15-7-97
I topici di Aristotele
Un altro schema sta nel costituire i
discorsi definitori dell’accidente e dell’oggetto cui è riferito l’accidente -
o di entrambi presi singolarmente, o di uno dei due - e nel considerare in
seguito se qualcosa, che risulta non vero dai discorsi, sia stato assunto come
vero. Quando ad esempio si afferma che è possibile fare ingiustizia ad un dio,
occorrerà domandare: che cos’è il fare ingiustizia? Se quest’ultima nozione
significa il danneggiare in modo volontario, è evidentemente impossibile che ad
un dio sia fatta ingiustizia: in effetti non è possibile che il dio sia
danneggiato. Così pure se si sostiene che l’uomo eccellente è invidioso
occorrerà domandare: chi è l’invidioso? E che cos’è l’invidia? Nel caso infatti
che l’invidia sia una pena causata dall’evidente benessere di una persona
capace e fortunata, sarà chiaro che l’uomo eccellente non è invidioso:
altrimenti sarebbe di poco valore. Del pari, quando si afferma che chi ha
tendenza ad indignarsi è invidioso, occorrerà domandare: chi è l’uno e chi è
l’altro. Sapendo questo risulterà invero chiaramente se quanto si è detto sia
vero oppure falso.-
Poco più sotto:
- inoltre se alcunché si dice in più
sensi, e d’altro canto è posto come appartenente o non appartenente ad un
oggetto, si condurrà la prova rispetto ad uno dei due significati, quando non
sia possibile farlo per entrambi. Ci si deve per altro servire di questo schema
per i casi in cui l’ambiguità è ignorata: se infatti non sfuggono i diversi
significati, l’interlocutore obietterà che non sta discutendo sulla nozione
rispetto a cui già egli stesso era in dubbio, bensì sull’altra. Questo schema
poi può convertirsi da costruttivo in distruttivo. Volendo in vero consolidare
un’affermazione, proveremo che quanto si dice appartiene in uno dei due
significati all’oggetto, se non siamo in grado di provarlo per entrambi;
volendo invece demolirla, mostreremo che non appartiene in uno dei due
significati, se non siamo capaci di mostrarlo per entrambi. Occorre tuttavia
distinguere. Chi demolisce non deve affatto discutere partendo da una
concessione dell’avversario, sia che qualcosa si dica appartenere ad ogni
oggetto, sia che si dica appartenere a nessuno: se infatti mostreremo che non
appartiene ad un qualsiasi oggetto, avremo demolito l’affermazione che
appartiene ad ogni oggetto, e similmente, se mostreremo che appartiene ad uno
solo, demoliremo l’affermazione, che appartiene a nessuno. Per contro chi
consolida, deve concordare in anticipo con l’avversario, che la determinazione
appartenga ad ogni oggetto, se appartiene ad uno qualsiasi, ammesso che tale
presupposto sia persuasivo.-
- Se d’altra parte la pluralità di
significati non è ignorata, si può tanto demolire, quanto consolidare, dopo che
sono stati distinti tutti i sensi in cui si dice alcunché. Se ad esempio ciò
che conviene è l’utile oppure il bello, occorrerà tentare di consolidare o di
demolire il riferimento di entrambe queste determinazioni all’oggetto onde si
tratta, mostrando in particolare che esso è bello e utile, oppure che non è né
bello, né utile. Quando poi non sia possibile fornire la prova per entrambi i
significati, bisogna fornirla per uno di essi, aggiungendo come chiarimento che
la cosa vale per l’uno e non per l’altro.-
Intanto occorre dire questo, le cose che abbiamo cominciato a leggere sono indicazioni su come generalmente occorra ragionare, ragionare nel caso che ci si trovi di fronte un avversario che sostiene una tesi contraria oppure nel caso in cui si voglia consolidare, provare una propria tesi. La questione su cui Aristotele punta l’attenzione, ed è di notevole interesse, è che c’è l’eventualità che un unico elemento abbia più significati, e allora lui racconta che se dovete difendere una vostra tesi allora ovviamente utilizzerete questo elemento prendendo da questo elemento i significati che fanno comodo alla vostra prova, ignorando tutti gli altri. Il contrario farà il vostro avversario il quale si avvarrà di tutti i significati utili alla sua tesi e dannosi per voi. Ma tutto questo perché ha qualche interesse? Quante sono le parole, i termini, i significanti se volete più precisamente, ai quali è possibile attribuire molti significati? Supponiamo che siano molti questi significanti a cui è possibile attribuire molti significati, allora in questo caso, o meglio in ciascuno di questi casi in cui è possibile attribuire molti significati, sarà possibile in ugual misura e in egual titolo, sia a chi sostiene la tesi e sia a chi la confuta, provare le proprie tesi, sarà altrettanto facile, basta semplicemente mutare l’accezione, il significato di un certo significante. Allora si giunge alla conclusione per cui è assolutamente necessario definire un significato, il significato di quel certo significante, se questo potesse darsi allora finalmente ci si intenderebbe alla perfezione. Ora avviene che questo tentativo sia stato messo in atto da molti anche molto recentemente, linguisti, logici, era anche in parte il sogno di Leibniz, poi ripreso da molti, non ultimi anche Frege e Russell, trovare un sistema tale per cui sia possibile definire un oggetto, non importa in quale modo, l’importante è che si giunga a questa definizione. Questi tentativi sono falliti, sono falliti mostrando la difficoltà estrema nel definire un oggetto. È come se l’oggetto, finché non si cerca di definirlo, sia assolutamente chiaro, preciso ed evidente, nel momento in cui si incomincia a definirlo ecco che mano a mano si sposta, è sempre un passo oltre, incomincia a sfuggire alla presa. L’oggetto può essere qualunque cosa ovviamente, dunque apparentemente ci si può facilmente avvalere della molteplicità dei significati che è possibile attribuire a un qualunque significante. Abbiamo fatto l’ipotesi che siano molti i significanti a cui è possibile attribuire molti significati, proviamo a supporre che siano tutti i significanti, e cioè a ciascun significante sia possibile attribuire un numero di significati pressoché infinito. Ma è possibile, e in che senso? Naturalmente in questa ricerca occorre attenersi con il massimo rigore possibile a dei criteri che siano il più possibile assoluti, così come moltissimi hanno cercato di fare, e in effetti coloro che più si sono attenuti a questo criterio sono esattamente quelli che si sono accorti, hanno costatato l’impossibilità di giungere ad una conclusione di questa ricerca. Come dire in altri termini che per definire un oggetto occorre restringere il campo, e può restringersi in vario modo a seconda del criterio che viene utilizzato per compiere questa operazione. Può restringersi avvalendosi dell’uso, di un criterio filologico, di un criterio storico, di un criterio strutturale, ciascuno poi sceglie quello che gli pare più opportuno, ma rimane che in ciascuno di questi casi la scelta di tale criterio, qualunque esso sia, rimane arbitraria non potendosi stabilire un criterio definitivo. L’arbitrarietà del criterio di cui ci si avvale per stabilire il significato dell’oggetto porta con sé una serie di problemi dal momento che inesorabilmente prima o poi si troverà di fronte alla necessità di dovere dimostrare l’assoluta validità del criterio utilizzato per giungere alla conclusione cui si è giunti, e a quel punto le cose diventano molto difficili a proseguirsi e rimane come conclusione più o meno legittima l’affermazione che dice che si è scelto quel criterio perché piace di più, tutto sommato è un criterio come un altro, non è peggiore di qualunque altro. La questione del significato di cui parla Aristotele è di importanza capitale per tutto il discorso occidentale, e chi si è avventurato a cercare quale fosse mai il significato del significato si è trovato abbastanza rapidamente nella mala parata che è quella che già gli antichi avevano individuata, e cioè di fronte ad una sorta di regressio ad infinitum, oppure a una petizione di principio che possiamo riassumere in una proposizione che afferma che una cosa è così perché è così, e belle fatto. Se per esempio leggete uno degli scritti più recenti e più accreditati su questa questione che appunto porta come titolo “Il significato del significato” di tali Ogden e Richards, vi trovate a considerare come tutto il discorso occidentale ruoti intorno a questa nozione, ruoti intorno a questa nozione al pari di altre nozioni, come la verità, come il bene, tutti aspetti della stessa questione. Occorre precisare un aspetto che è questo: ciascuno parlando, dicendo qualunque cosa voglia dire, difficilmente riflette mentre parla su quale sia il significato degli elementi che intervengono nel suo discorso, anzi non lo fa, se lo facesse il suo discorso prenderebbe una piega difficile a proseguirsi perché si fermerebbe ad ogni istante e invece non avviene. Se questo per un verso consente al discorso di proseguire con una certa rapidità d’altra parte mostra però una difficoltà nel momento in cui ciascuno è chiamato da altri o da sé stesso a dare un significato a ciò che sta utilizzando il suo discorso; ecco che a quel punto le cose che stava dicendo con assoluta tranquillità rapidità e sicurezza diventano improvvisamente infide, instabili e sfuggevoli al punto che non sa più esattamente che cosa stava dicendo. Una cosa che ciascuno può riscontrare molto agevolmente, così come può riscontrare molto facilmente che se incomincia a chiedersi quale sia il significato di un termine si trova in una cascata inarrestabile. In effetti ciò che Hjelmslev trova, inseguendo anche lui una sorta di metalinguaggio è qualcosa di molto prossimo, nel tentativo di cercare una semiotica definitiva che potesse consentire al metalinguaggio di stabilire un criterio unico per potere avvalersi in un modo preciso del linguaggio, ciò che incontra è una cascata di semiotiche, cioè una proliferazione infinita. Dico i linguisti perché forse più di altri si sono trovati di fronte a questo problema, ma non soltanto loro. Dunque ancora il significato, potremmo porre così la questione: che cosa significa il significato? Avvertite immediatamente la difficoltà di potere rispondere a questa domanda perché presi immediatamente in una sorta di rinvio infinito. È possibile arrestare questo rinvio? Sì, è possibile semplicemente arrestandolo, ma a quale punto? Quello che ritenete più opportuno, uno vale l’altro, Uno vale l’altro nel senso che ciascuno di questi punti in cui vi fermate è altrettanto legittimo di qualunque altro. Lo stesso Tommaso per avvalorare le sue famose cinque vie dice, con un certo fastidio, che non è possibile andare a ritroso all’infinito, bisognerà pure arrestarsi da qualche parte. Ma perché esattamente? Perché è necessario arrestarsi da qualche parte? La prima cosa che può dirsi è che se questo non si facesse non sarebbe possibile costruire nessun discorso che abbia la prerogativa di dover essere creduto, cioè nessun discorso potrebbe essere posto come l’unico, quello vero o quello assoluto, perché qualunque altro discorso varrebbe allo stesso modo. Potrebbe apparire in effetti un discorso ozioso questo del significato del significato, tuttavia rispetto a quanto andiamo dicendo invece è una questione fondamentale, per quanto andiamo costruendo mano a mano questa questione diventa di straordinaria importanza perché rapidamente ci troviamo di fronte a questo bivio: o è possibile stabilire un significato in modo definitivo oppure qualunque significato può essere utilizzato ma non a migliore diritto di qualunque altro, e dunque non può essere imposto come il discorso vero, assoluto, quello necessario, in nessun modo. Questione non marginale se considerate che ciascuno di voi parlando utilizza dei significati, a seconda dei casi, a seconda delle circostanze, ma provate a considerare questi significati che mano a mano utilizzate come figure retoriche, cioè in definitiva dei modi di dire, allora affermare che una certa cosa è una certa altra, vale come una figura retorica, non ha né può avere alcuna pretesa di validità universale, né di unicità. Cosa comporta una cosa del genere, cioè il considerare una definizione come una figura retorica? Che ciò che si va definendo rimane inesorabilmente un elemento linguistico, né potrebbe essere altrimenti, e allora effettivamente di fronte a una domanda che chiede che cosa sia la verità io posso rispondere che è ciò che io voglio che sia, o che credo che sia o qualunque altra cosa. La verità come qualunque altro significante ovviamente. Muoversi in questi termini ha un effetto immediatamente che è quello di allontanarsi da qualunque struttura religiosa, e indichiamo con struttura religiosa qualunque struttura di discorso che per qualunque motivo e a qualunque titolo affermi che una certa proposizione è necessariamente vera. Voi sapete che qualunque discorso religioso si fonda sulla verità, che non necessariamente afferma (indico con discorso religioso qualcosa di molto ampio, tutto il discorso occidentale per esempio) una verità, ma afferma la necessità dell’esistenza in una verità, perché se non affermasse questo e cioè che una verità è necessaria allora seguirebbe inesorabilmente la caduta di qualunque discorso che voglia porsi come scientifico, filosofico che debba mostrare una qualche validità. Qualunque discorso si porrebbe come una sorta di favola, o nella migliore delle ipotesi di opinione, come dire: a me pare che sia così. Va bene, perché no? Può parergli in qualunque modo, non c’è nulla di male...ma leggiamo qualche altra proposizione perché procede lungo questa linea:
- inoltre, chiunque dica una qualsiasi cosa, ha già detto in un certo
modo molte, poiché da ogni oggetto conseguono necessariamente parecchie
nozioni; ad esempio, chi dice che qualcosa è un uomo, ha già detto che è un
animale, che è vivente, che è bipede, che può accogliere intuizione e scienza.
Per tale motivo, una volta demolita una sola delle proposizioni conseguenti,
qualunque essa sia, risulta demolita altresì la proposizione iniziale-
Questo è un altro degli artifici, chiamiamoli così provvisoriamente, che
lui suggerisce, e ancora:
Poiché inoltre gli oggetti possono
rivivere o necessariamente, o perlopiù, o casualmente una determinazione,
allora, se uno pone il riferimento necessario come un riferimento che si
verifica perlopiù, oppure il riferimento che si verifica perlopiù - in sé o in
forma contraria - come un riferimento necessario, offrirà in ogni caso lo
spunto di un attacco. In effetti, se uno pone il riferimento necessario come un
riferimento che si verifica perlopiù, evidentemente asserisce che la
determinazione non appartiene a tutti gli oggetti, quando invece appartiene a
tutti, e di conseguenza sbaglia; così pure sbaglia, quando gli oggetti,
determinati perlopiù in un certo modo sono detti da lui determinati
necessariamente: egli infatti afferma che la determinazione appartiene a tutti
gli oggetti, mentre essa non appartiene a tutti.
Qui riprende la questione del significato in termini forse più precisi, dal
momento che potremmo anche intendere con significato ciò che necessariamente
appartiene ad un oggetto, tutto ciò che necessariamente appartiene ad un
oggetto costituisce l’insieme, si direbbe oggi, l’insieme di quegli elementi
che sono il suo significato, la sua denotazione. Ora c’è sempre l’eventualità
che si possa mettere in dubbio che un elemento appartenga necessariamente ad un
oggetto o una proprietà appartenga necessariamente ad un oggetto, per cui se
voi affermate che una certa cosa è o appartiene ad una certa altra colui che
invece nega questa appartenenza potrà sempre provare quello che dice. Ed è qui,
come vedremo più in là quando leggeremo le Confutazioni
sofistiche che Aristotele, qui e anche altrove, mostra il fianco a delle
obiezioni legittime dal momento che, gli si potrebbe obiettare, quando un
elemento appartiene necessariamente all’oggetto, cioè quando è necessariamente
un suo significato? In che modo sarà stabilità questa necessità? Chi la
stabilirà e con quale criterio? Perché se questa non potrà essere stabilità
allora non potrà essere stabilito in nessun modo che una certa proprietà
appartenga ad un certo oggetto e non potendo compiere questa operazione non
potremo mai stabilire quale sia il significato di quell’oggetto, il quale
rimarrà sempre e necessariamente indefinibile. Questa è un’obiezione sofistica,
il problema, non tanto per Aristotele quanto per molti che hanno fatto seguito,
è che non è eliminabile questa obiezione, e non lo è perché fa appello a quello
stesso rigore cui fa appello Aristotele per giungere alle le sue conclusioni e
cioè si appella a quella stessa necessità, potremmo dire grammaticale, di cui
si avvale Aristotele, e molti con lui, per giungere alle conclusioni cui giunge
e allora questo rigore si persegue assolutamente oppure arbitrariamente. Allora
torniamo alla questione di prima e cioè che una certa cosa è ciò che a noi
piace che sia, e tanto basta. A partire da queste e da altre considerazioni si
può leggere il testo di Aristotele, non tanto per muovere delle obiezioni non è
questo che ci interessa, ma per intendere come il rigore teorico (e quindi
linguistico) se portato alle estreme conseguenze conduca a qualche cosa che
rigoroso non è affatto, e così tutte le affermazioni più rigorose muovono da
una proposizione o da una serie di proposizioni che risultano assolutamente
arbitrarie. Ora abbiamo detto in varie occasioni che queste riflessioni ci
hanno condotti a muovere da una proposizione che risultasse non arbitraria,
almeno una, ma non arbitraria in quale senso? Nel senso più semplice possibile,
e cioè che non potesse negarsi in nessun modo. Ecco perché abbiamo inventato
questa proposizione che afferma che gli umani in quanto parlanti parlano. Con
tutto ciò che ne segue, per esempio che non c’è uscita dal linguaggio.
Affermare qualcosa che non può essere negato salvo negare la possibilità stessa
di negare alcunché, abbiamo detto in varie circostanze. Molti secoli dopo che
Aristotele aveva trovata questa proliferazione di significati altri dopo di lui
hanno costatato che questa proliferazione di significati segue necessariamente
all’esistenza della parola, in questo senso: che se ciascun elemento è
necessariamente un elemento linguistico allora questo elemento linguistico è
tale in quanto è inserito in una struttura, cioè non esiste da solo, non è
isolabile, se lo fosse sarebbe fuori dalla parola, non essendo isolabile è
connesso necessariamente con altri elementi, questi altri elementi, potremmo
dire così sono il suo significato. Quanti sono? Infiniti. Assolutamente
infiniti. E allora, ad esempio, per fare questa considerazione che abbiamo
fatta mi sono avvalso di regole, di inferenze. Queste regole non hanno nessun
valore fuori dal linguaggio in cui sono utilizzate, per questo non stabiliscono
come stanno le cose. È possibile compiere una deduzione più inesorabile e più
inattaccabile? Ma rimarrà sempre una proposizione. Potremmo dire questo: che
fuori dal linguaggio, quindi dalla combinatoria in cui è inserita, questa
proposizione è nulla, è assolutamente nulla. Come sapete la logica così anche
com’è comunemente intesa ha un forte potere costrittivo, convince più che
persuadere. Da dove viene questo potere costrittivo? Dal fatto che procedendo
lungo una serie di inferenze, preferibilmente deduzioni, si giunge a qualche
cosa che si considera che sia il significato di un oggetto e quindi si suppone
di avere definito e cioè detto che cosa quell’oggetto necessariamente è e non
può non essere. Dicendo ciò che necessariamente è si allude, e questo per un
vizio di pensiero, si allude a qualche cosa che è fuori dalla parola, che
necessariamente è anziché vincolato al linguaggio che è piuttosto semovente,
piuttosto instabile, piuttosto sfuggente. Ciò che non può non essere occorre
che sia piuttosto stabile. Sentiamo intanto se ci sono delle questioni?
- Intervento:…
Prendete per esempio un itinerario analitico, ha un aspetto, un andamento
molto simile e cioè ciascuno si trova a dire delle cose alle quali immagina
corrisponda un significato. Il lavoro analitico consiste in buona parte nel
mostrare la vanità di questa illusione, e cioè che questi elementi che
intervengono nel discorso abbiano necessariamente un significato da qualche
parte, inteso anche talvolta come referente, per cui se dico questo allora
quello che dico corrisponde a quella certa cosa. Che è senz’altro una
illusione, ma su una illusione in moltissimi casi viene costruita la propria
vita, le proprie certezze, le proprie opinioni, le cose in cui si crede e in
definitiva tutto ciò rispetto a cui ci si muove, si agisce. Ecco perché non è
questione marginale questa del significato, potrebbe apparire una questione
abbastanza astratta forse, ma ha implicazioni straordinariamente pratiche,
rispetto al quotidiano...
- Intervento: la funzione della ricerca
del significato
In effetti dio è stato posto come il significato ultimo delle cose, primo e
ultimo. Sì per questo parlavo di struttura del discorso religioso, perché il
significato, se posto in questi termini, è chiaramente dio, solo lui è il
significato quello vero quello autentico, quello definitivo. Per esempio anche
nel discorso scientifico o almeno in alcuni aspetti, fra quelli più accreditati
ultimamente come il discorso di Popper, abbiamo detto in varie circostanze, è
un discorso fortemente religioso, nel senso che insinua la necessità
dell’esistenza di una verità assoluta rispetto alla quale commisurare la verità
di proposizioni scientifiche, le quali non potrebbero essere né falsificabili
né verificabili se non ci fosse un qualche cosa rispetto al quale sono
falsificabili... e quindi giunge in definitiva a dire che la verità non si trova,
però c’è’ sempre un continuo aggiustamento, un andare verso la verità, ma se
non la ipostatizza come fa a sapere che ci sta andando, anziché andare nella
direzione opposta e cosa distingue questa nozione di verità che avanza Popper
dalla nozione di dio? Andare verso dio o andare verso la verità? È sempre un
itinerario dall’anima a dio. Ecco potremmo dire che il discorso occidentale
così come è strutturato è propriamente l’itinerario dell’anima a dio, con tutti
gli annessi e connessi…
- Intervento: la ricerca del significato, così come si
pone nell’itinerario analitico è sempre la ricerca di una proposizione che persuada se stessi…..
La metafisica compie uno sforzo enorme in questa direzione ed è notevole,
occorre leggere molto di metafisica, proprio perché ha tentato l’impossibile,
compiendo questa operazione ha mostrato le difficoltà e ha mostrato anche come
compiere una ricerca. Ad un certo punto si appella a qualche cosa di
extralinguistico, necessariamente, non potrebbe fare altrimenti, però questo appello
non è certamente meno interessante di appelli ad altre cose, ritenute oggi non
metafisiche, potremmo leggere quel breve scritto di Heidegger sulla verità che
si chiama L’essenza della verità,
potremmo leggerne alcuni brani perché si trova la sua elaborazione a dover
necessariamente accogliere dei luoghi comuni del discorso occidentale per
potere andare avanti, se no non ce la fa. Può essere interessante da leggere,
da confutare, perché no?
- Intervento: su Vattimo
La questione dell’interpretazione. Sono tutti i vari aspetti forse di una
questione che riguarda appunto il discorso occidentale, come sai
dell’interpretazione si sono date molte definizioni e molte di più se ne
possono dare e a seconda della definizione che si fornisce di interpretazione
allora darai una certa interpretazione. Oppure possiamo stabilire, provare che
non c’è una proposizione che non sia interpretazione e allo stesso modo,
provare in modo assolutamente ineluttabile che l’interpretazione qualunque
definizione si dia a questo significante, è assolutamente impossibile, non c’è
modo che nulla sia interpretazione. Ma questo è possibile perché, già
Aristotele rilevava, molti significati possono attribuirsi e questo attributo o
più propriamente potremmo dire che l’interpretazione in quanto accidente può
essere, può essere posta nel modo in cui pare più opportuno, quindi essere
provata come necessaria o come impossibile, è a questo punto che può diventare
così bizzarro parlare di interpretazione, perché a questo punto che cosa intendi
con interpretazione? La definizione di interpretazione al pari di infinite
altre cose diventa una figura retorica, un modo di dire. Cioè con
interpretazione intendo questo e quindi questa è una interpretazione, va bene
certo! Però quale senso potrebbe avere una, a questo punto, una dottrina
dell’interpretazione? Nessuno, assolutamente nessuno, e questo è un intoppo non
da poco rispetto a tutto ciò che si è pensato negli ultimi 2500 anni, prima non
saprei..., anche perché sono anziano ma non a sufficienza da ricordare.
- Intervento: tra una parola e un’altra
c’è il vuoto
Se lei chiacchiera così non capiremmo, ma anche in moltissime altre
circostanze non capiremmo, anche se Lei parlasse in birmano, chi fra i presenti
conosce il birmano?...anche noi potremmo registrarla e riprodurla a velocità
più bassa, ma qual è la questione?
- Intervento: ci vuole un tempo nella comunicazione, molte volte non si produce niente e nel momento in cui non si produce niente forse esce qualche cosa.
Quindi qualcosa si produce!
- Intervento: Sì se però siamo ingombrati dalle parole..
Sì, la dottrina Zen non è un granché ricordo sempre quella favoletta del
tizio che voleva apprendere lo Zen, va dal maestro e dice che intende acquisire
questa dottrina, l’altro acconsente, lo fa accomodare e gli serve del tè una
tazza, prende la teiera e versa il tè, versa, versa, versa, rapidamente la
tazza raggiunge il colmo e comincia traboccare, quell’altro dice: si fermi,
guardi che sta rovesciando tutto per terra.. ecco- dice il maestro- la sua mente
è come questa tazza colma, non può più recepire niente, bisogna svuotarla
prima, e allora poi.…
Però questa dottrina un po’ idraulica, è molto discutibile, perché dovrebbe
essere così, chi ha detto una cosa del genere? È un’opinione che occorra
togliere delle cose per potere mettercene delle altre, e perché invece non
aggiungerne all’infinito per esempio, anche questo si può sostenere anche
perché si può obiettare il pensiero non è una tazzina di tè, non hanno nulla in
comune…
- Intervento:…
C’è questa eventualità, che sia anche questo, ma perché possa esserlo
occorre che possa dirlo che ci sia, che possa cioè affermarne l’esistenza, in
caso contrario non è che possiamo dire che il corpo c’è o che non c’è, è che la questione non può porsi in alcun
modo, non potendosi porre questa questione non ha nessun senso, non esiste.
Cosa c’è fuori dalla parola? Nulla..
- Intervento: E cos’è la parola?
La parola è ciò che ci consente di chiederci che cos’è la parola...
- Intervento: dopo che ce lo siamo
chiesti?
Dopo che ce lo siamo chiesti ci troviamo di fronte ad una infinità di altri
elementi che sono quelli attraverso cui ciascuno esperisce ciò che lo circonda,
per cui stabilisce che questo è un corpo, che io esisto, che la signora di
fronte esiste, che le cose sono in un certo modo e che quindi devo fare in
questo altro modo. Perché se non esistesse, non si desse questa struttura che
ci consente di chiederci per esempio se esiste soltanto la parola, allora la
questione non potrebbe porsi in nessun modo, né questa né nessun altra..
- Intervento: lei ha la cravatta…
Non Le sfugge nulla. Sono nel linguaggio indubbiamente e non c’è dubbio che
alcuni atteggiamenti, alcune condotte abbiano una funzione segnica, se uno per
esempio si recasse ad un’assemblea del parlamento in mutande, quel gesto
verrebbe sicuramente preso come un segno di spregio nei confronti delle
istituzioni, adesso ho detto un caso limite, ma ci sono infinite altre cose.
C’è un uso che viene fatto di alcune convenzioni a cui in alcuni casi ci si
attiene, in altri no, ma tutto questo è molto al di qua della questione, nel
senso che possiamo domandarci a quali condizioni una qualunque cosa è un segno,
o più propriamente che cos’è un segno. E allora ciò che non possiamo non dire è
che è un rinvio, oltre a essere qualcosa che rappresenta qualcosa per qualcuno, ma è necessariamente
un rinvio. Lei chiede perché all’interno di una certa società, di un certo
ambiente si utilizzino certi segni, è possibile discutere anche intorno a
questo ma forse…
- Intervento: voglio dire oltre il
linguaggio ci sono altri modi per comunicare.
Questi modi non sono fuori dal linguaggio, hanno nel linguaggio la loro
condizione, se non esistesse il linguaggio non sarebbero niente…
- Intervento: se fossimo muti?
Sarebbe seccante. Vede il problema che si incontra nel punto in cui si
inizia o ci si trova nel linguaggio è che non è più possibile uscirne e questo
comporta che non è più possibile pensare come se il linguaggio non ci fosse,
cosa vuol dire questo? Vuol dire che qualunque considerazione che farà, questa
terrà conto della struttura che le consente di fare questa considerazione, è
l’obiezione che talvolta viene portata: gli animali non parlano eppure… eppure
cosa? Io attribuisco all’animale o a qualunque altra cosa o persona le mie
considerazioni, io dico che quella certa cosa o persona soffre, io dico ciò che
pensa, io. E soltanto nell’ambito della struttura in cui mi trovo che questi
lessemi, cioè queste parole sono qualcosa, se no non sono niente (lessemi:
minima unità dotata di senso)
- Intervento:…
Sì questa è una definizione possibile, però forse è possibile attenersi ad
una ancora più ampia, possiamo dire che è tutto ciò che ci consente di porci
queste questioni, e così non andiamo ad impegolarci in questioni
complicatissime oltreché irrisolvibili.
- Intervento:…
Non ho detto chi non parla, ho detto chi non è nel linguaggio, che è
diverso. Comunque per rispondere alla sua domanda parafrasando Aristotele
dovrei chiederle che cosa è un uomo per Lei e a questo punto se Lei dà una
definizione di uomo e se noi accogliamo questa definizione allora confrontiamo
quest’altra proposizione se si attaglia, allora possiamo sapere se è uomo
oppure no. Però chiedere se un muto è un uomo oppure no, non ha nessun senso.
Quello che intendevo dire prima è che trovandosi nel linguaggio non è possibile
né immaginabile pensare come mettiamo tra virgolette “pensa chi o cosa non è
nel linguaggio, perché non ha gli strumenti per farlo, perché comunque penserà
in un certo modo e questo modo non potrà non tenere conto della struttura che è
la condizione del suo pensiero, non c’è uscita una volta che si è entrati, non
c’è modo di venirne fuori e se non si entra allora non c’è modo di pensare in
quest’altro modo
- Intervento: leggevo “Donne che si fanno male”..
E perché? Potremmo dire di più, che è impossibile verbalizzare qualunque esperienza, nel senso che tutto ciò che se ne racconta sarà qualcosa che non è certamente quell’esperienza, è un racconto, è una cosa che si aggiunge ma non descrive questo oggetto che si chiama esperienza, il quale in quanto oggetto rimane indefinibile, indelimitabile, poi la questione si può fare più complessa, però ci fermiamo qui, è tardissimo, buona notte a tutti.