma nell’attimo della decisione, che cosa succede? Niente, se non l’apertura di possibilità. Il presente inautentico, contrapposto all’attimo come presente autentico, lo chiamiamo presentazione. Inteso formalmente, ogni presente è presentante, ma non ogni presente è “attimo”. È chiaro, l’attimo è quello della decisione autentica, non ogni cosa è una decisione autentica, quante decisioni inautentiche si prendono lungo una giornata? L’autentico ad-venire a sé, proprio della decisione anticipatrice, è tanto più un rivenire al se-Stesso più proprio e gettato nel suo isolamento. Questo è l’autentico ad-venire a sé, quindi, è un rivenire al se stesso, non al Si ma al se stesso più proprio e gettato nel suo isolamento. Una volta che è gettato, l’Esserci in questa gettatezza è nullo, perché l’Esserci è sempre una nullità. Dice “isolamento”, isolamento nel senso che non è in compagnia del Si, di gente che gli dice quello che è o che non è. L’esser-stato autentico è la ripetizione. Ripetizione di che? Ripetizione di un poter essere, è questo che si ripete sempre, all’infinito. Ma l’inautentico autoprogettarsi nelle possibilità desunte da ciò di cui ci si prende cura attraverso la presentazione attualizzante, è possibile solo se l’Esserci ha obliato il suo poter-essere più proprio e gettato. Questo è l’inautentico autoprogettarsi nelle varie possibilità: domani vado a prendere le sigarette, è un progetto anche quello. L’inautentico autoprogettarsi è possibile solo se l’Esserci ha obliato il suo poter-essere più proprio e gettato, se l’Esserci si è dimenticato di sé e, quindi, non si rivolge più al se-Stesso ma al Si-stesso. Passiamo al punto b, a pag. 402, che si chiama La temporalità della situazione emotiva. La comprensione non è mai sospesa in aria, ma sempre situata emotivamente. La comprensione è l’apertura che comporta la gettatezza ed è sempre situata emotivamente. Il Ci è sempre cooriginariamente aperto o non-aperto da una tonalità emotiva.

Intervento: Perché dice aperto o non-aperto?

Perché può essere diretto verso qualcosa di autentico o di inautentico. C’è sempre un’apertura. La distinzione che Heidegger fa tra autentico e inautentico è il potere da parte dell’Esserci, nel caso dell’autentico, di riflettere su se stesso. Questo non comporta che non ci sia apertura anche nel Si: ogni volta che si fa qualcosa ci si apre a qualcosa, ma ci si apre nel modo inautentico. Può essere aperto o non aperto a seconda del modo, autentico o inautentico, con cui ci si pone nel mondo.

La situazione emotiva è sempre presente nella comprensione, non c’è comprensione, quindi, apertura nella gettatezza, che non sia “accompagnata” da una situazione emotiva. Non è così lontano da ciò che diceva Freud rispetto a una qualunque decisione che una persona prende, qualunque cosa faccia o non faccia, che pensi o non pensi, comunque quello che sta facendo è sempre mosso, preso, travolto, da fantasie. Non c’è un atto puro senza fantasie, non c’è l’atto che, privo di fantasie, sia assolutamente se stesso. No, è sempre qualcosa di emotivamente vissuto e non può non esserlo, questo è il punto, non può non esserlo. Lo stato emotivo porta l’Esserci in cospetto del suo esser-gettato, in modo però che questo non è conosciuto come tale, ma è aperto in modo ben più originario nel “come uno si sente”. Qui c’è una questione che non è nuova, tuttavia, è fondamentale per intendere molte cose, non solo della psicoanalisi ma anche di Heidegger. Ogni gesto, ogni pensiero, qualunque cosa, avviene al cospetto di una tonalità emotiva. “Come uno si sente”, lui dice, è un modo un po' generico ma qualunque decisione, dalla più importante alla più banale, non evita di essere in una tonalità emotiva, qualunque essa sia. Grosso modo, anche se non è solo questo, è quello che sabato scorso, alla conferenza, indicavo come la scena, la scena in cui uno si trova è sempre presa in una tonalità emotiva. In questa scena qualcuno può trovarsi arrabbiato, felice, tutto quello che volete, e questa sua tonalità emotiva, essendo qualche cosa che ha a che fare strettamente con l’Esserci, ovviamente ci sta dicendo che l’Esserci è fatto anche di questo, cosa non irrilevante. Esser-gettato significa esistenzialmente trovarsi in questa o quella situazione emotiva. Esser-gettato significa esistenzialmente… esistenzialmente, quindi, per l’uomo, per ciascuno, trovarsi in questa o quella situazione emotiva. Ora, l’Esserci è gettatezza, quindi, l’Esserci è una tonalità emotiva. La situazione emotiva si fonda perciò nell’esser-gettato. (pag. 403) Lui dice si fonda. Bisogna fare attenzione ai termini che lui usa, perché è molto preciso sui termini, se usa un termine è proprio quello che voleva dire. Quindi, la situazione emotiva si fonda perciò nell’esser-gettato, trae da lì il suo “fondamento”, nell’essere gettato. Nel momento in cui sono gettato, in quello stesso istante, questo essere gettato fonda una situazione emotiva. Adesso sembra che ci sia prima una cosa e poi l’altra, non è proprio così, è la gettatezza che si porta appresso la situazione emotiva.

Intervento: …

Le sue fantasie sono già la sua emotività.

Intervento: …

Occorre che ci sia l’essere gettato, dice Heidegger, e l’essere gettato non è niente altro che lei. Cesare, lei è essere gettato.

La comprensione si fonda primariamente nell’avvenire… l’avvenire è l’esser gettato. …mentre la situazione emotiva si temporalizza primariamente nell’esser-stato. Cosa ci sta dicendo con questo? Ci sta dicendo una cosa abbastanza importante. Intanto, la comprensione si fonda primariamente nell’avvenire, l’avvenire è sempre inteso come qualche cosa a cui io vado incontro ma sempre nel modo della gettatezza, nel prendermi cura di qualche cosa. E qui siamo nella comprensione, la comprensione è l’essere gettato della Cura, che è prendentesi cura di qualche cosa. Poi, dice, mentre la situazione emotiva si temporalizza primariamente nell’esser-stato. Si temporalizza, cioè, si storicizza, è storica in quanto muove dall’esser stato. Ma esser stato che cosa? Sempre e soltanto una cosa può esser stato l’Esserci: pura possibilità, ed è questo che, come diceva prima, si ripete, l’essere pura possibilità, ciò che l’Esserci continuamente ripete. Quindi, la situazione emotiva, dicendo che si temporalizza nell’esser stato, trae se stessa… perché il fatto che si temporalizzi comporta che mostri la sua storicità e la storicità è qualcosa di cui è fatta. Le mie fantasie vengono da un esser stato, che non è da intendere necessariamente come un esser stato una volta, da un esser stato che io sempre sono. Ciò che io sono stato continuo a esserlo, perché ciò che io sono stato è presente qui e adesso. Ovviamente, la situazione emotiva non può che procedere da un esser stato, perché le mie emozioni, le mie sensazioni, procedono sempre, anche molto banalmente, da un qualche cosa che è accaduto, e se io immagino il futuro, e me ne preoccupo, è perché me lo immagino come già accaduto. Di fatto, non posso preoccuparmi di qualcosa che non esiste e che non so, ma lo faccio esistere e lo so perché lo do come acquisito. In questo senso, dunque, dice che la comprensione si fonda primariamente nell’avvenire, mentre la situazione emotiva si temporalizza primariamente nell’esser-stato, è lì che trova la sua forza. La comprensione si fonda primariamente nell’avvenire, mentre la situazione emotiva si temporalizza primariamente nell’esser-stato. La tonalità emotiva si temporalizza (cioè la sua estasi specifica appartiene a un avvenire e a un presente) in modo tale che l’esser-stato modifica le estasi cooriginarie. La tonalità emotiva si temporalizza, non può non temporalizzarsi, non può non essere storica, in modo tale che l’esser-stato modifica le estasi cooriginarie, in modo tale che l’esser stato, ciò che mi storicizza, che storicizza le mie fantasie, modifica tutte le situazioni in cui mi trovo gettato, che sono presenti o che verranno. Cioè, le mie fantasie modificano tutto ciò che faccio o sto per fare. Ciò che l’osservazione ordinaria considera fuggevole ed evanescente fa invece parte della struttura originaria dell’esistenza. Sta dicendo una cosa interessante, che può sembrare banale, cioè, ogni cosa che faccio è accompagnata da mie emozioni, sensazioni, ecc., questo lo sanno grosso modo tutti, però, qui sta dicendo qualcosa di più, e cioè che non è possibile che questo non sia e sta cercando di intendere quali sono le implicazioni di una cosa del genere. Capite che, se qualunque cosa io faccia è inclusa in una tonalità emotiva, è ovvio che questa tonalità emotiva va a modificare le mie scelte, le mie decisioni, il mio fare. È quello che diceva prima rispetto alle estasi cooriginarie: ogni gettatezza le modifica, e modifica, quindi, le mie decisioni. Il modo in cui mi sento, la mia tonalità emotiva, modifica le mie decisioni. Modifica anche la comprensione? In teoria no, non la va a modificare, eventualmente modifica l’interpretazione, non la comprensione, che rimane comunque quella condizione per cui l’Esserci può incontrare qualche cosa, è la condizione per cui l’Esserci sia qualcosa. L’Esserci è comprensione nel senso che, essendo questa gettatezza continuamente, in questa gettatezza comprende. Comprende, non nel senso che capisce. Sarebbe più utile pensare il comprendere come un com-prendere, come un abbracciare. Non è proprio così ma giusto per distanziarlo dalla comprensione intesa come il capire le cose. La comprensione non può, in effetti, seguire la tonalità emotiva. Se non c’è comprensione, e questo è un punto fondamentale in Heidegger, non c’è niente, se non c’è la comprensione l’Esserci non fa nulla, non si prende cura di nulla perché non c’è più nulla di cui prendersi cura. La cosa complessa da intendere è che tutte queste cose sono come aspetti di una stessa cosa, è sempre l’Esserci, l’Esserci è tutte queste cose in atto. A pag. 404. Occorre soltanto dimostrare che le tonalità emotive non sono possibili, quanto al “che” e al “come” del loro “significato” esistentivo, se non sul fondamento della temporalità. È in base a questa temporalità che queste cose sono qualche cosa, tutto questo è possibile solo in una temporalizzazione, cioè, in una storicità. Se non ci fosse questa temporalizzazione, questa storicità, come dicevamo qualche tempo fa, io non sarei niente, perché io sono tutto ciò che la mia storicità mi fa essere in questo momento. E, allora, Heidegger, consapevole di questa cosa, e cioè del fatto che qualunque situazione emotiva non può darsi senza storicità, vuole mostrare che qualunque situazione emotiva è temporalizzata necessariamente. Per fare questo esamina due situazioni emotive, che avevamo già visto precedentemente e che a lui sono più care: la paura e l’angoscia. Heidegger considera la paura come una tonalità emotiva inautentica, perché la paura è un aspettarsi un qualche cosa che si immagina venire da fuori, un qualche cosa che è quello che è per virtù propria e, quindi, è inautentica perché muove dal Si. È, invece, l’angoscia la tonalità emotiva autentica, perché se io cesso di riferirmi al Si non ho più nulla di cui avere paura, se non credo alle cose che mi vengono dette cesso di avere paura, ma questo avviene quando mi rivolgo al se stesso dell’Esserci, cioè all’autentico, e in questo cosa trovo? La nullità, cioè, la totale assenza di fondamento, e l’incontro con questa nullità provoca quella che Heidegger chiama angoscia. Linguisticamente, come potremmo configurare tutta questa storia dell’angoscia in Heidegger? Potremmo chiamare in questo caso angoscia, usando il suo termine, l’incontro con l’eventualità che ciò che affermo non sia affermabile, cioè, che non possa più affermare niente, perché se nulla è fondabile, se non c’è nulla a cui aggrapparmi, cosa posso affermare? Niente. L’incontro con l’impossibilità di affermare qualunque cosa potremmo intenderlo linguisticamente come l’angoscia di cui parla Heidegger: non c’è più la possibilità di affermare niente, perché nulla ha un fondamento possibile. Per dirla in modo molto rozzo, sarebbe come se una cosa fosse se stessa e il suo contrario. Dunque, non posso affermare nulla e, quindi, ecco l’angoscia, ché non posso più parlare, cioè, non posso affermare alcunché che mi dia l’opportunità di continuare a parlare, perché affermare qualche cosa o, come dicevamo sabato, descrivere uno stato di cose, è ciò che mi consente di dire qualche cos’altro, se le cose stanno così allora…, cioè inserire il tutto all’interno di un sistema inferenziale, se non faccio questo non vado da nessuna parte. Ma se questo non è possibile, se non c’è più l’apodosi, la prima parte, il “ se questo”, se non c’è più l’allora… e cesso di parlare, non c’è più parola.

Intervento: E la paura?

La paura per Heidegger, invece, è un modo inautentico di confrontarsi con questo. Questo lo dico io, non Heidegger, ma è come se nella paura tutto ciò che ho descritto nell’angoscia fosse il prodotto, il risultato dell’operazione di qualcuno, che fa questo perché ce l’ha con me. Ovviamente, può essere qualcuno o qualcosa. È come un localizzare questa impossibilità, connessa al fondamento, in qualche cosa o in qualcuno, come un ostacolo. Ho paura di qualcosa, quindi, per esempio, posso reagire nei due modi classici, con la fuga o con l’affrontamento, per allontanarlo da me o per distruggerlo. Infatti, dice, a pag. 405, Il senso temporale-esistenziale della paura è costituito dall’obliarsi, cioè dallo sconvolto esser-fuori di sé fuggendo davanti al proprio poter-essere effettivo in cui consiste l’essere-nel-mondo minacciato che si prende cura dell’utilizzabile. Che è quello che vi stavo dicendo. La paura è il fuggire, obliandosi l’Esserci si vota al Si. E nel Si trova qualche cosa davanti a cui fuggire, pensando che fuggendo si possa salvare. Questa è la paura. Fuggendo davanti al proprio poter-essere effettivo in cui consiste l’essere-nel-mondo minacciato che si prende cura dell’utilizzabile. A questo punto è l’utilizzabile che diventa fonte di paura, una minaccia. Lo diventa perché ho obliato l’Esserci, quindi, il se stesso a vantaggio del Si. Ed è questo che, secondo Heidegger, fa paura: l’idea che un utilizzabile, che è nel mondo, costituisca quel qualcosa che è “responsabile” della nullità a cui io temo di andare incontro. Nella paura è vista come una minaccia personale, nell’angoscia come il nulla assoluto, come il nulla totale. Aristotele definisce giustamente la paura come λύπη τις ταραχή, come una specie di depressione o sconvolgimento. La depressione risospinge l’esserci verso il suo esser-gettato, ma in modo tale che questo resti chiuso. La depressione risospinge l’Esserci verso l’essere gettato, che è se stesso, ma in modo tale che resti chiuso in questo, che rimanga, quindi, inautentico. Quale sarebbe, invece, il modo autentico? Quello di accogliere questa possibilità e porla in atto, quindi, accogliere il fatto che l’Esserci è pura possibilità e da qui procedere. La depressione, invece, dice Heidegger, è come se chiudesse questa in se stessa, quindi, non c’è più nessuna possibilità, è tutto finito perché si incontra con il nulla. L’esser-fuori-di-sé come obliante fuga davanti al poter-essere effettivo… Ciò che spaventa, dice lui, è sempre il poter essere. O lo si accoglie o lo si fugge. Se lo si fugge allora ci si trova nella condizione della paura, se lo si accoglie ci i trova nell’angoscia, per cui non è una modalità emotiva negativa ma è costitutiva dell’Esserci. L’Esserci che guarda se stesso non può che vedere il nulla. Poi, da lì, sta a lui che cosa farne di questa cosa. Se si deprime si chiude lì, se non si deprime allora coglie questo come una possibilità, come la più autentica delle possibilità, cioè, essere pura possibilità, e questa è l’apertura, per Heidegger. Il prendersi cura sconvolto dalla paura… La paura sorge dal prendersi cura di qualcosa, se non c’è un utilizzabile non c’è neanche la paura. …salta da una cosa immediata all’altra, perché, dimentico di sé, non afferra nessuna possibilità determinata. Tutte le possibilità “possibili”, anche le impossibili, gli sembrano disponibili. È questa la situazione della paura, cioè, tutto sembra possibile ma niente è praticabile. Chi è in preda alla paura non si sofferma presso nessuna; il “mondo-ambiente” non scompare, ma si presenta nella forma del non-saper-più-dove-andare. Dell’oblio di sé, proprio della paura, fa parte questa sconvolta presentazione della “prima cosa che capita”. È noto per esempio che gli abitanti di una casa in fiamme sovente “mettono in salvo” i beni di minor valore, l’utilizzabile più vicino. La presentazione, dimentica di sé e smarrita in una sarabanda di possibilità indefinite, rende possibile lo smarrimento in cui consiste il carattere della tonalità emotiva propria della paura. Quando, invece, parla dell’angoscia dice le cose che vi dicevo prima. A pag. 406. Abbiamo definito questo fenomeno come una situazione emotiva fondamentale. Quindi, non è nulla di negativo, è una situazione emotiva fondamentale. Essa (l’angoscia) porta l’Esserci davanti al suo esser-gettato più proprio e svela lo spaesamento dell’essere-nel-mondo familiare nella quotidianità. Questo spaesamento dell’essere nel mondo familiare, cioè, quando con l’angoscia ci si trova di fronte alla nullità tutte le corse perdono senso, non c’è più nulla di riconoscibile. È la situazione che in tedesco si dice Unheimlich, ne parla anche Freud, è lo straniante. L’angoscia per Heidegger non è una tonalità emotiva disperante da evitare. No, per lui l’angoscia è semplicemente l’avere a che fare con questa nullità. Poi, certo, usa questo termine angoscia (angst) che non è casuale, perché secondo lui questa situazione è una situazione di spaesamento totale che dovrebbe costringere al riconoscere l’Esserci, cioè se stessi, come essenti pura possibilità e nient’altro che questo. E la possibilità più propria è la morte.

Intervento: Possiamo intendere l’angoscia come assenza di senso?

Quando parla di spaesamento intende questo. L’assenza di senso come l’impossibilità di affermare qualcosa, per cui qualunque cosa affermi è senza senso, non ha nessuna direzione, letteralmente. Nell’angoscia rimane la totale assenza di direzione, il nulla della direzione, quindi, il nulla di senso. È questo che lui chiama lo spaesamento: non posso più affermare niente, quindi, non parlo più, non c’è più parola. Se non c’è più parola è un problema e qui dovrebbe intervenire Nietzsche: che ne è della volontà di potenza se non posso più parlare. È un po' azzardata questa ma per Nietzsche no, per Nietzsche la volontà di potenza è l’essere, cioè, ciò che ciascuna cosa è propriamente. Quindi, l’assenza di senso è l’assenza di possibilità di superpotenziamento, è un depotenziamento continuo, cosa che l’umano non può tollerare in nessun modo, in quanto è parlante.