INDIETRO

 

 

15 settembre 2021

 

Metafisica Aristotele

 

Questa sera vorrei iniziare leggendovi due pagine tratte da La sapienza greca di Colli. Qui Colli coglie molto bene che cos’era in gioco nel greco antico rispetto alla conoscenza. Questo ci servirà anche per cogliere meglio la questione intorno a Protagora, rispetto a cui c’è ancora da dire qualcosa. Dunque, così scrive Colli.

Perché da Dioniso faccio cominciare il discorso sulla sapienza? Con Dioniso, invero, la vita appare come sapienza, pur re­stando vita fremente: ecco l’arcano. In Grecia un dio nasce da un’occhiata esaltante sulla vita, su un pezzo di vita, che si vuole fermare. E questo è già conoscenza. Ma Dioniso nasce da un’occhiata su tutta la vita: come si può guardare assieme tutta la vita? Questa è la tracotanza del conoscere: se si vive si è dentro a una certa vita, ma voler essere dentro a tutta la vita assieme, ecco, questo suscita Dioniso, come dio onde sorge la sapienza. In termini pacati, Dioniso è il dio della contraddizione, di tutte le contraddizioni - lo dimostrano i suoi miti e i suoi culti - o meglio di tutto ciò che, manifestandosi in parole, si esprime in termini contraddittorii. Dioniso è l’impossibile, l’assurdo che si dimostra vero con la sua presenza. Dioniso è vita e morte, gioia e dolore, estasi e spasimo, benevolenza e crudeltà, cacciatore e preda, toro e agnello, maschio e femmina, desiderio e distacco, giuoco e violenza, ma tutto ciò nell’immediatezza, nell’interiorità di un cacciatore che si slancia spietato e di una preda che sanguina e muore, tutto ciò vissuto assieme, senza prima né dopo, e con pienezza sconvolgente in ogni estremo. E alla fine questa contraddi­zione è qualcosa di ancora più divergente, più insanabile di quella che i Greci hanno sperimentato in se stessi. Nel contemplare Dioniso, l’uomo non riesce più a staccarsi da se stesso, come fa quando vede gli altri dèi: Dioniso è un dio che muore. Nel crearlo l’uomo è stato trascinato a espri­mere se stesso, tutto se stesso, e qualcosa ancora al di là di sé. Dioniso non è un uomo: è un animale e assieme un dio, così manifestando i punti terminali delle opposizioni che l’uomo porta in sé. Qui appunto sta l’origine oscura della sapienza. La tracotanza del conoscere che si manifesta in questa avidità di gustare tutta la vita, e i suoi risultati, l’estremismo e la simultaneità dell’opposizione, alludono alla totalità, all’esperienza indici­bile della totalità. Dioniso è quindi uno slancio insondabile, lo sconfinato elemento acqueo, il flusso della vita che pre­cipita in cascata da una roccia su un’altra roccia, con l’eb­brezza del volo e lo strazio della caduta; è l’inesauribile attraverso il frammentarsi, vive in ciascuna delle lacerazio­ni del corpo tenue dell’acqua contro le aguzze pietre del fondo. /…/ Ma il mostrarsi della freccia della sapienza si accompagna anche a ferite sanguinanti: così opera la crudeltà di Apollo. Ristretta alla sfera della parola, la sapienza si manifesta come sfida del dio: ciò che Apollo suggerisce non è conoscenza luminosa, ma un tenebroso intreccio di parole. Lì si annida la sapienza, ma l’uomo che si fa avanti allungando la mano deve districare il groviglio, a costo della vita. In tal il modo Apollo esercita la sua potenza, e irretisce gli uomini meglio dotati per conoscere; in più la esercita attraverso la conseguente fomentazione alla lotta. Quell’intreccio di parole diventa oggetto di competizione: l’ansia di primeggiare nella Conoscenza scatena tra gli uomini una gara in cui non si indulge al vinto. Ecco dunque l’enigma: la sua presenza grave e solenne, il suo significato profondo sono documentati in un’epoca anteriore al V secolo a. C. Anzitutto nella leggenda tebana della Sfinge, dove il nesso tra oracolo ed enigma - opere di Apol­lo - fa da sfondo al più sconvolgente mito tragico della Grecia. Poi - attraverso un frammento di Esiodo - nel racconto della sfida mortale per la sapienza, tra due divinatori, Mopso e Calcante. E infine in una leggenda sulla morte di Omero, nota già a Eraclito, dove si dice che il poeta «morì per lo scoramento» di fronte all’incapacità di risolvere l’enigma, che una sfida casuale aveva imposto al­l’improvviso - in un momento sereno - a lui «che fu più sapiente di tutti i Greci». Nell’enigma di Omero l’intreccio di parole si presenta in una forma fatale: è la ragione astratta a disporle in antitesi incrociate. Due coppie di determinazioni contraddittorie sono congiunte inversamente a quanto ci si attenderebbe. Ciò svela tutta la portata dell’enigma, come fenomeno archeti­pico della sapienza greca: in questa formulazione si cela l’origine remota della dialettica, destinata a sbocciare con un nesso di continuità - secondo la struttura agonistica come secondo la terminologia stessa - dalla sfera enigmatica.

(G. Colli, La sapienza greca, Adelphi 1990).

Vi ho lette queste pagine perché, oltre a essere belle a leggersi, esprimono bene, come dicevo prima, la questione del greco antico nei confronti della sapienza: questo impeto, che i Greci chiamavano anche πος, cioè, questa passione intellettuale, irrefrenabile, dalla quale non ci si può sottrarre. E che è ancora presente nei presocratici, echeggia ancora in Platone, si ode ancora qualche eco, qualche eco già distante, ma scompare con Aristotele: questa βρις con Aristotele non c’è più. È come se Aristotele avesse pensato, ed è così che ha inventato la logica, che la ragione, intesa come ratio, potesse prevalere su tutto: se un ragionamento è ben condotto allora mettiamo in ordine le cose, le cose diventano ordinate, le posso dominare. Con Aristotele si consolida l’idea di dovere dominare il tutto attraverso la dialettica, attraverso la ragione, la ratio. Dominare tutto, quindi. Ma che cosa esattamente? Dominare ciò contro cui l’antico, l’eroe greco si scagliava con forza, con veemenza, con rabbia e disperazione, fino a schiantare se stesso; perché sapeva che non c’era la possibilità di superare quello che loro chiamavano enigma, che non c’era la possibilità di superare – noi oggi potremmo dire così, a distanza di quasi tremila anni – il problema del linguaggio. Invece, Aristotele vuole domare, addomesticare questo problema. Da qui quel livore, come alcuni commentatori hanno notato, contro Protagora, un livore eccessivo, non c’era assolutamente bisogno di scagliarsi contro qualcuno che Aristotele immaginava un negatore del principio di non contraddizione. Ma Protagora non fu un negatore del principio di non contraddizione. Pensate bene alle sue parole: l’uomo è misura di tutte le cose – ma qui arriva la parte interessante – di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono. Ci sono, quindi, cose che sono in quanto sono e cose che non sono in quanto non sono, e cioè conferma il principio di non contraddizione, non lo nega affatto, ma lo pone, lo utilizza e lo conferma. E, allora, quale minaccia ha visto Aristotele in Protagora? Una l’ha vista, probabilmente, e che è quella che ha scatenato l’ira funesta. Aristotele muove le sue argomentazioni, costruisce la sua teoria sull’induzione, su ciò che i più pensano, opinano, credono, immaginano, su ciò che i più danno per vero. In effetti, da qualche parte occorre partire, certamente, nessuno lo mette in dubbio. Ma qual è il passo che fa Aristotele? È che ciò che trae dall’induzione a questo punto diventa la premessa, come fosse autenticata, di altri sillogismi che verranno costruiti successivamente. Sappiamo che l’induzione non è altro che l’analogia, e come funziona? Funziona esattamente così: questa mattina è sorto il sole ed è sorto anche tutte le altre mattine; non c’è motivo di pensare che domani sarà diverso e, dunque, il sole sorgerà anche domani. Questa è l’induzione, questa è l’analogia: non c’è motivo di pensare che non possa essere così. Ecco, questo è il fondamento di tutto. Fondando tutta la metafisica su questo, è chiaro che quello che i più pensano deve risultare vero e, quindi, deve esserci una verità; riprendendo un antico adagio: vox populi, vox dei, quello che pensano i più è vero. È questo che crede Aristotele. Da qui, come qualcuno lo ha giudicato, il suo realismo ingenuo, ma in ogni caso resta a tutt’oggi abbastanza diffuso. Dunque, Protagora. Protagora dice che ciascuno vede le cose a modo suo, perché non c’è modo di stabilire un modo comune di vedere le cose. È questo che dice, non c’entra niente il principio di non contraddizione. Ma se ciascuno vede le cose a modo suo, allora non c’è un modo comune di vedere che sia più vero di un altro; quindi, non posso fondarmi su un’opinione comune; quindi, l’analogia, l’induzione, non funziona più, e lui non può costruire la metafisica. Questo è il motivo per cui si scaglia contro Protagora, il principio di non contraddizione è un pretesto. Come abbiamo visto, Protagora non solo non lo nega ma lo pone e lo conferma. Pone, però, un ostacolo a crede che davvero la vox populi sia la vox dei: questo, sì, Protagora lo ha fatto. Protagora in fondo è uno degli ultimi di quelli che, chiamiamo così, eroi greci, che affronta questa dicotomia, Apollo e Dioniso, che sono, sì, due dei, ma sono propriamente i due corni del linguaggio: l’uno, Apollo, la condensazione, cioè le cose come stanno; l’altro, Dioniso, la frammentazione assoluta, l’infinitizzazione, l’πείρων, l’indeterminato, l’infinito. Contro questo si scagliava Protagora, del quale purtroppo non c’è rimasto niente. Come vi dicevo prima, con Platone c’è ancora qualche eco, che però con Aristotele si chiude. Si chiude comunque in un modo interessante perché, nonostante tutto, in questa chiusura, per chiudere la cosa, deve prima, essendo una persona ragionevole, attenta e meticolosa, deve prima conoscerla. È lì che incontra il linguaggio, è lì che incontra i problemi, cercando poi di risolverli come può, come riesce. Fa questa operazione: è come se volesse sapere come funziona il linguaggio per dominarlo. Però, prima deve conoscere. Come lui stesso dice, non posso risolvere un problema se non so che esiste quel problema. Questa immensa operazione che mette in atto Aristotele ha degli aspetti che ci riguardano anche. Per esempio, prendiamo questa cosa che fa nel Libro Δ. Il Libro Δ è una sorta di lessico filosofico in cui fa una lista di termini e li definisce. Non è poco incominciare a definire, cioè, a dire che cosa lui intende con questa certa cosa; non dice ancora che cos’è ma “per il momento la prendiamo così e poi vedremo se è proprio così”. Nel corso dell’articolazione della metafisica si valuterà, però, intanto dice che cosa intende. È una cosa che generalmente non si fa. Da qui la conseguenza inevitabile di non intendersi mai quando si parla, perché ciascuno parte da un presupposto che ritiene vero e che, quindi, presuppone che anche l’altro lo conosca allo stesso modo. Ma non è così, e siccome l’altro pensa la stessa cosa, rivolta a quell’altro, naturalmente accadono problemi di ogni sorta. Dunque, il Libro Δ. Vi leggo pochissime cose, giusto per informazione. 1012b 35. Principio significa, in un senso, la parte di qualcosa da cui si può incominciare a muoversi, ad un capo di una retta o di una strada, per esempio c’è questo principio, mentre al capo opposto ce n’è un altro. /…/ In un altro senso, principio significa la parte originaria e interna alla cosa e da cui la cosa stessa deriva: per esempio, in una nave a chiglia, in una casa le fondamenta, ecc. 1013a 25. Causa, in un senso, significa la materia di cui sono fatte le cose: per esempio, il bronzo della statua, l’argento della tazza e i generi di questi. In un altro senso, causa significa la forma e il modello, ossia la nozione dell’essenza e i generi di essa… E così, via dicendo, per ogni termine che interviene lui dà una provvisoria definizione, provvisoria nel senso che si riserva di articolarla, di precisarla nel corso della Metafisica. 1015a 20. I significati di necessario. Necessario significa ciò senza cui il concorso non è possibile vivere: la respirazione e il nutrimento, per esempio, sono necessari all’animale… /…/ Inoltre, necessario significa ciò che costringe e la costrizione. /…/ Inoltre, ciò che non può essere in modo diverso da come è. Diciamo che è necessario che sia così. /…/ inoltre, nell’ambito delle cose necessarie rientra anche la dimostrazione, perché – se si tratta di una dimostrazione vera e propria – non è possibile che le conclusioni siano diverse da come sono. E la causa di questa necessità sono le premesse, se è vero che le proposizioni da cui deriva il sillogismo non possono essere diverse da quelle che sono. Su questo possiamo soffermarci perché è più importante delle altre. Qui incomincia a dire di che cosa è fatta la logica e perché lui la utilizza. Tra l’altro, Aristotele stesso dice da qualche parte che per trarre il massimo profitto dalla lettura della Metafisica occorre conoscere l’Organon, lo strumento. Qui dice se si tratta di una dimostrazione vera e propria – non è possibile che le conclusioni siano diverse da come sono, cioè, se conducete un’argomentazione come va condotta, allora la conclusione sarà vera, quindi, sarà accettabile da tutti, quindi, sarà imponibile a tutti. Come dicevamo la volta scorsa, a questo serve la verità. 1017b 10. Sostanza, in un senso, sono detti i corpi semplici: per esempio fuoco, terra, acqua… /…/ In un altro senso, sostanza si dice ciò che è immanente a queste cose che non si predicano di un sostrato ed è causa del loro essere: per esempio l’anima negli animali. /…/ Inoltre, si dice sostanza di ciascuna cosa anche l’essenza, la cui nozione è definizione della cosa. Prosegue con altre definizioni che possiamo tralasciare. Tra l’altro, Reale nota come moti degli interpreti di Aristotele saltino a piè pari questo libro, giudicandolo di nessun interesse e, addirittura, considerando, anche se sembra più una scusa, di non essere autentico, cioè, non scritto da Aristotele. Passiamo, quindi, al Libro Ε, il sesto. 1023b 5. Tuttavia, tutte queste scienze… Lui si interroga sempre sulla scienza assoluta rispetto alle altre scienze. Questa scienza assoluta sembra dirigersi verso la teologia, ma sempre nell’accezione che intende lui. …sono limitate a un determinato settore o genere dell’essere e svolgono la loro indagine intorno a questo, ma non intorno all’essere considerato in senso assoluto e in quanto essere. Questo è invece ciò che vorrà fare lui. Passiamo al Libro Ζ, il settimo. Il titolo è aggiunto da Reale ed è L’essere nei significati delle categorie e l’assoluta priorità della categoria della sostanza, che è la cosa cui vuole giungere Aristotele: la sostanza è la prima categoria, tutte le altre dipendono dalla sostanza. Pur dicendosi in tanti significati, è tuttavia evidente che il primo dei significati dell’essere è l’essenza, la quale indica la sostanza. (Infatti quando chiediamo la qualità di una data cosa, diciamo che è buona o cattiva, ma non che è di tre cubiti o che è uomo)… 1028b 10. È opinione comune che la prerogativa di essere sostanza appartenga nel modo più evidente ai corpi. Per questo diciamo che sono sostanze gli animali, le piante e le parti di esse, e che sono sostanze, anche, gli elementi fisici, come il fuoco, l’acqua, la terra e tutti gli altri, nonché tutte le cose che sono parti di questi elementi… Questo è il primo approccio alla questione della sostanza. Aristotele la affronta partendo dagli elementi sensibili, quelli sovrasensibili arriveranno dopo. 1028b 30. La sostanza viene intesa, se non in più, almeno in quattro significati principali: infatti, si ritiene che sostanza di ciascuna cosa sia l’essenza, l’universale, il genere e, in quarto luogo, il sostrato. Poi, si vedrà che il genere e l’universale sono di fatto la stessa cosa. Il sostrato è ciò di cui vengono predicate tutte le altre cose… Il sostrato non è che la materia. …mentre esso non viene predicato di alcun’altra. Perciò, in primo luogo, di esso dobbiamo trattare: infatti, sembra che sia sostanza soprattutto il sostrato primo. E sostrato primo vien detta, in un certo senso, la materia, in un altro senso la forma e, in un terzo senso, ciò che risulta dall’insieme di materia e forma. /…/ tuttavia la sostanza non si deve caratterizzare solamente in questo modo, perché così non basta. Infatti, questa caratterizzazione non è chiara. Per di più, stando ad essa, verrebbe ad essere sostanza la materia. In effetti, se non è sostanza la materia, sfugge che cos’altro mai sia sostanza, perché, una volta che si tolgano tutte le altre determinazioni, non pare che resti nient’altro: tutte le altre determinazioni, infatti, sono affezioni, azioni e potenze dei corpi. /…/ Chiamo materia ciò che, di per sé, non è né alcunché di determinato, né una quantità né alcun’altra delle determinazioni dell’essere. Uno potrebbe chiedersi: ma, allora, che cos’è se non è determinabile? Intanto, come possiamo sapere che c’è? C’è, infatti, qualche cosa di cui ciascuna di queste determinazioni viene predicata: qualcosa il cui essere è diverso da quello di ciascuna delle categorie. Tutte le altre categorie, infatti, vengono predicate della sostanza e questa, a sua volta, della materia. Cosicché questo termine ultimo, di per sé, non è né alcunché di determinato né quantità né alcun’altra categoria: e non è neppure le negazioni di queste, perché le negazioni esistono solo in modo accidentale. Dunque, per chi considera il problema da questo punto di vista, risulta che sostanza è la materia. Ma questo è impossibile; infatti, i caratteri della sostanza sono soprattutto l’essere separabile e l’essere un alcunché di determinato:… Abbiamo visto che la materia è indeterminata e, quindi, non può essere sostanza …perciò la forma e il composto di materia e di forma sembrerebbero essere sostanza a maggior ragione che non la materia. Qui incomincia a dire che la materia è indeterminata, non possiamo sapere che cosa sia. A questo punto chiamiamo sostanza la combinazione di materia e forma. Si presenta comunque un problema perché è una combinazione di un elemento, la forma, che è, sì, determinato – la forma è unica, la forma è quello che è –, e la materia? C’è una materia, certo, possiamo dire che questo è fatto di vetro, ecc., ma, detto questo, non abbiamo detto niente per Aristotele. Per esempio, il cristallo non lo osservo in quanto tale ma osservo una forma del cristallo, qualunque essa sia; anche se lo faccio a pezzi osserverò le schegge del cristallo ma non “il cristallo”, la materia cristallo, quella non la osservo mai. Questo problema che si pone in Aristotele nel momento in cui inserisce quasi a forza la materia, e la inserisce apposta perché Platone l’aveva eliminata, e lui non rifà le stesse cose che aveva fatto Platone. Aristotele vuole che ci sia materia, vuole qualche cosa che garantisca che le cose stanno così. E, poi, parla della materia come di qualcosa di indeterminato. Capite che a questo punto c’è qualche problema.

Intervento: …

Dicevano i medioevali che la materia è sempre materia signata, una materia formata in qualche modo, non c’è “la materia”. Sarebbe come dire “il numero”; dove sta “il numero”? Chi ha mai visto non un numero ma “il numero”? È la stessa cosa. 1029 30. Tutti ammettono che alcune delle cose sensibili sono sostanze; pertanto dobbiamo svolgere la nostra indagine partendo da queste. Da ciò che tutti ammettono. Questa cosa si ripete spesso: tutti ammettono, nessuno potrebbe dire che non è così, nessuno può confutarci se diciamo questo, cioè, tutti – quantomeno i più, i più saggi, cioè quelli che pensano come me – lo ammettono, quindi, è così, è vero. Ora, l’obiezione che si potrebbe fare è che comunque in ogni caso si parte da un’induzione, cioè, da un’analogia. È vero, è inevitabile, inesorabile. Persino la logica matematica, come ci diceva Mendelson, parte dall’analogia, cioè da ciò che vi facevo prima: siccome non c’è motivo di pensare che domani sarà diverso da oggi, il sole sorgerà anche domani: questo è il fondamento della certezza. Quindi, sì, bisogna partire dall’analogia, dalla chiacchiera avrebbe detto Heidegger, ma si può tenere conto che si è partiti da qualcosa di totalmente arbitrario e che, quindi, ciò da cui si parte si porterà appresso inesorabilmente tutta l’arbitrarietà di cui è fatta fino all’ultima conclusione. Il che non significa che non sia utile, può essere utile come non esserlo, ma non è questo il punto; il fatto è che si preferisce non vedere più da dove si è partiti. Tutti ammettono che… Io no, per esempio, e adesso? 1031a 10. È chiaro, dunque, che la definizione è la nozione dell’essenza e che l’essenza c’è solo delle sostanze, oppure che delle sostanze c’è in senso fondamentale, primario e assoluto. Aristotele ci sta dicendo che l’essenza di qualche cosa c’è soltanto delle sostanze. Qual è l’essenza della sostanza? La forma. È la forma che dà alla sostanza la sua sostanzialità per cui la sostanza è quella che è. Di sicuro non è la materia perché è indeterminata. Bisogna pure esaminare se ogni singola cosa e la sua essenza coincidano, oppure se siano due realtà diverse. Infatti, questo gioverà alla nostra indagine intorno alla sostanza. In effetti, ogni singola cosa sembra non essere altro che la propria sostanza, e l’essenza si dice essere, appunto, la sostanza di ogni singola cosa. Qui comincia a dire che la sostanza è l’essere. Per Aristotele la sostanza è l’essere, la sostanza come prima categoria, alla quale tutte le altre categorie si riferiscono, perché la sostanza è per sé, mentre le altre categorie (luogo, tempo, ecc.) non sono per sé, sono per qualche cosa (il luogo in cui qualcosa accade, il momento in cui qualcosa accade), sono sempre riferite alla sostanza, sono, come direbbero i linguisti, elementi sincategorematici. L’elemento sincategorematico è l’elemento linguistico che necessita di un altro elemento linguistico per significare qualcosa. L’esempio che si fa comunemente sono le preposizioni: per esempio, se dico “dopo” e null’altro non significa niente, uno giustamente chiederebbe: “dopo cosa?”; ha, quindi, bisogno di un altro elemento per potere significare qualcosa. Negli elementi categorematici si fanno rientrare generalmente i sostantivi, quelli che non hanno bisogno di altro per essere. “Sin” sta per insieme, “categorema” sono le categorie, i praedicamenta, le cose che si dicono; quindi, questa cosa si dice ma si dice “sin”, insieme a un’altra cosa. 1031b 20. Da queste argomentazioni risulta che sono una unica e medesima cosa, e non per accidente, la stessa singola cosa e la sua essenza… Qui sta dicendo che ogni singola cosa non è altro che la sua forma. Abbiamo visto che l’essenza è la forma della sostanza …e risulta anche per il fatto che conoscere la singola cosa significa precisamente conoscere l’essenza, così che, anche partendo dal punto di vista della separazione platonica delle Idee dai sensibili, è necessario che l’essenza e la cosa singola costituiscano una unità. Anche partendo dal punto di vista di Platone. E, invece, come dicevo la volta scorsa, Platone va riletto. 1032a 20. Tutte le cose che sono generate, sia ad opera della natura sia ad opera dell’arte, hanno materia: ciascuna di esse, infatti, ha potenzialità di essere e di non essere, e appunto questa potenzialità, in ciascuna di esse, è la materia. Qui vedete come Aristotele riesca, con un abile lavoro dialettico, a recuperare la questione della materia, che prima era definita come indeterminata e, quindi, come si manipola questa cosa, come la gestisco? Qui Aristotele inserisce un elemento importante, e cioè la materia come essere in potenza, la potenzialità. In questo modo dice che la materia, ad esempio della statua di bronzo, è il bronzo. Sì, ma cosa vuole dire questo? Vuole dire che la materia non è altro che la potenza del bronzo di diventare una statua; quindi, la materia diventa una potenza. Cosa che poi verrà ripresa come potenza e atto quando svilupperà la sua nozione di entelechia. Però, la cosa che a noi interessa è il fatto che Aristotele incontra spesso questa dicotomia, potenza e atto, materia e forma, come due momenti, direbbe Hegel, che occorre trovare il modo di combinare perché non si neghino l’uno con l’altro, perché è questo a cui alludevano i presocratici, e cioè che gli elementi si negano l’uno con l’altro, che il pensiero non si gestisce. Per gestirlo occorre che la materia stia al suo posto e che la forma stia al suo. Come doma Aristotele il pensiero dei presocratici in questo caso? Accoglie quelle cose sulle quali i presocratici avevano posto l’indice, additandole di ogni catastrofe, le coglie ovviamente, ma le ordina. Qui c’è una questione da porre. Le ordina in questo caso in una successione: c’è la materia e poi la forma e poi l’unione di materia e forma, tutto deve essere ordinato. Se ogni cosa è ordinata vuole dire che posso pensare che esista un ordine nelle cose. In fondo, sembra quasi che Aristotele voglia cercare questo ordine nelle cose per potersene avvalere per dire che le cose sono naturalmente ordinate e che, quindi, ciascuno deve attenersi a quell’ordine. Sto forzando un po’ Aristotele, ovviamente, però da molte cose si potrebbe trarre anche questo. 1032b 30. Sicché, come noi diciamo, sarebbe impossibile che qualcosa si generasse se nulla preesistesse. Quindi, c’è sempre qualche cosa che necessariamente preesiste. Se qualcosa necessariamente preesiste allora si può compiere un passo decisivo. Se qualcosa preesiste vuol dire che ciò che segue è connesso con ciò che lo precede, che c’è una consequenzialità. Se c’è una consequenzialità, cioè, se c’è un percorso stabilito allora si può determinare il fine. Se non c’è nessun percorso predefinito, alla Democrito tanto per intenderci, non c’è nessun fine da nessuna parte, è impossibile stabilire qualunque fine di qualunque tipo. È impossibile che qualcosa si generi se nulla preesiste. Si potrebbe anche essere d’accordo – se c’è qualche cosa, questa cosa viene da un’altra cosa – ma qui Aristotele dice una cosa che in parte contraddice… anche quando parla del sinolo, materia e forma, è perché c’è la forma che noi possiamo sapere che c’è la materia, sennò non lo sapremmo mai perché la materia è indeterminata. Quindi, è compiendo questo percorso a ritroso che veniamo a conoscenza di ciò che precede, di ciò che “ha generato”, ma ciò che ha generato viene dopo. In fondo è la stessa cosa che dice Peirce, rispetto alla sua logica: il secondo elemento viene dopo il primo, ma non è così, dice, perché se non c’è il primo non c’è neanche il secondo, ma se non c’è il secondo non c’è il primo; quindi, chi viene prima dei due? Non lo possiamo determinare. Aristotele dice qualcosa del genere a proposito del sinolo e poi in un modo più specifico quando parlerà dell’entelechia, unione di potenza e atto. Sono questi i modi, di cui dicevo prima, con cui Aristotele vede il funzionamento del linguaggio. La questione è che il suo intendimento, il suo progetto è quello di eliminarlo e dominarlo. 1033a 25. Ciò che si genera, si genera ad opera di qualche cosa (e con questo io intendo il principio agente della generazione), e proviene da qualcosa (e sia questo non la privazione, ma la materia; infatti, si è già sopra precisato in qualche modo ciò che si debba intendere) e diviene un qualcosa (e questo è o una sfera o un cerchio o una qualsiasi altra cosa). Ora, come non si produce il sostrato, per esempio il bronzo, così non si produce la sfera, se non per accidente: in quanto, cioè, si produce la sfera di bronzo, e la sfera di bronzo è una sfera. Produrre un alcunché di determinato significa trarre qualcosa di determinato da ciò che è sostrato nel senso vero e proprio del termine. Anche qui Aristotele la fa più semplice di quanto non sia, perché Produrre un alcunché di determinato significa trarre qualcosa di determinato da ciò che è sostrato…, cioè, dalla materia, ma se la materia è indeterminata, come ne traggo qualcosa? Per trarre qualcosa occorre che prima la determini, sennò non c’è. Incontra, quindi, queste aporie, che poi lui non vede come aporie, si accorge della difficoltà del linguaggio, non è che non se ne accorga, ma il suo obiettivo è sempre il τέλος, il fine, il fine a cui ciascuno deve tendere: per fare questo occorre che sia possibile e pensabile la verità. Perché la verità sia possibile e pensabile occorre che le cose siano in un certo modo, siano cioè determinabili. 1034a, 30. Cosicché, come nei sillogismi, il principio di tutti i processi di generazione è la sostanza; infatti, i sillogismi derivano dall’essenza, e da essa derivano anche le generazioni. Questo passo è importantissimo. Reale lo coglie, mette nel suo commento un punto esclamativo, ma la questione è molto più potente. Dice Aristotele: Cosicché, come nei sillogismi, il principio di tutti i processi di generazione è la sostanza, cioè, alla base del sillogismo c’è la sostanza e non la vox populi. Qui abbiamo già fatto un passaggio, e cioè dall’induzione, dall’analogia, alla sostanza. Ecco il motivo per cui ce l’aveva a morte con Protagora: Protagora gli levava di sotto il terreno dicendo che invece ciascun pensa a modo suo, cioè, non c’è un modo di pensare comune a tutti. Questo modo di pensare comune a tutti è la sostanza: ecco quello che ci sta dicendo qui Aristotele. Questa frase che piomba qui, sembra non c’entrare niente nel contesto, e invece no, ha una sua funzione ben precisa: a questo punto, in questo momento, Aristotele ci sta dicendo che lui ha compiuto il passo, il passo dall’analogia alla sostanza, non c’è più l’analogia ma la sostanza, c’è l’essere. Capite che non è un passo da poco. 1035b, 30. Ci sono, dunque, parti della forma (e per forma tendo l’essenza), ci sono parti del sinolo di materia e forma e ci sono anche parti della nozione, e la nozione è dell’universale: infatti l’essenza del circolo e il circolo, l’essenza dell’anima e l’anima sono la stessa cosa. Invece del composto, come per esempio di questo cerchio o di un cerchio particolare, sia esso sensibile sia esso intelligibile (per cerchio intelligibile intendo, per esempio, i cerchi matematici, e per cerchio sensibile intendo, per esempio, i cerchi di bronzo o di legno) non c’è definizione. Non posso definire il singolo elemento, la definizione riguarda solo l’universale, cioè, il significato. Anche questo è interessante: perché non posso definire i singoli elementi? Perché per definire questo elemento dovrei definire anche quell’altro che gli è simile e così via all’infinito, dovrei definirli tutti. L’universale, invece, li raccoglie tutti in un’unica forma, che per Platone è la forma assoluta, l’Idea assoluta, l’unica cosa reale ed esistente. 1036a 10. La materia è di per sé, invece, inconoscibile. E c’è una materia sensibile e una intelligibile; quella sensibile è, per esempio, il bronzo o il legno o tutto ciò che è suscettibile di movimento; quella intelligibile è, invece, quella presente negli esseri sensibili ma non in quanto sensibili, come gli enti matematici. Qui c’è un’altra questione curiosa. Dice che La materia è di per sé, invece, inconoscibile e poi dice che c’è una materia sensibile. Ma se non è conoscibile, in base a che cosa giunge ad affermare che c’è una materia sensibile? Per dire che c’è una materia sensibile deve conoscere la materia. Quindi, o la conosce, e allora c’è la materia sensibile e la materia non è indeterminata, oppure non la conosce e, quindi, non può neanche dire che c’è la materia sensibile. 1036a, 25. Si potrebbe sollevare, e con fondamento, anche questa difficoltà: quali siano le parti della forma e quali parti, invece, non appartengano alla forma, bensì al composto. E, d’altra parte, fino a che non sarà chiaro questo, non sarà possibile definire le singole cose: la definizione, infatti, è dell’universale e della forma… Solo l’universale può essere definito, il particolare no, lo posso definire attraverso l’universale. Posso definire questa lampada che è sul tavolo? Posso definirla astraendo, cioè, facendo della lampada un universale e, quindi, tutte le lampade sono fatte in un certo modo e pertanto anche questa. Ma questa lampada che è sul tavolo non la posso definire se non astraendo, cioè, uscendo da questa lampada che è sul tavolo. È in questo senso che è indefinibile. Nel caso di tutte quelle cose che vediamo realizzarsi in diversi tipi di materia, come ad esempio nel caso del cerchio che si realizza e nel bronzo e nella pietra e nel legno, appare chiaro che né il bronzo né la pietra fanno parte della sostanza del cerchio, per il fatto che il cerchio può sussistere indipendentemente da essi. I singoli non tolgono nulla all’universale: se tolgo il cerchio di pietra non è che il cerchio in quanto tale non funziona più come idea, l’idea c’è sempre. Quindi, l’idea non ha a che fare con le parti. 1036b 25. Invece, non è lo stesso: l’animale è un essere sensibile e non è possibile definirlo senza il movimento, quindi non è neppure possibile definirlo senza parti organizzate in determinato modo. Né la mano è una parte dell’uomo, in qualsiasi stato essa si trovi, ma solo se sia in grado di esplicare la sua azione, dunque quando sia animata; se, invece, non è animata, non è più parte. Non è una mano. Come dire che ciascun elemento fa parte del concreto, possiamo leggerla così in modo più interessante, cioè ciascun elemento astratto può essere conosciuto soltanto attraverso il concreto, perché solo il concreto consente all’astratto di esistere; l’astratto, tolto dal concreto, cessa di esistere anche lui, perché il concreto non è che il linguaggio, in definitiva, per cui se io astraggo dal linguaggio non mi rimane niente, né da determinare né da non determinare. 1037b 10. Vogliamo parlare, prima che di altro, della definizione e di ciò che di essa non è stato detto negli Analitici. Un problema posto in quest’opera, infatti, può essere di vantaggio alla nostra trattazione sulla sostanza. Mi riferisco al seguente problema: per quale ragione sia una unità ciò la cui nozione noi diciamo essere una definizione, ad esempio, nel caso dell’uomo, animale e bipede (poniamo, infatti, che questa sia la enunciazione dell’uomo). Per quale ragione, dunque, questo – cioè animale e bipede – costituisce una unità e non invece una molteplicità? È sempre il problema dell’uno e dei molti di Parmenide. 1037b 30. Orbene, occorre esaminare, principalmente, le definizioni che si ottengono per via di divisione. E nelle definizioni non è contenuto nient’altro all’infuori del genere che è detto primo (l’universale) e delle differenze. Gli altri termini sono tutti quanti genere: tanto il genere primo, quanto le successive differenze che vengono considerate insieme ad esso: per esempio, genere primo è l’animale, quello che segue è animale-bipede e quello che viene dopo ancora è animale-bipede-senza-ali; e similmente si procederebbe anche quando ci fosse un numero maggiore di termini. E, in generale, non importa che i termini siano in numero grande o piccolo, né che si tratti di pochi termini o di due soltanto; se i termini sono solo due, l’uno è la differenza e l’altro è il genere: nell’esempio di animale bipede, l’animale è il genere, bipede è la differenza. Come dire che l’universale, il concreto, si astrae rispetto a delle differenze: gli astratti sono differenze all’interno del concreto. La definizione è la nozione costituita dalle differenze. Qui sembra evocare de Saussure, che disse: nel linguaggio non vi sono se non differenze.