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15-7-2015

 

Nell’ultimo incontro avevo saltato una questione interessante posta da Severino: l’identità A = A non la pone in questo modo, perché in questo modo le due A sono due oggetti e stabilire l’identità tra questi due oggetti è arduo, e allora non pone l’identità come A = A ma come (A = A) = (A = A). L’identità non è più tra due cose ma tra due relazioni, è a questo punto che sostiene l’identità a sé, perché questa identità non è tra cose ma è tra relazioni, cioè tra atti linguistici. “L’identità è l’essere sé dell’essente, il suo essere sé e non altro, ma l’identità in questo suo significato fondamentale non è qualcosa di diverso dalla permanenza dell’essente, la permanenza dell’essente è l’identità stessa ma non in quanto essa è tale, bensì in quanto essa permanendo nell’apparire è in relazione a ciò che non permane che cioè sopraggiunge nell’apparire e ne esce, e la diversità dei modi di parlare della cosa, è appunto un sopraggiungere e un andarsene di quelle cose che sono le parole della cosa, giacché i diversi, gli infiniti modi di parlare della cosa non sono detti tutti insieme ma in una successione che è tale in relazione al permanere dell’identità (parla di permanenza, qualcosa che permane però non in quanto tale, bensì in quanto questa identità è in relazione a ciò che non permane, cioè a ciò che esclude, che continua a sottolineare l’aspetto che per lui è fondamentale, cioè che qualcosa è quello che è in quanto esclude sempre qualche cosa, cioè esclude ciò che non è, in questo caso) I differenti modi con cui la parola può indicare questa notte che viene (faceva questo esempio prima) sono i differenti modi in cui la parola è forma della cosa in cui consiste questa “notte che viene”, e la cosa è l’identità cui la parola si riferisce. Se si nega questa identità così che i diversi modi in cui la parola è parola della “notte che viene” sono tra loro incommensurabili e ognuno parla di qualcosa di cui gli altri non parlano (ciascuno descrive questa notte che viene come pare a lui, e parlandone in un certo modo esclude gli altri modi) se si nega che questa “notte che viene” sia un significato identico sotteso alla differenza della parola, questo significato identico lo si ha sotto gli occhi proprio nell’atto in cui lo si nega e proprio per poterlo negare (per potere negare qualche cosa, questo qualche cosa deve essere determinato, è una questione che ha ripreso molte altre volte, ecco lo dice qui “per negare qualcosa lo si deve capire, esso deve apparire” cioè se lo nego è perché c’è) se si nega che “questa notte che viene” sia un significato identico, capace di unificare le differenze che lo esprimono, questo significato sta dinnanzi proprio nel suo essere quell’identità che si pretende di negare, se ciò che si nega ha un senso la negazione dell’unità di questo senso presuppone ciò che essa intende negare, appunto per questo la ripetizione della negazione dell’identità nega lo stesso, altrimenti sarebbero significati sempre diversi quelli che la negazione ripetendosi negherebbe (per negare qualche cosa occorre che questo qualche cosa che nego sia quello che è, perché se non fosse quello che è non so che cosa sto negando quindi la negazione si auto nega, a quel punto, poiché non si sta negando niente, non si nega niente, quindi non c’è negazione) Dando al discorso tutta l’ampiezza che gli compete la necessità dell’identità si presenta anche in quest’altro modo già rilevato, se si nega l’identità se cioè si afferma che il linguaggio è il puro differenziarsi della parola sì che così esistono soltanto le differenze senza alcuna identità, si afferma l’identità perché si afferma che le differenze sono identiche appunto nel loro essere differenze, quindi c’è identità in quanto differenza come differenza è identica a ogni altra differenza (perché la differenza è quello che è e non altro da sé) inoltre l’apparire dell’identità è ciò senza il quale non potrebbe apparire il sopraggiungere delle differenze e dunque delle differenze della parola. Può apparire il sopraggiungere della notte solo se il giorno ossia ciò rispetto a cui la notte sopraggiunge non scompare ma permane nell’apparire (so che è notte perché c’è stato il giorno) se il giorno non apparisse più quando la notte sopraggiunge o se ciò che del giorno apparisse fosse totalmente diverso da esso, sì che non si potrebbe nemmeno dire che di esso appaia ancora qualcosa, la notte non sopraggiungerebbe rispetto a niente (perché a questo punto non ci sarebbe stato più il giorno perché è scomparso del tutto, cioè non è mai stato) Non apparendo ciò rispetto a cui esso sopraggiunge non potrebbe apparire il suo sopraggiungere, proprio perché quando appare il sopraggiungere della notte, è necessario che appaia ciò rispetto a cui essa sopraggiunge (la notte sopraggiunge rispetto a che? Rispetto al giorno) è necessario cioè che il giorno che appare prima sia lo stesso giorno che appare poi, ossia è necessario che la differenza, essa stessa inevitabile, essa stessa necessaria quindi la differenza tra il giorno in quanto è prima e il giorno in quanto è poi sia sottesa da una identità cioè dall’essere sé che permane dopo essere apparso prima (occorre che il giorno appaia perché possa darsi la notte, questo apparire del giorno è lo stesso anche dopo, quando è notte, ma è notte perché c’è stato il giorno, quindi c’è una identità. Qui si potrebbe dire che si potrebbero fare interpretazioni differenti. Si possono fare, ma si possono fare perché qualche cosa permane come identico, cioè permane il fatto che ci sia stato il giorno, io posso interpretare il giorno come mi pare ma che ci sia stato il giorno questo non lo posso negare perché se no non posso dire che sopraggiunge la notte) Wittgenstein nega che le differenze del linguaggio siano sottese da una identità perché “il significato” della parola è il “suo uso” nel linguaggio, la regola del suo uso e l’uso delle parole è diversificato, nel senso che esistono infiniti modi diversi di usarle, tuttavia l’uso cioè il significato di una parola è una stabilità, Wittgenstein parla di uso stabile ma è un’espressione pleonastica, l’uso è seguire una regola, e seguire la regola non è qualcosa che potrebbe essere fatto da un solo uomo, qualcosa che potrebbe essere fatto da un solo uomo una volta nella sua vita (questa non è una regola, deve essere qualcosa di condiviso, infatti Wittgenstein parla del linguaggio pubblico, proprio per questo il linguaggio è pubblico, è qualcosa che viene utilizzato da tutti i parlanti) Seguire una regola è una stabilità cioè una identità sottesa alle differenze della parola cioè alle sue ricorrenze (una sola parola può ricorrere in migliaia dei modi diversi, ma il fatto che questo uso sia un’identità è ciò che consente alla parola tutte le sue ricorrenze) L’uso cioè il significato può cambiare, la stabilità e l’identità possono svanire ma la stabilità dell’uso della parola smentisce la negazione dell’identità del significato (per Wittgenstein il significato appunto è l’uso ma questo uso, è stabile, è identico, c’è, questo uso non può modificarsi, l’uso in quanto tale è identico a sé, non è una volta è un uso e un’altra volta un’altra cosa, quindi Severino riconduce ogni volta al fatto che se qualcuno tenta di sgusciare via dall’identità lui lo riconduce dicendo che questo stesso tentativo di sgusciare via dall’identità presuppone un’identità cioè lo “sgusciare via” è in questo caso qualche cosa che è quello che è e non è altro da sé) E dire che la differenza qualsiasi è l’identità, significa dire che proprio perché la differenza qualsiasi è l’identità di ciò a cui si riferiscono tutte le differenze di un certo insieme, l’identità è in relazione a questa totalità, l’apparire dell’identità è l’apparire di questa relazione (prima diceva dell’identità A = A lui la pone come identità tra relazioni, infatti l’apparire dell’identità, dice, è l’apparire di questa relazione, perché l’identità è in relazione a questa totalità) L’identità è l’indifferenza di una differenza qualsiasi a essere l’identità delle differenze (sta dicendo che l’identità è un universale e non un particolare, l’identità è indifferenza di una differenza qualsiasi, non importa quale differenza specifica ma la differenza come universale: le differenze tra loro sono identiche perché sono differenza e la differenza è quello che è) l’universale è un particolare che in quanto è particolare qualsiasi e dunque in quanto è quel particolare che esso è, ma un particolare qualsiasi, non solo indica ma è l’identità che è presente in tutti i particolari di un certo insieme, tale insieme è una molteplicità di differenze sottese da una identità e l’identità è la relazione che unisce una differenza qualsiasi a tutte le differenze di tale insieme (ci sono tantissime differenze nelle parole, ma c’è una relazione che unisce tutte queste differenze che sono differenze: l’insieme è una molteplicità di differenze sottese da una unità) l’identità delle differenze è appunto un essere in relazione alla totalità delle differenze (ciascuna differenza di questo insieme si riferisce comunque alla differenza, alla differenza in quanto tale, da parte della differenza qualsiasi infatti qualsiasi differenza è comunque sempre in relazione con “la differenza”. Infatti dice che l’universale è un particolare che in quanto è un particolare qualsiasi, non solo indica, ma è l’identità che è presente in tutti i particolari di un certo insieme. Ciascuno di questi particolari qualsiasi, non uno in particolare ma uno qualunque è sempre in relazione con l’identità della differenza in questo caso) Quando viene giorno e la notte è dimenticata, è la notte che venendo era entrata nel cerchio dell’apparire e ne esce, ma ne esce dopo che permane con l’avvento del giorno, permane come il prima rispetto al quale il giorno può apparire come un poi, quando la notte è dimenticata il giorno continua ad apparire ma non più come qualcosa che è sopraggiunto dopo la notte, nella non verità dell’Occidente questo comparire e scomparire è interpretato come uscire dal nulla e ritornarvi (questa è la differenza che lui pone tra la sua posizione e la metafisica del discorso occidentale) per il discorso occidentale arriva la notte e il giorno scompare e torna nel nulla, esce dal nulla con l’alba e torna nel nulla con il tramonto (per Severino non è così, il giorno e la notte devono continuare a essere, fare parte del Tutto. Sopraggiunge il giorno, ma se sopraggiunge il giorno è perché c’è anche la notte, quando il giorno scompare e arriva la notte, la notte può apparire perché il giorno continua a essere lì, non torna nel nulla, se tornasse nel nulla non ci sarebbe la notte) Sia nella verità, sia nella non verità le identità permangono fino a che scompaiono, ma nella non verità ogni identità della terra può essere negata (che è quello che fa il nichilismo) è possibile che la notte che viene sia una parola falsa e comunque è una parola esposta alla propria smentita, proprio perché nel cerchio dell’apparire la cosa è sempre di fatto avvolta dalla parola, al di fuori del destino della verità ogni cosa è una parola smentibile (al di fuori del destino della verità, cioè al di fuori del Tutto, per cui questa parola che interviene non scompare nel nulla, se non si crede che scompaia nel nulla, cioè se non si è nell’errore allora) ogni cosa è una parola smentibile (se si è nella verità dell’Essere allora la parola non è più smentibile ma se si è nell’errore, cioè si crede che le cose vengano dal nulla e tornino nel nulla, allora ogni parola è smentibile perché è auto contraddittoria già di per sé, perché dice che è ma anche simultaneamente che non è) È smentibile anche (sempre la parola dell’errore) anche perché sembra rinviare a infinite altre parole che ne modificano e condizionano il senso le identità della terra nella non verità sono significati le parole che franano e nascono effimeri, la notte viene e va via, anche perché la parola come forma dell’identità rinvia e si perde in infinite altre parole, di questo sono consapevoli, pur mantenendosi nelle non verità, le filosofie della svolta linguistica, l’identità si perde nel suo differenziarsi infinito ogni parola è storica, muta continuamente, questa sarebbe la parola che parla al di fuori del distino della verità, il destino della verità è l’identità la cui negazione nega se stessa, il destino sta (come dice la parola “de stino” da “στημι” in greco “sta”) appunto perché la sua negazione è autonegazione (vi rendete conto che tutte le affermazioni che fa Severino in effetti muovono sempre da concettualizzazioni, quindi da atti linguistici, anche in questo caso sembra non parlare di cose ma di proposizioni, perché quella proposizione nichilista è falsa? Perché è auto contraddittoria, è auto contraddittoria perché è possibile costruire una proposizione che dice che è auto contraddittoria) Tuttavia anche l’identità del destino (l’identità in cui consiste la struttura del destino della verità) appare a sua volta nella forma della parola, però anche qui l’identità è tale rispetto alla differenza della parola e la volontà interpretante che nella non verità non appare come tale, cioè come radice della non verità, l’isolamento della terra dal destino è infatti interpretazione originaria, rinvia a infinite altre parole, a infiniti altri eterni le parole che parlando del destino (come risolve la cosa lui? Adesso vi rileggo il brano “l’identità nelle parole (come dice dopo la svolta linguistica) l’identità si perde nel suo differenziarsi all’infinito, ogni parola è storica” (ogni parola è altra, ma che cosa dice qui?) “ognuna di queste altre parole infinite, di questi altri infiniti significanti è eterno” ecco la soluzione di Severino, “ognuna di queste altre parole è un eterno”, io posso dire che la parola è sempre altra da sé perché ogni volta che la dico dico un’altra cosa, ma quest’altra cosa che dico è eterna, poi per spiegare questo “eterno” dico altre parole, ciascuna di queste altre parole differisce da sé. È un movimento infinito di cui parla la semiotica, in particolare Hjelmslev, questa semiosi infinita Severino non la nega, perché non può negarla, ma dice che ciascuno di questi elementi di cui è composta la semiosi infinita è un eterno) la volontà interpretante ogni volta rinvia a infinite altre parole, a infiniti altri eterni le parole che parlano del destino, ma qui il torrente delle parole non smuove, non intacca il greto dell’identità, non lo smuove e non lo intacca perché ponendosi come sua negazione smuove e intacca se stesso (se nega che questi elementi sono eterni nega ciò stesso che sta negando, perché se non sono eterni, cioè non sono quello che sono, che cosa sta negando?) la volontà interpretante vuole che certe cose siano parole di altre (quando io interpreto qualcosa le parole dell’interpretazione sono le parole riferite al definiens, a ciò che si deve definire) che siano attività dell’uomo e ne esprimano l’interiorità che consentono a ogni individuo umano di comunicare con gli altri individui e come una cosa non è parola ma è evoluta come parola, così la parola non è ma è evoluta come interpretazione, è interpretata come interpretazione. Il suo essere interpretazione cioè una struttura teorica, è il suo stesso rinviare a un sistema di parole e ai sistemi che le circondano ma la problematicità del rinvio e dell’interpretare non investe l’innegabile, perché il travolgimento dell’innegabile ne è la negazione ossia è l’autonegazione della negazione, è sempre esattamente la stessa cosa. Il destino della verità è dunque anche l’autonegazione della sua negazione (è l’immutabile, l’incontrovertibile che nega la sua negazione) appare nel linguaggio, la volontà interpretante pone il linguaggio in cui il destino appare come appartenente all’area delle lingue dell’Occidente ed è all’interno di queste lingue e di altre, ma non di tutte, che il destino può apparire, il destino è dunque qualcosa che appartiene “soltanto” al linguaggio o addirittura a certi linguaggi e a non ad altri? è dunque soltanto un gioco linguistico? Se un gioco è ciò che può non essere praticato, che è basato su regole arbitrarie o modificabili (qui sta la sua critica alle affermazioni che il linguaggio è un gioco) se un gioco è ciò che può non essere praticato (quindi ad libitum) che è basato su regole arbitrarie o modificabili, che ha al di fuori di sé infiniti altri giochi in cui avviene qualcosa di diverso da ciò che avviene in esso, allora il destino della verità è il non gioco, l’unico a non essere un gioco, il destino è l’innegabile, ma questa innegabilità non si costituisce all’interno del linguaggio? Certamente e gli altri linguaggi? Se sono commensurabili al linguaggio che testimonia il destino l’innegabile può apparire anche in essi, anche in essi il destino può essere in vari modi negato ma quando un linguaggio nega il destino nega se stesso (i linguaggi commensurabili al linguaggio che testimonia il destino, i linguaggi che parlano dell’assolutamente altro parlano di qualcosa che, come altro dal destino, da un lato è esso stesso una negazione del destino, dall’altro lato come assolutamente altro dall’innegabile è negabile “se è assolutamente altro dall’innegabile per definizione è negabile, perché o è innegabile o è innegabile” se dice che è assolutamente altro dall’innegabile allora è negabile) ma nella realtà al di fuori del linguaggio, di quei linguaggi in cui appare l’innegabile, non può accadere tutt’altro di ciò che nel linguaggio appare come l’innegabile? Il destino della verità è il destino dell’Essere e quindi di ogni realtà e di ogni accadimento proprio perché il destino è innegabile, innegabile è il destino dell’Essere, perché è impossibile ogni dimensione, realtà, essere in cui accada qualcosa che smentisca il destino innegabile (questo è il punto centrale) l’innegabile è il destino di tutto ciò che non è un niente, (se qualcosa è qualche cosa allora è innegabile, rientra all’interno di questa struttura “originaria”) al destino sfugge soltanto il niente, perché non sfugge niente, il destino è nella parola ma è il contenuto non smentibile della parola. (La questione è che lui deduce che esista qualche cosa che non è linguaggio, perché? Il destino della verità di cui parla, cioè l’incontrovertibile, è qualche cosa che non può essere arbitrario, in nessun modo, se fosse arbitrario potrebbe anche non essere così ovviamente, ma se non fosse così allora, dice Severino, sarebbe un grosso problema perché a questo punto se non è così è niente, se non è quello che è, è niente. Si rende conto benissimo del fatto che è nel linguaggio e il linguaggio funziona in un certo modo, però rileva che comunque all’interno del funzionamento del linguaggio occorre che qualche cosa sia quello che è, come abbiamo per altro sostenuto da molto tempo, un elemento occorre che sia quello che è per costruire altre sequenze, occorre che sia quello che è per potere essere utilizzato, poi possiamo dire che questo elemento è quello che è, perché come direbbe Hjelmslev, non è che l’intersezione di un fascio di significati. Severino sa perfettamente tutte queste cose è ovvio, ma continua a dire che se qualche cosa deve proseguire, se può proseguire è perché qualunque elemento di questa sequenza è quello che è. Stiamo dicendo ormai da molto tempo che il linguaggio funziona perché viene costruito, ho fatto l’esempio dell’informatica, di come si costruisce un programma, cioè sono istruzioni, sono informazioni e istruzioni, informazioni e istruzioni per eseguire queste informazioni. Se non si pone questo è chiaro che non si sa da dove arrivi una cosa del genere, cioè perché funziona così? Perché c’è questa identità? Perché il linguaggio funziona così, ma funziona così perché è “programmato” per funzionare così, perché ci sono delle istruzioni che dicono delle cose e il linguaggio le esegue, il linguaggio è queste istruzioni) Ebbene se e poiché la notte che viene appare, è necessario che la cosa in cui essa consiste appaia da ultimo come cosa e non come cosa essa stessa avvolta dalla parola, (sta dicendo che questa cosa è quella che è “la notte appare” questo è quello che è, la parola non la intacca, cioè la parola non toglie l’incontrovertibile. La parola è fatta anche dell’incontrovertibile, anche ma non solo “appaia come cosa e non avvolta dalla parola e non come cosa essa stessa avvolta dalla parola” cioè deve essere quella che è, senza tenere conto di ciò che dicevamo prima: è necessario che sia quella che è perché la si possa utilizzare, ma solo per questo, non ci sono altri motivi, la cosa è quella che è non per volontà divina ma perché il linguaggio è costruito in modo tale che per potere utilizzare un certo elemento deve riconoscere quell’elemento come quell’elemento, allora lo può utilizzare, inserire in una stringa, se no non sa cosa farsene) Se il rinvio della parola alla cosa apparisse infinito, come ai semiotici talvolta è apparso, la cosa non sarebbe mai raggiunta cioè non apparirebbe e quindi non apparirebbe nemmeno la parola. Anche il rinvio che da una parola rinvia ad altre diverse parole, che è da distinguere dal rinvio della parola a un significato che si presenta a sua volta avvolto da una parola, si arresta a una parola che pur potendo a sua volta rinviare ad altre di fatto non opera questo rinvio (si ferma, conclude, perché conclude? Perché è una prerogativa del linguaggio il fatto di essere strutturato in modo tale da dovere concludere per ripartire) Nel cerchio dell’apparire la cosa in quanto distinta dalla parola appare sempre di fatto avvolta daccapo dalla parola ma è necessario che da ultimo non appaia come così avvolta ma come cosa, come la notte che viene (sta dicendo questo: quando per esempio in un discorso concludo una certa cosa, concludo quella cosa, allora lui dice che questa appare come cosa non come avvolta dalla parola, perché se è avvolta dalla parola rinvierebbe ad altre parole per essere quella che è, mentre appare dice lui “non” avvolta dalla parola ma appare in quanto cosa, in quanto cosa cioè immutabile, la “cosa”, lui non ne sta parlando come degli oggetti, come “cosa” cioè come qualcosa di fisso, di determinato, di non negabile, qualcosa che è quello che è. Pare costretto a fare questa distinzione tra cosa e parola perché la “cosa” è quella che è, la parola no, la parola è un rinvio infinito, la cosa è la cosa, e allora “la notte che viene” è una cosa perché è quella che è, ma è una prerogativa del linguaggio di fissare, solo che il linguaggio non la fissa perché “la notte che viene” è quella cosa per volontà divina, è semplicemente una “decisione” del linguaggio, di porla come tale per poterla utilizzare, è soltanto una necessità per il suo utilizzo, questa cosa di fatto non è né identica a sé né differente da sé, è niente in assenza del linguaggio che la utilizza) Alla volontà che isola la terra (sempre sottointeso dal destino della verità, cioè dall’immutabile) appartiene la volontà di parlare, la volontà di assegnare la parola alla cosa, l’isolamento della terra dal destino della verità è invece la radice della totalità delle contraddizioni, il cui toglimento è la negazione del loro contenuto alla volontà che isola la terra appartiene la volontà di parlare, la volontà che qualcosa sia parola di altre, la volontà di assegnare la parola alla cosa (che è come dire che la volontà di parlare procede dalla struttura metafisica del linguaggio) Alla volontà che isola la terra dal destino della verità appartiene quindi anche la volontà di parlare del destino della verità (come di qualunque altra cosa) anche la volontà di parlare è dunque contraddizione e anche il toglimento di questa contraddizione è eterno, eternamente tolta la volontà che isola la terra dal destino, eternamente tolta la volontà che qualcosa sia parola della cosa e del destino, (questo nella verità dell’Essere)il toglimento della contraddizione, che proviene dalla volontà che isola la terra ed evoca la parola, è l’eterno apparire infinito del “significato puro” che già da sempre oltrepassa eterno la parola, anche la contraddizione e dunque la parola sono eterne ma sono eterne come oltrepassate, il dolore è un modo della contraddizione e anche tutto ciò che la volontà vuole, anche l’uomo dunque. Proprio perché il significato oltrepassa originariamente la parola la volontà isolante può dargli la parola, per dargliela, per volere che esso sia nella parola deve vederlo, la volontà che avvolge il significato nella parola appartiene solo all’isolamento o appartiene anche al destino della verità in quanto apparire finito del tutto? In quanto apparire finito del tutto il destino di ciò il cui apparire è necessariamente richiesto dall’apparire della terra isolata (È la contraddizione C: l’apparire del Tutto avviene in concreto e in astratto, in concreto abbiamo soltanto i singoli elementi che appaiono, in astratto invece è il Tutto che comprende quegli elementi che appaiono, quelli che sono scomparsi e quelli che appariranno, ora la sua soluzione diceva quando parlava di Łukasiewicz, sta nel fatto che questa contraddizione cesserà, per così dire all’infinito, cioè quando saranno tutti apparsi i vari essenti, allora il Tutto concreto coinciderà con il tutto astratto) e quindi sta qui dinnanzi manifesto anche quando il linguaggio lo ignora, il significato oltrepassa cioè la parola non solo in quanto esso è il significato in cui consiste il toglimento della totalità della contraddizione, il toglimento che già da sempre è presente nell’apparire infinito del Tutto (toglimento che è presente all’infinito, ciò di cui parlavo prima, quando tutti gli essenti saranno apparsi nel concreto)il toglimento che già da sempre è presente nell’apparire infinito del Tutto, la forma infinita del destino della verità ma anche in quanto è il destino come apparire finito del Tutto non testimoniato dal linguaggio esso ne è “l’inconscio”, come apparire infinito del tutto esso non (dice che è l’inconscio immaginando quello che diceva Freud, che l’inconscio deve diventare conscio “Wo es war, soll ich werden” dov’era l’Es occorre che Io avvenga”) appare nel cerchio dell’apparire che appartiene al destino in quanto apparire finito del tutto e tuttavia come toglimento della sua contraddizione del finito l’infinito è ciò che infinito in verità è, (quando all’infinito tutti gli essenti appariranno concretamente allora si eliminerà la contraddizione C. Quindi dice che c’è qualche cosa oltre la parola, oltre il linguaggio, questo qualche cosa che è oltre il linguaggio è questa sua idea dell’infinito astratto, che è quello che elimina ogni contraddizione, il suo obiettivo è trovare quella cosa dove non c’è più contraddizione, come diceva Wittgenstein da qualche parte “potremo un giorno liberarci dalle contraddizioni”, e quindi ponendo il destino della necessità come qualcosa che è oltre il linguaggio dice che il linguaggio può arrivare solo fino a un certo punto ma non potrà mai eliminare la contraddizione C, perché il linguaggio non può fare apparire tutti gli essenti se non nell’immediato.