15 ottobre 2025
Agostino d’Ippona De doctrina christiana
Cosa ci ha mostrato Agostino in queste cose che stiamo leggendo? Tra le molte cose ci ha mostrato una cosa importante: ci ha mostrato l’uso della retorica. L’ultimo libro, il quarto, è dedicato alla retorica. Non è così interessante tranne che per qualche aspetto, e cioè il mostrare che l’unico uso possibile della logica è l’uso retorico, in quanto la logica non può mostrare la verità epistemica, non lo può fare - questo Aristotele ce l’ha spiegato molto bene - ma ci dice che cosa è possibile credere. Questo può farlo e lo fa. Un’argomentazione logica dice che cosa è possibile credere, nel senso che la conclusione a cui giunge, che è generalmente ritenuta vera, è ritenuta essere la descrizione di uno stato di cose. In fondo, la logica serve a questo: noi parliamo logicamente sempre, più o meno logicamente – poi, bisogna vedere, perché non è sempre così automatico; generalmente avviene così - quindi, quando si conclude in un certo modo si immagina che questa conclusione descriva uno stato di cose. Ecco perché dicevo che la logica mostra che cosa si crede parlando. Come sapete, Agostino non era un logico, era un retore e ha mostrato anche un’altra cosa a fianco a questa. La logica punta a determinare una verità epistemica, ma Agostino, e poi tutto il cristianesimo dopo di lui, ha detto che la verità epistemica non c’è, che non è dominio degli umani, è di Dio, è lui la verità epistemica, Dio è la verità epistemica, è l’assoluto, l’intero, il tutto. Ora, Agostino, quindi buona parte del cristianesimo, in fondo ha colto il problema del linguaggio proprio in questo aspetto, e cioè che la verità epistemica non appartiene agli umani, è inutile cercarla. È Dio naturalmente, non si poteva rinunciare a una cosa del genere. Ma non appartiene agli umani, cioè gli umani non possono raggiungerla, per questo Dio è ineffabile, cioè, la verità epistemica è ineffabile, non si può dire: è la verità, ma non si può dire. Che sembra una contraddizione in termini, e in parte lo è. Rimanendo ineffabile si sottrae a ogni interrogazione, quindi a ogni argomentazione, a ogni relazione. La verità epistemica non può essere messa in relazione con altro perché, essendo l’assoluto, è l’irrelato. Agostino ci ha mostrato bene il problema nel linguaggio: non c’è la verità epistemica o, più propriamente, non è appannaggio degli uomini. Non è dato agli umani trovare la verità epistemica. Cosa che invece promettevano gli gnostici, che è esattamente ciò che promette la scienza oggi: promette una verità epistemica, una verità assoluta, non oggi, non domani, ma un giorno… Come diceva Severino, un giorno tutti gli astratti saranno integrati nel concreto, scompariranno, non ci saranno più i molti, non ci saranno più i nemici, saremo nel Regno dei Cieli, in contemplazione. E, infatti, cosa si fa nel Regno dei Cieli? Si contempla la verità assoluta, e Dio è la verità epistemica, non c’è un altro modo di definirlo. È questa la promessa che il neoplatonismo e il cristianesimo fanno, hanno fatto e continuano a fare gli umani: arriverà il giorno in cui non ci saranno più gli astratti, non ci saranno più i molti, ma saremo direttamente a contatto con la verità epistemica, con l’irrelato. Ma è una promessa nell’altra vita. Per lo gnosticismo, invece, questa promessa è in questa vita: tu devi diventare Dio adesso, e puoi farlo se segui le mie regole. A questo punto con lo gnosticismo si è potuta creare la scienza o, più propriamente, l’epistemologia, cioè, l’ideologia scientifica.
Intervento: Che poi è quello che abbiamo detto tante volte che la scienza moderna è nata insieme al cristianesimo o, meglio, al lavorio dei logici medievali.
Sì, a partire da Anselmo d’Aosta, ma anche Berengario di Tours e il suo grande avversario Lanfranco di Pavia, si è incominciato a pensare questo, che la logica possa avere o abbia addirittura una capacità veritativa. Per esempio, Berengario di Tours, dialettico, nei primi anni dell’anno mille fu quasi tacciato di eresia perché scivolava verso lo gnosticismo, perché conoscendo la logica, si pensava, avrebbe potuto lei dimostrare l’esistenza di Dio senza la fede. Cosa che, tra l’altro, poi fece Anselmo, che ha dimostrato l’esistenza di Dio in assenza di fede - non in assenza di fede perché l’avrebbero bruciato all’istante - ma senza il supporto della fede.
Intervento: La fede non era più necessaria.
È per questo che era considerata un’eresia, incominciava ad allontanare la fede. Poi è stata ripresa, però sul momento ha creato un certo scompiglio. La fede e la grazia di Dio allora dove la mettiamo? Teniamo conto che si veniva dall’agostinismo, che è andato avanti fino all’anno mille, grosso modo. L’illusione di potere godere della verità epistemica, illusione presente ancora oggi, non più nella religione ma nella scienza. Una ripresa, perché ci fu, per esempio, non tantissimi anni fa, nella Belle Époque ci fu questa idea, prettamente gnostica, che la scienza sarebbe stata in condizioni di rendere tutti felici, togliere tutte le malattie, togliere tutte le guerre, togliere tutti i malanni possibili e immaginabili. Quest’idea era presente allora, era molto forte, l’idea appunto che la scienza fosse il rimedio a tutto e prometteva esattamente questo, cioè: noi umani diventeremo Dio. Un sogno che si è infranto da lì a poco nelle trincee delle Ardenne. Però, la fascinazione di una cosa del genere permane, permane perché consente di pensare di potere fare a meno di Dio, cioè, di potere fare a meno di credere che la verità epistemica, sì, ci sia, ma non sia raggiungibile in questa vita. No, dicono gli gnostici, è raggiungibile in questa vita: questa è la promessa, l’illusione. Che però funziona. D’altra parte, anche tutte le eresie dal Medioevo in poi, cosa dicevano? Dicevano tutte quante grosso modo la stessa cosa: il cristianesimo ha perso il suo messaggio originale, ha abbandonato la parola di Dio e, quindi, noi che siamo più puri dobbiamo ricondurre il cristianesimo alla sua purezza iniziale. Gli eretici si ponevano come i più puri e si faceva a gara a chi era il più. Si consideravano gli unici autentici interpreti della parola di Dio, quindi del Vecchio Testamento come del Nuovo. Perché si credevano gli unici interpreti? Questo è difficile a dirsi, ma sicuramente ciascuno in cuor suo pensava di essere quello a cui Dio parlava e, se Dio mi parla, vuole dire che sono importante. In fondo, era una gara continua a chi riusciva a dimostrare di essere il più importante, cioè, il più caro a Dio. Una cosa del genere consente di intendere molto bene anche ciò che sta accadendo, nel senso che dà la possibilità a ciascuno di credere nelle proprie opinioni. Perché l’opinione, come quando si dice “farsi un’opinione”, l’opinione ha bisogno della fede. L’opinione, in effetti, è l’avere fede in ciò che si pensa.
Intervento: L’opinione è una fede non condivisa.
Potremmo affermare che occorre una certa religiosità per avere opinioni, sennò non si hanno opinioni, si pensa, si riflette. Un pensiero teoretico ha poco a che fare con le opinioni, perché è un interrogare continuo, un interrogare il pensiero mentre pensa, chiedendogli conto ciascuna volta di quali cose occorre credere per potere affermare una certa cosa, e sono tante le cose che di volta in volta…
Intervento: Nel pensare e nel riflettere c’è a monte, comunque, un’opinione che dirige questo pensare e questa riflettere.
Sì e no. Si pensano solo opinioni, nel senso che si producono solo opinioni. Ma l’opinione, una volta che si è prodotta, ammesso che si sia prodotta, può essere occasione di pensiero. Come dicevo prima, quante cose occorre che io creda per potermi fare questa opinione di questa certa cosa? E perché credo a queste cose? Per potermi fare un’opinione, quindi per potere affermare come stanno le cose. L’opinione non è tanto per me, me ne faccio poco delle opinioni, ma è per potere esibirla, per potere dire all’altro come stanno veramente le cose. Io ho capito come stanno le cose, so come stanno le cose e, quindi, devo dirtelo. E perché devo dirtelo? Perché soltanto dicendotelo, ciò che mi ritorna da te che hai ascoltato e che mi hai dato ragione, compie esattamente quel movimento che descrive Hegel nella dialettica hegeliana. Ecco, questo percorso, dicevo, questo ritorno da parte dell’altro, in questo caso dell’interlocutore che mi conferma, è esattamente la dialettica hegeliana, cioè, ritorna su di me e io a quel punto divento veramente quello che sono. Perché, direbbe Hegel, divento quello che sono veramente? Perché ho eliminato i molti, cioè il per sé, direbbe Hegel, che viene integrato in me e io divento simultaneamente tutte queste cose e divento l’Assoluto, cioè, divento Dio; è l’Altro che mi fa diventare Dio in questo movimento. Che poi è il movimento neoplatonico, è stato inventato da Plotino: Uno, Intelletto, Anima, e poi il ritorno; ma ci deve essere questo ritorno. E questo è importante, molto importante, perché rende implicito che debba esserci qualcuno che mi fa esistere, che mi dà importanza. Deve esserci, perché altrimenti io non posso, da me, autodeterminarmi, diciamola così: questa determinazione viene dall’altro, che conferma che io sono io, che sto dicendo la verità.
Intervento: Quindi, Dio ha creato gli umani, i molti, per essere Dio.
Sì. Questo è stato un problema per la teologia, cioè Dio ha creato gli umani solo per farsi adorare, ecc.? Parrebbe di sì, lui stesso lo dice a un certo punto. Senza gli umani che lo adorano non è nessuno. Questo movimento, che descrive Hegel, che è comunque di Plotino, appare inevitabile perché è il movimento della parola rappresentato, messo in scena. Agostino coglie questo aspetto: c’è la parola, qualcosa che si dice, ma ciò che si dice è niente se non significa qualcosa: è il famoso λέγειν τί, dicendo, dico qualcosa. Ed è questo qualche cosa che fa del mio dire un dire autentico, perché sennò il dire è niente, se non dico qualcosa non dico niente. Quindi, è una sorta di rappresentazione, in effetti, del funzionamento del linguaggio. Qual è il problema nel linguaggio che invece questo movimento, questa dialettica hegeliana ignora totalmente? Che il τί non ritorna al λέγειν, non si compie questo movimento di ritorno. Il τί, il qualche cosa, per essere qualche cosa, nel momento in cui diventa il qualche cosa a sua volta necessita di un significato, di un altro τί, perché lui diventa il λέγειν di un altro τί. Ecco perché aristotelicamente potremmo dire: non c’è questo movimento di ritorno ma c’è soltanto un proseguire, cioè, un connettersi sempre con altro.
Intervento: Infatti, lui parlava della perpetuità del moto circolare.
Intervento: Forse, questa cosa è più vicina al divenire.
È il divenire.
Intervento: Più che una circonferenza è una spirale.
Sì. Infatti, questa è la figura che più si avvicina. Però, si tratta di questi due aspetti: o dicendo qualcosa si torna indietro e si immagina che questo tornare indietro garantisca il dire, cioè lo renda un tutto, un intero, oppure questo tornare indietro non c’è e c’è soltanto un proseguire, un connettersi sempre con altro. Che non è altro che la posizione di Aristotele. In fondo, ciò che si è pensato della logica dall’anno mille in poi è proprio questo, cioè l’idea che la logica possa compiere questo ritorno all’Uno, possa in queste sue operazioni tornare all’Uno, cioè, tornare alla verità epistemica; mentre, come dicevo prima, mostra soltanto il credere di potere tornare alla verità epistemica: ciò che si crede in relazione a questo non è nient’altro che questo: il credere. Un’opinione è sempre costruita logicamente e, infatti, uno pensa che è arrivato alla sua opinione, che non è altro che la conclusione di un ragionamento, che quindi conclude in questo modo, e se conclude in questo modo è perché è vero. Questo definisce, descrive esattamente il credere che sia così. Ciò che dice qui Agostino nel quarto e ultimo libro, come dicevo prima, non è che sia di grande interesse per noi, perché pone la questione della retorica, ma in termini molto blandi. Una cosa dice, che è importante, e cioè che la retorica ha come funzione il sottomettere l’altro, cioè, il ridurlo all’obbedienza. Questo è il compito della retorica. Agostino si sofferma in questo libro sul fatto che ci sono tre momenti. Il primo è quello semplice, quello in cui si descrivono le cose come stanno; il secondo è quello che lui chiama termine medio, intermedio, in cui si diletta l’uditore; l’ultimo, il momento più alto, è quello in cui si istiga l’interlocutore a fare ciò che si vuole che faccia. Quindi, dice le cose stanno così e te lo dico io che sono uno di voi, e questa è la delectatio, il dilettarsi: uno può raccontare barzellette, può raccontare aneddoti, può dire cose che piacciono al pubblico per fare credere che io sono uno di voi e, quindi, se sono uno di voi, dico le cose che voi stessi pensate; magari non siete arrivati a questa conclusione perché eravate momentaneamente distratti, però io posso ricondurvi al pensare corretto; e questa è la modalità, secondo Agostino, di sottomettere l’interlocutore. A pag. 301. Il nostro oratore, dunque, quando parla di cose giuste e sante e buone - né potrebbe parlare diversamente - quando parla così, per quanto gli è possibile, deve fare in modo di essere compreso dagli ascoltatori… Questa è la prima parte, quella semplice, dove si dice come stanno le cose. …di riuscir loro gradito… La delectatio. …di renderli obbedienti. A pag. 293. Qui cita Cicerone. Uno che si intendeva di eloquenza ha detto, e ha detto il vero, che l’uomo eloquente deve parlare “per insegnare, per dilettare e per convincere”. Poi ha aggiunto: “Insegnare è una necessità, dilettare è un piacere, convincere è la vittoria". Ma l’arte sta in questo - dice lui da qualche parte - che ciò che si dice, ciò che si conclude, cioè, ciò di cui si vuole persuadere l’interlocutore, deve apparire come qualcosa che sorge quasi necessariamente, come se venisse prodotto da solo dall’argomentazione; non è una cosa imposta, non c’è mai imposizione, ma è una cosa che procede da sé, che sorge da sé dal discorso. È questo che l’altro, l’interlocutore, deve vedere. Solo così non la prenderà come un’imposizione da parte di qualcuno, cosa che magari lo infastidirebbe. A pag. 287. E tuttavia, quando una parola non può essere di buon latino se non a patto di risultare oscura o ambigua e invece si evita ogni ambiguità e oscurità parlando in modo popolare, in questo caso il buon maestro si darà tanta cura di insegnar bene da esprimersi al modo non delle persone colte ma di quelle ignoranti. È questo che diceva Goebbels, era proprio uno dei punti nella lista di undici punti di Joseph Goebbels. A pag. 289, dà un consiglio all’oratore: La folla, comunque, ansiosa di conoscere, è solita significare con i suoi movimenti se ha capito: ma finché non lo abbia fatto capire, l’argomento che viene trattato deve essere presentato con ampia varietà d’espressione, e non ha questa possibilità chi pronuncia un testo preparato prima e mandato a memoria. Mentre gli antichi greci dicevano esattamente il contrario: occorre mandare a memoria il testo, in modo da non distrarsi a pensare a ciò che si deve dire, ma tenere solo d’occhio il pubblico; a questo punto il testo si recita da solo, praticamente. Questo per dire che anche rispetto alla retorica, in fondo, c’erano opinioni abbastanza discordanti. A pag. 193. Altro consiglio. E come è necessario dilettare l’ascoltatore per poterlo trattenere ad ascoltare… È a questo che serve il diletto: a farlo rimanere lì, anziché alzarsi e andarsene. …così bisogna convincerlo per spingerlo all’azione. E come quello trae diletto se tu parli piacevolmente, così viene convinto se amerà ciò che gli prometti, temerà ciò che gli minacci, odierà ciò che biasimi, apprezzerà ciò che raccomandi, proverà dolore per ciò che gli presenti in modo molto doloroso. la gioia... A pag. 351. Di contro, si dà sovente il caso che il modo semplice di parlare, mentre risolve questioni difficilissime e le rende chiare con spiegazioni che coglie tutti di sorpresa, mentre presenta concetti sottilissimi tirati fuori da non so quali caverne da cui nessuno se lo poteva aspettare, mentre convince di errore l’avversario e dimostra la falsità di ciò che quello sembrava esporre in modo irrefutabile, soprattutto quando il suo dire è pervaso da una bellezza non ricercata ma in qualche modo naturale, e l’andamento metrico delle clausole non appare ostentato ma quasi necessario e, per così dire, imposto dagli stessi argomenti, questa eloquenza, dico, suscita tante acclamazioni che difficilmente uno si accorge che è di stile semplice. Si fa avanti senza apparato e senza armi, ed è come se entrasse in battaglia tutta nuda (la verità), ma non per questo non gli riesce di colpire l’avversario con colpi violenti, ché anzi ne sopraffà la resistenza e con la grande forza delle sue membra ne distrugge la falsità. Perché mai chi parla così viene tanto e tanto spesso acclamato, se non perché la verità così dimostrata, così difesa, così resa invincibile procura diletto? La verità procura diletto. Perché procura diletto anziché no? Perché la verità è un’arma: se lui mi fa capire che quella è la verità, questa cosa io poi la posso utilizzare contro chiunque mi si pari innanzi. È per questo che le persone vanno alle conferenze e in alcuni casi sono attente: sono attente per carpire informazioni, elementi da potere usare contro qualcuno. A pag. 357. Che cosa significa parlare non solo con eloquenza, ma anche con sapienza, se non adattare parole pertinenti nel genere semplice, brillanti nel genere temperato, trascinanti nel genere elevato, alle verità che comunque è necessario che vengano ascoltate? Cosa significa parlare? Esporre delle verità che comunque è necessario che vengano ascoltate: questo è il motivo per cui si parla, dice praticamente Agostino. Parlando si dicono verità che tutti devono ascoltare e, quindi, accettare perché, se non lo fanno, se non lo accettano, allora accade che qualcuno possa farsi male. La retorica, quindi. La retorica non è nient’altro che questo, lo diceva, serve soltanto a piegare, a sottomettere l’altro e fare in modo che obbedisca. Come? Nonostante lui ponga l’accento sul fatto che questa retorica deve essere utilizzata per la parola di Dio, la retorica rimane comunque un inganno. Quindi, a maggior gloria di Dio, io devo ingannare il mio interlocutore, devo ingannarlo seducendolo. La parte intermedia, la delectatio, serve a questo. Perché la retorica è un inganno? Per il fatto stesso che esiste, perché sennò non sarebbe necessaria; non sarebbe necessario raggirare qualcuno con parole che possono essere parole di pietà, parole di rabbia, parole di fuoco, parole amorevoli. Tutte queste cose servono a portarlo nella mia direzione, cioè, a sottometterlo a ciò che io voglio, quindi, a ingannarlo, cioè, a fargli fare ciò che sennò, se lasciato da solo, non farebbe. Il fatto che la retorica sia un inganno, questo è da sempre, anche perché ha spiegato che solo attraverso la retorica è possibile aggirare le resistenze dell’altro, cioè la sua volontà, che resiste alla mia, e fare in modo che, blandendolo, dandogli ciò che lui pensa che gli serva, che gli sia necessario. Così come dicevo prima, della verità: offrire delle verità, offrire degli utilizzabili, in modo che lui pensi di poterli utilizzare per potersi farsi bello con le altre persone, per potere vincere le altre persone, ecc. Se gli si offre questo, si fa esattamente quello che proponeva di fare Paolo con il cristianesimo: si dà alle persone l’opportunità, in verità, di potere giudicare tutti: io posso giudicare tutti perché io conosco la verità. Il fatto che conosca la verità io lo so perché me lo dicono i Padri della Chiesa, me lo dicono i profeti, me lo dice la Bibbia, me lo dicono tutte queste storie. Ma io conosco la verità, quindi posso giudicare. Per questo dicevamo che l’anima bella è una invenzione del cristianesimo, non l’ha inventata Hegel. Hegel, sì, l’ha formulata a modo suo, ma l’anima bella è quella che inventa Paolo nelle sue lettere: tu dovrai sottomettere l’altro, ma con una verità, che non sei tu, tu sei solo il portatore di una verità, alla quale l’altro deve sottomettersi e deve farlo perché quella è la verità. Come diceva qui, l’altro deve sottomettersi perché le cose che dicono sono vere, non ha altra scelta. Quindi, Agostino ci ha detto parecchie cose e ce le ha potute dire perché si è accorto che esiste il linguaggio e che costituisce un problema. Lui ha cercato di risolverlo, ma cercando di risolverlo ha dovuto intendere grosso modo come funziona. E ha inteso che se ci si attiene soltanto al linguaggio non c’è nessuna verità epistemica; quindi, non c’è nessuna possibilità di piegare nessuno ad alcunché. Ma la verità epistemica è necessaria, proprio per questo motivo, per piegare l’altro e, quindi, deve essere trovata altrove. Dove? La soluzione l’aveva già fornita Platone: in cielo, dove sono le idee. Tanto chi va a guardare lassù? Ora, visto che siamo nel pieno ormai della teologia, la settimana prossima incominceremo a leggere Gregorio di Nissa, uno dei tre padri cappadoci. Anche lì c’è la questione della Trinità, e sarà interessante vedere come la affronta. È contro Eunomio. Sono interessanti queste cose sulle eresie, Gregorio di Nazianzo ha scritto la sua opera fondamentale contro Giuliano l’Apostata. Leggere le risposte agli eretici è interessante oltre che divertente. Come dire che avere degli avversari rende più perspicui, rende più combattivi.