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15-10-2014

 

E. Severino, Fondamento della contraddizione, Adelphi, 2005:

 

L’élenchos della negazione del principio più saldo, la bebaiotátē ark, il principio di non contraddizione. Per poter accettare un principio, quello di non contraddizione, occorrono le prove della sua veridicità. Quali sono le prove del principio ontologico o del principio logico di contraddizione? La risposta di Łukasiewicz è che quelle fornite da Aristotele sono del tutto inconsistenti. Ma anche restando all’interno della prospettiva aristotelica si può replicare che la prima proposizione del passo di Łukasiewicz sopra riportato, esclude di poter essere intesa come affermazione che “per potere accettare un principio non occorrono le prove della sua veridicità” e in generale va rilevato che tutte le proposizioni del saggio di Łukasiewicz escludono di essere intese come affermanti la negazione di ciò che esse affermano (qui c’è già tutto ciò che dirà nelle pagine successive, lo argomenta ulteriormente certo e magari adesso vedremo qualcosa ma l’argomento di Severino è questo che riprende dal IV libro di Aristotele della Metafisica, e cioè supponiamo che si voglia negare il principio di non contraddizione, per potere negare questo principio di non contraddizione lo si deve affermare, per questo motivo: i termini, le parole che si usano per costruire la proposizione che nega il principio di non contraddizione è composta da elementi ciascuno dei quali ha una sua determinazione, significa qualche cosa. Ma se si dicesse che il principio di non contraddizione è falso allora questa proposizione che afferma “il principio di non contraddizione è falso” questa affermazione non è la negazione di ciò che afferma, cosa che avverrebbe se non ci fosse il principio di non contraddizione, che a questo punto potrebbe essere un’affermazione, una negazione, qualunque cosa. Questo è l’argomento di Severino che ovviamente è quello di Aristotele: dicendo che per poter accettare il principio di contraddizione occorrono le prove della sua veridicità, Łukasiewicz presuppone dunque cioè accetta tale principio e lo accetta senza prove, pertanto in tutto quel suo rincorrere testi aristotelici per mostrare che essi non contengono quelle prove, riesce a stare in piedi solo nella misura in cui egli presuppone la veridicità del principio di cui sta cercando le prove, convinto per altro di non trovarle, che non ce ne siano e che tale principio abbia soltanto come pensano Mill, Spencer, Nietzsche un valore pratico etico. Qui si aggiunga che Aristotele nell’esposizione dell’élenchos (cioè nella confutazione) della negazione del primo principio, ritiene che il negatore del primo principio sia confutato mediante il rilievo che se la sua negazione è un significar qualcosa allora è necessario che l’ente, e innanzi tutto quell’ente in cui consiste tale negazione (anche la negazione è un oggetto, è un ente) sia un che di determinato. Aristotele mostra con ciò che la necessità per quell’ente, in cui consiste la negazione del principio (“negazione del principio” consideratelo come un ente, un quid, qualche cosa) di essere un ente determinatamente significante, che equivale all’impossibilità che allo stesso ente, ossia quella negazione, sia attribuito e non sia attribuito l’essere una siffatta negazione, (questa negazione è quello che è, non è il suo contrario, infatti dopo si soffermerà sulla questione della determinazione) considerazioni analoghe a quelle sopra sviluppate a proposito delle affermazioni di Łukasiewicz che “per poter accettare un principio occorrono prove della sua veridicità” si possono riproporre anche a proposito delle fondazioni e delle derivazioni del principio di non contraddizione operate dalla logica simbolica, come ad esempio quella di Łukasiewicz ispirata sostanzialmente all’Algebra della logica di Couturat ed è esposta nel saggio che stiamo considerando o quella dei Principia Mathematica. Nella logica simbolica proposta da Łukasiewicz il principio di contraddizione si fonda su undici principi che a loro volta presuppongono nove spiegazioni dei segni perché Łukasiewicz esclude che “spiegazione dei segni” significhi che sia “non spiegazione dei segni”? perché lo esclude? Perché esclude che all’ente, oggetto a cui è attribuito l’attributo “spiegazione dei segni” possa essere attribuito l’attributo “non spiegazione dei segni”? rispondere a queste domande significa rendersi conto che il principio di non contraddizione aristotelico è già all’opera prima delle nove spiegazioni, e degli undici principi ritenuti necessari per fondarlo, all’oggetto che ha come attributo l’”essere spiegazione dei segni” non può essere attribuito l’attributo “non essere spiegazione dei segni” (capite che la questione è semplicissima, però è centrale in tutto il pensiero. Poi fa una differenza fra il diorisms e le élenchos che è determinante, a pag. 65:) scrive Łukasiewicz che secondo Aristotele il principio di contraddizione è il più sicuro (bebaiotátē, appunto) il più accessibile alla conoscenza e quello intorno al quale è impossibile cadere in errore, ma come dimostrarlo? Lo stagirita di fatti non fornisce nessuna prova, Łukasiewicz va alla ricerca di ciò che gli sta davanti agli occhi che per altro non vedono meno di quel che per lo più si riesce a vedere di questo testo della Metafisica, come ormai è venuto in luce lo sbandamento del discorso di Łukasiewicz espresso in questo testo, è dovuto al fatto che egli credendo di aver avuto a che fare con qualcosa come la formulazione aristotelica del principio psicologico di contraddizione, perde di vista che quei caratteri della massima conoscibilità e sicurezza del principio più saldo e dell’impossibilità di essere in errore intorno ad esso, costituiscono il diorisms essenziale del principio e non scorge il testo aristotelico al quale egli sta riferendosi in questo suo passo indica appunto quali sono i tratti del diorisms che compete al principio più saldo (diorisms ricordate? È ciò che è proprio, ciò che gli appartiene) ossia indica con diorisms la cui convenienza al principio viene dimostrata dopo la formulazione del principio, badate bene Łukasiewicz asserisce che Aristotele non fornisce nessuna prova dell’affermazione che il primo principio è il più sicuro, il più conoscibile, il principio intorno a cui non è possibile errare e non vede che l’impossibilità di essere convinti di due dòxai tra loro opposte (dòxai cioè opinioni) che è interpretato da Łukasiewicz come principio psicologico di contraddizione e che egli crede di dover escludere dunque tutto ciò è appunto il passo centrale della dimostrazione che il principio più saldo possiede quei caratteri (adesso dice perché:) accingendosi a mostrare l’élenchos confuta il negatore del primo principio, Aristotele dice che non esiste un altro principio che più di quello da lui indicato non abbia bisogno di dimostrazione (come dire oltre il principio di non contraddizione non c’è un principio primo, un principio che lo possa sostenere) Łukasiewicz chiede “e se tale principio esistesse?” E crederà di mostrare che il principio di identità è più originario di quello di non contraddizione ma come non comprende il senso del diorisms essenziale del primo principio così egli non comprende il senso autentico dell’élenchos, (confutazione) l’élenchos mostra che la negazione del primo principio lo presuppone (cioè la stessa cosa che dire che se voglio negare il principio di non contraddizione lo devo usare, è questo che sta dicendo) e quindi mostra che una fondazione del primo principio ne è una negazione (se io voglio fondare il principio di non contraddizione che è il primo principio, devo trovare qualche cosa che è al di fuori ma questo qualcosa che dovrebbe essere al di fuori su cosa si sostiene? come lo determino se non utilizzando il principio di non contraddizione? Dicevo che una “fondazione” che mette tra virgolette perché è ipotetica del primo principio, “ne è una negazione” perché ne nega la primarietà ossia ne nega il tratto essenziale che è appunto il diorisms:) affermare che il primo principio è preceduto da altri principi, ad alcuno o uno dei quali spetti la proprietà dell’indimostrabilità, significa andare incontro alle aporie che nel paragrafo precedente sono state indicate a proposito delle varie forme di “fondazione” o derivazione del primo principio (cose che leggevamo l’altra volta) Aristotele, aggiunge Łukasiewicz, ritiene che non sia necessario dimostrare la tesi secondo cui il principio di contraddizione è ultimo o primo a seconda che lo si consideri l’ultimo che si incontra nel procedimento dimostrativo, o come il primo a partire dal quale inizia la dimostrazione, ossia, sempre per Łukasiewicz, Aristotele non riterrebbe non necessario dimostrare che tale principio è indimostrabile perché è esso, e non un altro, a stare a fondamento di ogni dimostrazione e invece l’élenchos mostra che negando che tale principio sia l’ultimo o sia il primo, negandone cioè la primarietà, lo si nega in quanto tale, e la negazione lo assume come ultimo su cui essa si costituisce cioè come il primo a partire dal quale essa si fonda (che è la stessa argomentazione, Severino continua a dire sempre esattamente la stessa cosa, cioè se io dico che il principio di non contraddizione non è primo ma cercare un altro principio che stia a monte per così dire, anche indimostrabile, comunque facendo questo di fatto nego ciò che è proprio del principio di non contraddizione e cioè quello di essere la condizione della determinazione della conoscenza, di conseguenza di qualunque cosa) Il principio di contraddizione, sostiene dunque il polacco, si fonda innanzi tutto sul principio di identità (ricordate che cercava di fare procedere il principio di non contraddizione dal principio di identità, c’è una bella storia che sarebbe da raccontare tra il principio di non contraddizione è il principio di non identità, ma lo faremo) che a suo avviso non è nemmeno esso l’ultimo principio indimostrabile (vi ricorderete che per Łukasiewicz c’è il “giudizio vero” alla base di tutto) e tuttavia è più semplice e sicuro e comprensibile, se non che Aristotele, scrive Łukasiewicz, non lo formulerebbe mai come un principio logico o ontologico a se stante, (ora, dice Severino,) si può tuttavia richiamare ad esempio un testo come il De Interpretazione dove Aristotele dice che è necessario che l’ente sia quando è, e che non sia quando non è, tenendo presente che 1) questa affermazione si riferisce all’ente in quanto ente, e cioè si riferisce anche agli enti “eterni” per i quali la necessità di essere quando sono, non è limitata ad un certo tratto finito del tempo, poi 2) la necessità è proprio dei principi o di ciò che da essi discende, 3) tale affermazione è enunciata come qualche cosa che non ha bisogno di dimostrazione quindi la sua è la necessità dei principi e non delle loro conseguenze e che 4) nel linguaggio di Aristotele l’essere (einai) dell’ente è tanto l’essere esistenziale quanto l’essere copulativo con predicato sottointeso (cioè il verbo essere), tenendo presente questo insieme di considerazioni, è consentito affermare che il passo sopra riportato è una formulazione esplicita di ciò che è stato chiamato “principio di identità” (come dire in altri termini che l’ente è quello che è) Łukasiewicz formula così questo principio se “P ha c” (cioè se P possiede c) allora “P ha c” (se Eleonora è Eleonora, allora Eleonora è Eleonora) dove “P” è un oggetto ossia un ente qualsiasi e “c” è un qualsiasi suo predicato. Nel passo aristotelico del De Interpretazione il predicato dell’ente, di qualsiasi ente, è appunto l’essere che si predica di qualche cosa e che è in prima istanza, e se dice che quando l’ente è, e cioè se l’ente è, allora è necessario che sia, e poiché come si è rilevato l’einai (essere) ha un senso sia esistenziale sia copulativo (cioè sia come affermazione di esistenza, sia come copula che connette un oggetto alla sua esistenza o al suo predicato) l’essere (eînai) è un predicato qualsiasi sicché questo passo aristotelico anticipa la formulazione del principio di identità data da Łukasiewicz e l’anticipa nella forma della necessità, perché nel pensiero di Aristotele la necessità del principio più saldo è la stessa necessità del principio di identità, (ricordate che invece Łukasiewicz tentava di separare le due cose diceva che il principio di identità non è il principio di contraddizione, perché addirittura lo precede) il testo aristotelico esprime l’identità anche in forma più radicale proprio perché l’ eînai (l’essere) indica un qualsiasi predicato e pertanto indica anche il soggetto stesso così che affermare la necessità che l’ente sia quando è, è insieme affermare la necessità che quando è, è necessario che l’ente sia se stesso, l’ente non essendo più se stesso, per Aristotele e per l’intero pensiero dell’occidente, quando invece divenendo, diviene altro da sé e pertanto non è più lo stesso (sta dicendo che l’ente non è più se stesso quando diviene, che è una delle tesi fondamentali di Severino. Ti ricordi quando diceva dell’“eterno”? L’apparire dell’esser sé dell’essente. Ci sarebbe tutta una questione riguardo all’“apparire” però adesso non ce ne occupiamo) Nel pensiero di Aristotele la necessità del principio più saldo è la stessa necessità del principio di identità, perché l’impossibilità che lo stesso (to auto) ossia lo stesso ente ad esempio c, convenga e non convenga allo stesso, secondo lo stesso rispetto, cioè secondo lo stesso ordine di considerazioni, ad esempio nello stesso tempo, implica la necessità che un ente sin tanto che è, ossia quando è, sia se stesso, quando l’ente essendo, è necessario che sia se stesso è impossibile che gli convenga e non gli convenga lo stesso, dove anche lo stesso che è impossibile che convenga e non convenga allo stesso sottostà a questa impossibilità sin tanto che e cioè quando esso è se stesso (sembra una cosa un po’ complicata e in realtà non lo è, sta dicendo “molto semplicemente”, che magari mettiamo fra virgolette, che l’ente, un qualsiasi cosa perché non può non essere se stesso? perché soltanto determinandolo “quello che è”, questo aggeggio è quello che è perché lo determino, lo definisco, questa determinazione ovviamente non solo mi dice che questo aggeggio è quello che è, una penna, ma stabilisce che è proprio quello e non è altro, non è un accendisigari ma è una penna. Ora questo aspetto della determinazione è fondamentale perché costituisce il motivo di fatto perché il principio di non contraddizione è il primo principio, perché soltanto se qualche cosa viene determinato può essere conosciuto, se non è determinato o meglio se non lo fosse, determinato, se questa cosa qui non avesse nessuna determinazione, sarebbe nulla. Quindi la prima cosa che è necessaria, per potere conoscere, per poter dire di qualche cosa che è, è determinarlo, se non lo posso determinare non posso fare niente) Nel pensiero di Aristotele e dell’Occidente, quando un ente “P” non è più, ed è diventato altro, non è più impossibile che a questo altro convenga ciò (se non è più, può convenirgli qualunque cosa) che il “non c” non gli poteva convenire quando tale ente “P” era (se questa penna è una penna gli “conviene” essere una penna, “conviene” non nel senso che gli è favorevole, “gli conviene” nel senso che è ciò che gli si attribuisce) e quando un ente “c” non è più, ed è diventato altro, ossia “ non c”, non è più possibile che questo essere altro convenga a ciò “P”, a cui esso non poteva convenire quando esso era ancora. Anche se Aristotele non rende esplicita la cosa il principio di non contraddizione implica il principio di identità e viceversa, tale implicazione non è identità (sta dicendo che il principio di non contraddizione non è identico al principio di identità) è l’impossibilità di separare ciò che è implicato e cioè ciascuno dei due si implica reciprocamente, non sono la stessa cosa ma si implicano necessariamente l’un l’altro. Łukasiewicz respinge giustamente l’identificazione, che di quella implicazione dell’identità di ciò che è implicato (dice che il principio di identità non è l’identità di ciò che è implicato. Il principio di identità è una parola) ma separa ciò che è implicato, separa il principio di non contraddizione da quello di identità e crede che si possa e si debba porre il principio di identità a fondamento del principio di non contraddizione (il polacco li separa, non si accorge dice qui Severino che non può separarli perché si implicano reciprocamente, non può darsi l’uno senza l’altro anche se non sono la stessa cosa, ciò se non c’è identità tra l’uno e l’altro) L’élenchos della negazione del principio più saldo si riferisce appunto all’unità di questi due principi, (“unità” non “identità”, stanno insieme perché si implicano a vicenda) la confutazione del principio più saldo consiste nel mostrare che se tale negazione è negazione e non un tacere o un parlare d’altro, allora essa è un che (un ente) di determinato (questo è il punto centrale. Lo rileggo: l’élenchos della negazione del principio più saldo si riferisce all’unità di questi due principi, la confutazione del principio più saldo consiste nel mostrare che se tale negazione è negazione, e non un tacere o un parlare d’altro, allora essa è un che, un ente, di determinato (cioè la negazione è quello che è e non altro da sé) e tale determinatezza è sia il non convenirle determinazioni opposte (appunto non è altro) e pertanto è il suo non essere altro da sé, sia il convenirle ciò che le conviene e pertanto è il suo essere da sé, sia il convenirle ciò che le conviene e pertanto è il suo essere sé, è tale determinatezza ad essere il contenuto del principio più saldo ossia del principio di non contraddizione e principio di identità (sarebbe il suo diorisms diceva altrove, lui cita spesso e magari un giorno lo vedremo L’Essenza del nichilismo, un suo scritto)Si osservi ancora che per Łukasiewicz il principio di identità a differenza del principio di non contraddizione può prescindere dal riferimento al tempo, Kant crede invece che anche il principio di non contraddizione possa prescindere da tale riferimento (cfr. Essenza del nichilismo il capitolo “ALHΘEIA”) ma a parte l’esplicito riferimento al “tempo” in quella che più sopra considerato, si può ritenere la o una formulazione aristotelica del principio di identità, nella formulazione di Łukasiewicz tale principio “P” è un ente qualsiasi e dunque anche uno qualsiasi degli enti “divenienti” (cioè nel tempo) così che se intende riferirsi anche a questi ultimi il principio di identità deve dire che se “P” ha “c”, allora ha “c” nello stesso tempo in cui ha “c” ossia quando sin tanto che ha “c”, già che per il pensiero dell’Occidente è possibile che se in un certo tempo “P” ha “c”, in un tempo diverso non abbia “c”, Aristotele dice appunto che quando l’ente è, è necessario che sia, pensando il tempo in cui l’ente non è, l’Occidente pensa il tempo in cui l’ente in quanto ente è niente, pensa la follia estrema (questa è la risposta alla sua domanda e cioè, a parte il fatto che Aristotele distingue fra l’essere in potenza e l’essere in atto, l’avevamo visto anche in Łukasiewicz, in potenza è possibile che qualcosa sia e non sia “domani ci sarà o non ci sarà la battaglia navale” (terzo escluso) quindi è possibile (oggi) sia l’una cosa che l’altra, ci sono due cose che si negano l’una con l’altra ma nel momento in cui c’è (la battaglia navale) allora non è più possibile che sia e non sia. Per l’Occidente “pensando il tempo in cui l’ente non è, perché diviene l’Occidente pensa il tempo in cui l’ente, in quanto ente è niente pensa la follia estrema”, questa è la sua tesi fondamentale, cioè quella in cui non c’è divenire perché se c’è divenire allora le cose vengono dal nulla e tornano nel nulla, cioè sono nulla, quindi non c’è divenire se le cose sono, come afferma il principio di non contraddizione. Per Severino non c’è divenire, una qualunque cosa è quella che è, se è determinata e quindi è conoscibile allora non c’è divenire, questa è sempre la sua tesi. Poi il capitolo Élenchos e Sillogismo. A proposito del “tempo” anche Łukasiewicz ne parla e attribuisce alla funzione “temporale” cioè nello “stesso tempo” la determinazione dello stesso attributo, l’universalizzazione delle cose che si assommano nel discorso, è possibile che riguardo a questa sorta di “muro” nella teoria e cioè al fatto che è sostenibile, come stiamo vedendo, anzi è incontrovertibile che un ente sia quello che è, così come è incontrovertibile che l’ente non sia quello che è, ed è ciò cui ho accennato prima e cioè la questione del principio di non contraddizione e del principio di non identità. Il “principio di non contraddizione” si potrebbe formulare così “non (A e non A)”, il “principio di non identità” “A, se e soltanto se, non A”. La consequentia mirabilis deriva la verità dal falso “se, se non A allora A, allora A” mentre il principio di non identità sta dicendo che “una cosa è se stessa, se e soltanto se non lo è”. Faccio un esempio: prendete una carta da gioco, per esempio un re di fiori, per poterlo utilizzare all’interno del gioco del poker, per esempio, deve essere identificato come un re di fiori, cioè non può essere, mentre gioco a poker, anche un sette di picche, o una donna di cuori, deve essere identificato come un re di fiori, quindi deve essere quello che è necessariamente per potere giocare. Tuttavia oltre a essere necessariamente quello che è, è anche una carta da gioco che per essere riconosciuta come tale necessita di una conoscenza del gioco delle carte, sapere cosa sono le carte, come sono fatte, a cosa servono, come interagiscono fra loro quindi questo re di fiori è il re di fiori perché è inserito all’interno di una rete di connessioni di altre carte senza le quali il re di fiori sarebbe niente, cioè senza queste connessioni che mi permettono di identificare e di dire che quella carta è il re di fiori, quella carta è niente. Con questo abbiamo mostrato che è necessario che l’ente sia quello che è e che è impossibile che l’ente sia quello che è. Tutto ciò potrebbe apparire un problema: che una cosa deve necessariamente essere quello che è per individuarla e necessariamente non può essere quello che è. Questa questione potrebbe apparire nuova ma in realtà non lo è, è molto antica ed è il problema connesso, già ai tempi di Parmenide tra l’Essere e il non Essere, tra l’Uno e il Molteplice, il Moto e la Quiete, cioè tutti i paradossi che il pensiero degli umani da quando esiste ha rilevato fino ad arrivare anche a quell’altro che potrebbe essere un paradosso tra Realismo e Nominalismo, fino ad arrivare fino agli oggetti impossibili di Meinong. Questo filo che percorre il pensiero Occidentale è un filo che di fatto non ha mai avuto una soluzione. Ci sono due fazioni, oggi si potrebbero chiamare “filosofia analitica” e “filosofia continentale”. La prima che vuole determinare il significato di qualcosa, il significato che secondo Carnap è il significato, sono la stessa cosa e quindi lo identifica ed è quello che è, seguendo Aristotele in buona parte cioè il principio di non contraddizione. L’altra corrente, quella continentale invece procede da Heidegger, cioè dall’ermeneutica, che afferma che un qualche cosa è quello che è, e poi tutta la semiotica, che è quello che è perché preso in una relazione di connessioni.  È vera l’una o l’altra cosa? Se una fosse vera e l’altra falsa non ci sarebbe problema, il problema è che entrambe sono assolutamente vere e sono contrarie. Una argomentazione come quella di cui stiamo parlando qui, di Aristotele, è molto potente: chiunque voglia negare il principio di non contraddizione lo deve usare. D’altra parte invece De Saussure diceva che il significato è preso in una relazione differenziale con tutti gli altri significati, se non ci fossero tutti gli altri significati il significato non esisterebbe perché è preso appunto in questa rete che lo fa esistere, o pensate alla definizione di oggetto di Hjelmslev, come l’intersezione di un fascio di relazioni, se non ci sono queste relazioni, questo fascio di relazioni, non c’è neanche l’intersezione, se non c’è l’intersezione non c’è l’oggetto, cioè non c’è l’ente. Carnap sostiene che l’oggetto interviene come significato nel senso che un qualunque oggetto deve avere un significato per potere essere determinato, e quindi fa questa sorta di uguaglianza tra significato e oggetto, dicendo che sono la stessa cosa perché un significato che non significa niente, non è un significato quindi deve avere un oggetto, e l’oggetto a sua volta deve significare qualcosa, per questo dice che il significato e l’oggetto sono la stessa cosa. Tutto questo comporta una specie di blocco della teoria, perché se io sostengo qualche cosa, ciò che sto sostenendo, a seconda di come lo consideri cambia tutto, in effetti è qualche cosa del genere ciò di cui avrei voluto parlare, perché si tratta di mostrare come una qualunque teoria a un certo punto si arresti di fronte a un’impossibilità a proseguire, cioè a un’impossibilità ad affermare ciò che sta affermando perché ciò che sta affermando è vero e falso simultaneamente, perché se considero il principio di non contraddizione allora è vero, se considero invece, diciamo, la semiotica allora è falso che una cosa sia quella che è.