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15 luglio 2020

 

Scienza della logica di G.W.F. Hegel

 

Tra le varie cose Hegel mette in discussione i pilastri della filosofia analitica, anche se ovviamente Hegel ha vissuto un secolo abbondante prima della filosofia analitica (Carnap, Quine, Schlick, Neurath, Russell e altri). La filosofia analitica di Carnap parlava di enunciati protocollari, cioè di quegli enunciati che non sono altro che la registrazione di un’esperienza. In questo modo la filosofia analitica pensava di uscire dalla metafisica perché tutte le proposizioni non verificabili dall’esperienza vengono eliminate come nulle o come insensate. È rimasta celebre la quasi derisione da parte di Carnap nei confronti di Heidegger, quando Heidegger fece il suo discorso Che cos’è la metafisica. Heidegger parlava del nulla e naturalmente il nulla non è qualcosa che si coglie con l’esperienza e, quindi, per tutti i logici positivisti parlare del nulla è parlare di niente. Dicevo che tutta la filosofia analitica si basa sull’esperienza. Tutto ciò che la filosofia analitica ha cercato di evitare, per quanto riguarda la metafisica, ritorna in modo massiccio proprio lì nell’esperienza, dal momento che tutte le proposizioni che registrano delle esperienze, di fatto, registrano cose che sono, devono presupporre che quelle cose che accadono siano. Affermare questo, e cioè che le cose sono, è propriamente il fondamento della metafisica. Quindi, non c’è la possibilità per la filosofia analitica di fondarsi sulla esperienza senza presupporre che l’esperienza mostri, manifesti le cose, così come stanno. È una presupposizione teoricamente pericolosa perché presuppone, appunto, che l’esperienza sia per tutti sempre allo stesso modo. Ora, può accadere di avere questa impressione quando si parla con persone che hanno avuto tutte la stessa formazione: se pensano grosso modo alla stessa maniera, tutte quante tendono a vedere le cose alla stessa maniera; se voi chiedete a dei credenti se Dio esiste risponderanno tutti di sì. La posizione di Hegel, invece, è molto più acuta, più interessante, perché ci dice, e lo sta dicendo qui, che ogni cosa non è altro che un concetto. Come dire che tutto ciò che io descrivo dell’esperienza, come un dato esperienziale, per esempio oggi 15 luglio ci troviamo qui, in questa stanza, ecc. Questo sarebbe un enunciato protocollare: descrive uno stato di cose. Però, che cosa dico con questo? Costruisco in realtà una scena, che può anche essere condivisa da voi, certo, ma rimane il fatto che tutto ciò che mi consente di affermare questa proposizione è tutto ciò che io ho appreso, imparato, che mi è capitato nella vita. È ciò che Husserl chiamava Lebenswelt, il mondo della vita, e cioè una quantità di elementi che costruiscono quelle cose che io chiamo i concetti. Il dato di esperienza è una serie di concetti, ciascuno dei quali, e qui Hegel descrive bene come funziona il concetto, che è la relazione tra l’essere e l’essenza: perché possa essere occorre che anche non sia, cioè che si opponga a ciò che non è. A questo punto ho un concetto, cioè, un concetto determinato, vale a dire, posso affermare qualche cosa, che poi servirà al giudizio, di cui parlerà tra poco. Perché io possa vedere qualche cosa occorre che intanto io sappia che c’è qualcosa da vedere, e ciò che vedo non è innocente: ciò che vedo è costruito da ciò che io sono. Poi, se mi trovo con persone che hanno esperienza, formazione, ecc., simili alla mia, probabilmente ci troveremo d’accordo su alcune cose, ma questo di per sé non garantisce niente: il fatto appunto che miliardi di persone credano in Dio non garantisce il fatto che ne esista uno. Questo ci porta alla considerazione che il lavoro migliore da fare è quello di pensare le cose anziché presupporle. Il presupporle è quello che si fa generalmente, ma ci porta su una strada lungo la quale si crede di potere dimostrare ciò che si sta affermando, ma in realtà non è così. Tutto ciò che presuppongo non è dimostrabile, viene dalla mia storia, sono miti, e un mito non è propriamente dimostrabile. Per tornare a Hegel, alla questione del concetto, a pag. 700, dove parla dell’individuo, cioè il concetto in quanto tutto, in quanto intero, perché è questo che si troverà a dire; è come se il concetto si mostrasse non più come l’astratto, anche perché se qualcosa è astratta lo è rispetto a un concreto, a un tutto, da cui astraggo appunto l’astratto. Per potere astrarre qualche cosa, cioè per poterla considerare per quello che immagino che sia, occorre che prima ci sia un tutto, che sia all’interno di un tutto, sia cioè nel linguaggio. L’individualità, come si è mostrato, è già posta dalla particolarità; questa è l’universalità determinata; è dunque la determinatezza che si riferisce a sé, il Determinato determinato. 1. Anzitutto, quindi, l’individualità appare come riflessione del concetto dalla sua determinatezza in se stesso. Per dirla in modo un po’ rozzo, è come se fosse il concetto che pensa se stesso, cioè, si vede come individuo. È la mediazione sua per mezzo di se stesso, in quanto il suo esser altro si è daccapo fatto un altro, per cui è restaurato il concetto come eguale a se stesso, ma nella determinazione dell’assoluta negatività. Quindi, il concetto che riflettendo se stesso si afferma, potremmo dire così, come concetto, come individuo. Dell’astrazione dice a pag. 702. In quanto l’astrazione innalza il concreto nell’universalità, ma intende l’universale solo come universalità determinata, questa è appunto l’individualità che è risultata come la determinatezza che si riferisce a sé. L’astrazione è quindi una divisione del concreto ed un isolamento delle sue determinazioni. Per mezzo suo vengon colte soltanto delle proprietà e dei momenti singoli, poiché il suo prodotto deve contenere quella ch’essa stessa è. Quindi, pone l’astrazione come una separazione dal concreto, dal tutto. La separazione è una determinazione: se separo, determino. Poco dopo. Se l’individualità vien recata come una delle determinazioni particolari del concetto, la particolarità è la totalità che le comprende tutte in sé; appunto come quella totalità essa è il loro concreto o l’individualità stessa. È però il concreto anche secondo il lato dianzi notato come universalità determinata; così essa è come l’unità immediata, nella quale nessuno di questi momenti è posto come distinto o come il determinante, e in questa forma essa costituirà il termine medio del sillogismo formale. Si scorge subito che ogni determinazione fatta nella precedente esposizione del concetto si è immediatamente risoluta e perduta nella sua altra. Ogni distinzione si confonde nella considerazione che deve isolare e tener ferme quelle determinazioni. Per potere distinguere deve e tenere ferme quelle cose. Soltanto la semplice rappresentazione, per la quale l’astrarre le ha isolate, è capace di tenersi fermi uno fuori dell’altro l’universale, il particolare e l’individuale. Cioè: soltanto se me li rappresento, se me li immagino; cioè, soltanto se compio questa operazione fantastica. Immagino che siano separati: questo è ciò che si fa quando si astrae qualcosa. Immagino che sia isolato; ma questo non accade mai. Se fosse davvero isolato, non lo vedrei. Prima parlavo del vedere, sapere che c’è qualcosa da vedere: lo so perché se c’è qualcosa da “vedere” non è isolato, ma è all’interno del mondo di cui io sono fatto. Questo è importante perché ci dice come l’astrazione sia inevitabile. Appena io voglio considerare una qualunque cosa l’astraggo necessariamente, e a questo punto immagino che sia separata e isolata dal tutto, cioè, che sia fuori del linguaggio. Molto spesso interviene così: pensare che questa cosa che vedo qui sia fuori del linguaggio, perché è quella che è e, quindi, che io ne parli o no è indifferente per quella cosa, come se quella cosa avesse una vita sua. Potremmo aggiungere ancora che nell’astrarre io, sì, certo, astraggo dal tutto ma, astraendo qualcosa, cioè portandola fuori dall’intero in cui e per cui esiste, nel fare questo mi trovo a inserire questo elemento astratto in un altro intero, in un altro concreto, e devo farlo. Devo farlo perché questo altro concreto, in cui la inserisco, mi dice che cosa posso farne di questa cosa, sennò non saprei cosa farne. Anche l’operazione stessa di astrarre necessita di un concreto che mi fornisce tutti gli strumenti per fare questa operazione. In fondo, la Lebenswelt, di cui parla Husserl, va forse oltre quello che lui stesso immaginava, perché per potere compiere questa astrazione ho bisogno della Lebenswelt, del mondo della vita, della mia esperienza, delle cose che immagino, che penso, che suppongo, che credo, di tutte queste cose che costituiscono il concreto, cioè, il mondo che io sono. Il concreto è un concetto importante da tenere in considerazione perché non è che sia un qualcosa che è messo da qualche parte, ma è il linguaggio in quanto tutto, ed è tutto in quanto non c’è il fuori-linguaggio: non c’è qualche cosa che sia fuori, in questo senso è tutto. A pag. 703. L’astrazione, che come anima dell’individualità è la relazione del negativo al negativo, non è, come si è mostrato, nulla di estrinseco all’universale e al particolare, ma è loro immanente, e per cagion sua essi sono un concreto, un contenuto, un individuo. Ci sta dicendo che questa astrazione non esiste fuori del concreto. Dice nulla di estrinseco all’universale e al particolare, ma è loro immanente, perché non potrebbe darsi nessuna astrazione fuori dall’universale e dal particolare, fuori dal concetto, in definitiva. A pag. 704. L’individuo, che è ella sfera riflessiva dell’esistenza come questo, non ha quella relazione esclusiva a un altro uno, la quale compete all’esser per sé qualitativo. Il questo, in quanto uno riflesso in sé, è per sé senza repulsione; ovvero la repulsione è in questa riflessione in uno coll’astrazione ed è la mediazione riflettente, la quale è in lui per modo ch’esso è una immediatezza posta, mostrata da un esterno. Il questo è; è immediato; però non è questo, se non in quanto vien mostrato. Il mostrare è il movimento riflessivo che si raccoglie in sé e pone l’immediatezza, ma come un che a sé estrinseco. Questo individuo non ha una repulsione in sé. È come se dicesse che non ha un negativo, e non lo ha perché è il tutto. Se il tutto, cioè il linguaggio, avesse un negativo, il linguaggio sarebbe contraddittorio. Ora, il linguaggio non è contraddittorio, ma è ciò che continuamente costruisce che è autocontraddittorio. Facciamo un esempio. Quando Kurt Gödel fece la sua famosa tesi di laurea negli anni ’20 ebbe questa idea: prendiamo la matematica come un tutto, un intero; è fatta di proposizioni che sono dimostrabili all’interno della matematica. Ora, se io, diceva Gödel, riuscissi a inserire all’interno di tutte queste proposizioni una proposizione che dice che la matematica non è dimostrabile e riuscissi a dimostrarla allora mi troverei in una situazione davvero bizzarra. Attraverso la trasformazione di tutta la matematica in numeri gödeliani, ha fatta questa operazione in cui è riuscito a inserire, cioè a matematizzare, la proposizione che afferma che la matematica non è dimostrabile. Ecco il dramma: questa proposizione risulta dimostrabile, e, allora, o questa proposizione è vera e allora non è dimostrabile, oppure se è dimostrabile non è vera. Era tutto ovviamente matematizzato; questa cosa si è consumata all’interno della matematica, non poteva prendere un elemento da fuori e portarcelo dentro. Questo per dirvi che potremmo fare la stessa cosa con il linguaggio, e cioè costruire una proposizione che afferma di sé, p. es., di essere fuori del linguaggio. Naturalmente, questa proposizione, per potere porsi, nell’atto stesso in cui si pone si pone come atto linguistico; quindi, nel momento in cui si pone già nega la possibilità che possa darsi ciò che sta affermando; quindi, non posso in nessun modo dimostrarlo perché nel momento in cui si pone si toglie, scompare. Il linguaggio toglie ogni possibilità di negarsi, perché per negarsi deve utilizzarsi, deve esserci anche solo per potere pensare di essere fuori del linguaggio. Però, tutto quello che costruisce è autocontraddittorio, perché nel momento in cui io affermo qualche cosa, questo qualche cosa che affermo dilegua, mentre il linguaggio no. Il linguaggio è incontraddittorio, non può accogliere una contraddizione se non negando la sua stessa esistenza, ma per negare la sua esistenza deve esserci; mentre, come dicevo, tutto ciò che viene affermato, costruito dal linguaggio è autocontraddittorio, cioè, può porsi soltanto negandosi. Come sappiamo, qualunque cosa è quella che è perché non è quello che non è, quindi, per affermarsi si nega: solo in questo modo, negandola, si pone, si afferma. Altrimenti, rimane un po’ come l’essere senza il non essere, rimane cioè un’affermazione senza nessuna determinazione, è nulla. Vi ricordate quando Hegel parlava dell’essere. L’essere di per sé è nulla, perché è indeterminato, non ha nessuna cosa che lo determini; occorre il non essere, e allora l’essere non è il non essere e, quindi, sappiamo che cos’è. Questo ritorno non è altro che la consapevolezza dell’essere di non essere non essere, quindi, sa quello che è, cioè nulla, come avevamo detto. A pag. 704. Quest’astrazione dell’individuo è, come riflessione della differenza in sé, primieramente un porre i differenti come per sé stanti, riflessi in sé. Essi sono immediatamente; ma poi questo separare è in generale riflessione, è l’apparire dell’uno nell’altro, e così quelli stanno in una relazione essenziale. … L’individualità che si pone come determinata non si pone in una differenza estrinseca, ma nella differenza del concetto; esclude dunque da sé l’universale, ma poiché questo è un momento di lei stessa, così esso si riferisce altrettanto essenzialmente a lei. L’individualità si pone come determinata, non rispetto a qualche cosa che è fuori dell’individuo, estrinseco, ma si pone in una differenza che le appartiene, cioè, in una differenza da sé del concetto. È quello che diceva anche prima: non c’è un qualche cosa da fuori che stabilisca questa differenza, ma è il concetto stesso che differisce da sé. Questo perché sappiamo che il concetto è fatto di essere e di essenza, e l’essenza non è altro che la negazione dell’essere; è la negazione di sé e, quindi, tornando sull’essere dice che l’essere, appunto, non è ciò che non è. In quanto è questa relazione delle sue determinazioni per sé stanti, il concetto si è perduto; poiché così esso non è più la posta unità di quelle, e quelle non son più come momenti, come la parvenza di esso, ma come sussistenti in sé e per sé. Dice che il concetto, in questa relazione e differenze di è fatto l’individuo, si è perduto poiché non è la posta unità di quelle determinazioni, ma tutte queste determinazioni appaiono come sussistenti per sé e, quindi, in un certo qual modo manipolabili. Questo ci porta alla conclusione. Come individualità il concetto torna in sé nella determinatezza; con ciò il determinato stesso è divenuto totalità. Il suo ritorno in sé è quindi la sua propria assoluta, originaria scissione, vale a dire che come individualità il concetto è posto come giudizio. Come individualità il concetto torna in sé, quindi, tutte queste determinazioni ritornano in sé. Dice con ciò il determinato stesso è divenuto totalità e aggiunge Il suo ritorno in sé è quindi la sua propria assoluta, originaria scissione. Questa totalità, che il concetto pone in quanto tale come individuo, una totalità di determinazioni, pone anche la sua originaria scissione, e cioè queste determinazioni sono sì diventate parti di un tutto, ma continuano a persistere. È questo che consente il giudizio, cioè, il potere dividere il concetto. E adesso ci dirà come. Come si divide il concetto? In un soggetto e in un predicato. Il giudizio è la determinatezza del concetto posta nel concetto stesso. Quindi, la determinatezza del concetto non viene da altro, ma è nel concetto stesso, è lì che c’è la sua determinazione. Come? Nella differenza del concetto, nella sua differenza da sé, è questa la sua determinatezza. Il perché lo diceva prima: esclude dunque da sé l’universale, ma poiché questo è un momento di lei stessa, così esso si riferisce altrettanto essenzialmente a lei. Come dire che questo universale dovrebbe escluderlo essendo individuo, solo che questo individuo non può escludere l’universale, perché si riferisce all’universale proprio in quanto individuo o, potremmo dire, in quanto particolare, e il particolare non può escludere l’universale. Il giudicare è pertanto un’altra funzione che il concepire, o meglio, è l’altra funzione del concetto, essendo il determinarsi del concetto per se stesso, e l’ulteriore procedere del giudizio nella diversità dei giudizi è questa progressiva determinazione del concetto. A pag. 706. Le determinazioni in sé riflesse sono delle totalità determinate… Ogni volta che c’è una determinazione c’è qualche cosa che è in sé riflesso, perché soltanto così si determina. Come sappiamo, in Hegel non c’è un altro modo per determinare qualche cosa se non riflettere in sé e, quindi, negare la propria negazione (doppia negazione). …altrettanto essenzialmente in una sussistenza indifferente e irrelativa, quanto per la sua mediazione fra loro. Il determinare stesso è solo la totalità in quanto contiene queste totalità e la loro relazione. Questo determinare, dice, non è altro che la totalità; ciò che ho determinato è una totalità, dice, che contiene queste totalità e la loro relazione. È come dire che la totalità, un concetto in quanto totalità, contiene delle determinazioni, ma ciascuna di queste è una totalità, ciascuna di queste è il tutto. Ciascun elemento linguistico è il tutto, e lo è proprio perché, se non lo fosse, sarebbe fuori del tutto, cioè sarebbe fuori dal linguaggio. Quindi, ciascun elemento deve essere il tutto; ed essere tutto non è altro che essere nel linguaggio. Il giudizio contiene dunque primieramente quei due per sé stanti, che si chiamano soggetto e predicato. Queste sono le determinazioni che compaiono in questa totalità che è il concetto. In quanto questo è il concetto come determinato, si ha soltanto fra loro questa universale differenza, che il giudizio contiene il concetto determinato di fronte al concetto ancora indeterminato. Entrambi, sia il soggetto che il predicato, sono concetti. Come abbiamo visto, qualunque cosa è un concetto; se non lo fosse non sarebbe un qualche cosa. Quindi, si pongono, dice lui giustamente, come il soggetto, che è ancora indeterminato, rispetto al predicato. Dunque, due concetti: uno determinato e l’altro non ancora determinato. Il soggetto può dunque anzitutto esser preso rispetto al predicato come l’individuo rispetto all’universale… Riprendiamo l’esempio del significante e del significato. L’individuo è il significante perché è quello, non è un’altra cosa; il significato è l’universale. …oppure anche come il particolare rispetto all’universale, ovvero come l’individuo rispetto al particolare, in quanto cioè soggetto e predicato si contrappongono fra loro solo come il più determinato e il più universale. Il soggetto è il più determinato, il soggetto è quello… Soggetto sempre nell’accezione con cui lo intende Hegel, cioè, come ciò che agisce, l’agente. A pag. 707. Siccome il soggetto esprime in generale il determinato, e quindi piuttosto ciò che è immediatamente, e il predicato invece esprime l’universale, l’essenza ovvero il concetto… L’universale esprime l’essenza, così come l’essenza dell’essere era il non essere. L’essenza è ciò che ci si domanda rispetto al che cos’è veramente qualcosa; l’essenza dell’essere era il non essere. …così il soggetto in quanto tale non è dapprima che una sorta di nome; poiché quel ch’esso è viene espresso soltanto dal predicato, che contiene l’essere nel senso del concetto. Finché non so che cos’è non è nient’altro che un nome. Che cosa è questo, oppure: che pianta è questa, ecc.? Per quell’essere, del quale si domanda, viene spesso inteso semplicemente il nome, e quando si è saputo il nome si è soddisfatti e si sa ormai che cosa è la cosa. Questo è l’essere nel senso del soggetto. Cioè: del determinato ma anche indeterminato. Ma solo il concetto, o per lo meno l’essenza e l’universale in generale, danno il predicato, e di questo si domanda nel senso del giudizio. Dio, lo spirito, la natura od altro che sia, sono quindi come soggetto di un giudizio nient’altro che il nome. Che cosa sia, secondo il concetto, un soggetto simile, si ha soltanto nel predicato. Quando si ricerca qual predicato convenga a cotesto soggetto, per giudicare vi dovrebbe essere già per base un concetto; ma, appunto, il concetto è enunciato soltanto dal predicato. È perciò propriamente la semplice rappresentazione, che costituisce il significato presupposto del soggetto e che conduce a una spiegazione nominale, al qual proposito è accidentale e si risolve in un fatto storico, che cosa venga o no inteso sotto un certo nome. Così molte dispute, se a un certo soggetto convenga o no un predicato, non son altro che dispute verbali, appunto perché prendono le mosse da quella forma. Ciò che sta sotto (subjectum, ποκείμενον) non è ancora altro che il nome. Qui dice una cosa interessante, perché, dice, quando si ricerca un predicato che conviene a questo soggetto per potere giudicare, vi dovrebbe già essere un concetto che consenta di giudicare. Ma il concetto è solo nel predicato; il soggetto, nel punto in cui siamo, sarebbe senza significato, come se fosse un significante senza significato, che ancora non so che cos’è.

Intervento: …

Non esattamente. Qui Hegel sta ponendo una questione un po’ più complessa. Quando lui dice che nel giudizio abbiamo un soggetto e un predicato, cioè ci chiediamo che cosa è un qualche cosa, questo soggetto, in effetti, non è da intendersi esclusivamente come soggetto grammaticale. Questo soggetto non è altro che ciò che è per essere quello che è, in attesa del significato che lo farà diventare quello che è; ma finché non c’è questo ritorno, non c’è il significato, è nulla. a pag. 708. Secondo questa considerazione soggettiva soggetto e predicato vengono quindi considerati come già dato per sé fuori dell’altro,… Come se fossero due entità separate. …il soggetto come un oggetto che sarebbe, anche se non avesse questo predicato, il predicato come una determinazione universale che sarebbe, quand’anche non convenisse a questo soggetto. Col giudicare è quindi connessa la riflessione, se questo o quel predicato che si ha in testa possa e debba essere apposto all’oggetto, che è là fuori per sé; il giudicare stesso consiste in ciò che solo per mezzo di esso viene unito un predicato col soggetto, in modo che, se questa unione non avesse luogo, il soggetto e il predicato rimarrebbero pur nondimeno ciascuno per sé quello che è, il primo un oggetto esistente, il secondo una rappresentazione nella nostra testa. Il predicato che viene apposto al soggetto, gli deve però anche convenire, vale a dire, dev’essere in sé e per sé identico con esso. Con questo significato dell’apporre vengon tolti daccapo il senso soggettivo del giudicare e l’indifferente sussistenza esteriore del soggetto e del predicato. Sta dicendo che se fosse così, se fosse soltanto un’apposizione del predicato al soggetto, vengon tolti daccapo il senso soggettivo del giudicare e l’indifferente sussistenza esteriore del soggetto e del predicato, cioè, questi due elementi rimarrebbero come per sé stanti, come se non avessero nessuna relazione tra loro. Quest’azione è buona; la copula indica che il predicato appartiene all’essere del soggetto, non gli vien soltanto unito esteriormente. Nel senso grammaticale quel rapporto soggettivo, in cui si parte dall’indifferente estrinsecità del soggetto e del predicato, ha il suo pieno valore, perché son parole, quelle che qui si uniscono estrinsecamente. A questo proposito si può anche notare che una proposizione ha bensì nel senso grammaticale un soggetto e un predicato, ma non per questo è ancora un giudizio. Al giudizio appartiene che il predicato stia verso il soggetto nel rapporto delle determinazioni del concetto, epperò gli si riferisca come un universale a un particolare o a un individuo. Se quello che vien detto del soggetto individuale non esprime esso stesso se non qualcosa di individuale, questa è una semplice proposizione. Per es. Aristotele morì nel suo 73° anno di età, nell’anno 4° della 115° Olimpiade, - è una semplice proposizione, non un giudizio. Sarebbe u giudizio nel caso in cui si ponessero delle obiezioni e allora si dovesse mostrare che è proprio così. In quanto il giudizio è la posta determinatezza del concetto, questa ha le assegnate differenze in maniera immediata ed astratta come individualità e universalità. In quanto poi il giudizio è in generale l’esserci ovvero l’esser altro del concetto,… Interessante ciò che sta dicendo: il giudizio è l’esser altro del concetto; se fosse se stesso sarebbe già giudicato. È l’esser altro; è come se il concetto cercasse il suo altro per potere determinarsi e poter giudicare. Se non che in quanto il concetto costituisce il fondamento essenziale del giudizio, quelle determinazioni sono per lo meno indifferenti in modo che, mentre l’una conviene al soggetto e l’altra al predicato, questo rapporto ha del pari luogo anche inversamente. Il soggetto come individuo appare dapprima come l’essere o l’esser per sé seconda la determinata determinatezza dell’individuo… Sta dicendo che il soggetto è il predicato. Questo significato del giudizio è da prendersi come il suo senso oggettivo e in pari tempo come la verità delle precedenti forme del passaggio. Ciò che è diviene e si muta, il finito tramonta nell’infinito; l’esistente sorge nell’apparenza dal suo fondamento e va giù; l’accidente manifesta la ricchezza della sostanza come pure la sua potenza; nell’essere v’è passaggio in altro, nell’essenza v’è parere o rispecchiarsi in un latro, per cui si palesa la relazione necessaria. Questo passare e parere è ora passato nell’originario dividersi del concetto, il qual concetto, in quanto riconduce l’individuo nell’essere in sé della sua universalità, in pari tempo determina l’universale come reale. Queste due cose sono un’unica e medesima cosa, che cioè l’individualità venga posta nella sua riflessione in sé, e l’universale venga posto come determinato. Il soggetto è il predicato. Quando io dico che A è B sto dicendo che il soggetto è il predicato trovandomi, e questo ci riconduce al discorso precedente, di fronte a una palese contraddizione (se A è A non è B): se dico che A è B sto dicendo che A non è A ma B.  È per questo che dicevo che qualunque cosa il linguaggio affermi è sempre e necessariamente autocontraddittorio; ogni affermazione lo è, perché afferma di sé di essere altro da sé, mentre il linguaggio non è autocontraddittorio. Ora a questo significato oggettivo appartiene anche che le differenze accennate, in quanto si presentano daccapo nella determinatezza del concetto, siano in pari tempo poste solo come apparenti, vale a dire che non siano un che di fisso, ma convengano egualmente così all’una determinazione del concetto come all’altra. Quindi è che il soggetto si dee anche prendere a sua volta come l’essere in sé, e il predicato all’incontro come l’esserci. Il soggetto senza predicato è quello che è nell’apparenza la cosa senza proprietà, la cosa in sé, un vuoto fondamento indeterminato; è così il concetto in se stesso, che soltanto nel predicato ottiene una differenziazione e una determinatezza. L’identità or ora mostrata (tra l’universale e l’individuale), che la determinazione del soggetto conviene egualmente anche al predicato e viceversa, non cade però soltanto nella considerazione nostra; non è soltanto in sé, ma è anche posta nel giudizio. Infatti il giudizio è la relazione di quei due; la copula esprime che il soggetto è il predicato. Il soggetto è la determinatezza determinata, e il predicato è questa sua determinatezza posta; il soggetto è determinato soltanto nel suo predicato, ossia è soggetto soltanto in quello; è tornato in sé nel predicato e vi è l’universale. Può apparire una cosa banale, ma dire che il soggetto è il predicato ci sta di nuovo ponendo il soggetto e il predicato come due momenti del giudizio, in cui uno è l’altro. Il predicato torna sul soggetto e lo rende soggetto effettivamente, così come il significato torna sul significante e lo rende significante. In quanto per conseguenza il predicato vien distinto dal soggetto, non ne è che una determinatezza isolata, è soltanto una delle sue proprietà; il soggetto stesso invece è il concreto, la totalità di molteplici determinatezze, come il predicato ne contiene una; è l’universale. Ma d’altra parte anche il predicato è una universalità per sé stante e viceversa il soggetto una sua sola determinazione. Il predicato sussume pertanto il soggetto; l’individualità e la particolarità non è per sé; ma ha la sua essenza e la sua sostanza nell’universale. Il predicato esprime il soggetto nel suo concetto; l’individuo e il particolare sono delle determinazioni accidentali in esso; esso è la loro assoluta possibilità. A pag. 713. Il soggetto è il predicato, è anzitutto ciò che il giudizio attesta; ma siccome il predicato non deve esser ciò ch’è il soggetto, così si ha una contraddizione che deve risolversi e passare in un risultato. Anzi, siccome in sé e per sé il soggetto e il predicato son la totalità del concetto e il giudizio è la realtà di questo, così il suo avanzarsi non è che sviluppo; vi si ha già quello che vien fuori, e il dimostrare non è pertanto se non un mostrare, una riflessione come un porre quello, che negli estremi del giudizio si ha già; ma anche questo porre si ha già; è la relazione degli estremi. È già tutto qui, abbiamo già tutto; la dimostrazione mostra soltanto quello che già c’è, non fa nient’altro che questo. Ma c’è nel concetto, è l’esserci del concetto, la sua realtà.