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15 giugno 2022

 

Logos in Saggi e discorsi di M. Heidegger.

 

In questo scritto Heidegger considera il Logos a partire da un frammento di Eraclito. Pag. 141. Lungo è il cammino più necessario del nostro pensiero. Esso conduce verso quel semplice che rimane da-pensare sotto il nome di λόγος. Per ora ci sono solo pochi segni che ci indicano il cammino. Ciò che segue, meditando liberamente lungo il filo conduttore di una sentenza di Eraclito (B 50), tenta di fare alcuni passi su questa via. Forse essi ci condurranno più vicini al luogo in cui, almeno, questa sentenza unica ci parlerà in maniera più interrogativa e capace di interrogazione:… Questo è in fondo ciò che ha sempre cercato Heidegger negli antichi: che cosa ancora ci sta interrogando in quelle parole. “Se non me, ma il Senso, avete inteso, / Allora è saggio dire nello stesso senso: Tutto è uno” (Snell). Su questa traduzione occorrerebbe riflettere perché Eraclito dice ούχ (non) έμοῡ (me) άλλά (ma) τοῡ Λόγου. Perché qui traduce Λόγου con Senso? Non sono sicurissimo che sia la traduzione più interessante. Λόγου è il linguaggio, quindi, verrebbe quasi da pensare di tradurre così: Se non me il linguaggio avete inteso, cioè, il linguaggio che parla in ciò che io dico, allora è saggio dire nello stesso senso: Tutto è uno”. Questa traduzione non è proprio letterale ma è quella che mi risulta più interessante, cioè, Se non me ma avete inteso il linguaggio che parla in ciò che dico, ecco che allora vi rendete conto che Tutto è uno. La sentenza parla di άκούειν, udire e aver udito, di όμολογείν, cioè di dire la stessa cosa, del λόγος, del detto e del Dire originario, dell’έγώ, del pensatore stesso, del pensatore in quanto λέγων, parlante. /…/ “Εν Πάντα, Tutto è uno. La questione qui ci rimanda ovviamente alla relazione tutto-uno: l’uno e il tutto, l’uno e i molti. A partire dall’antichità, il Λόγος di Eraclito è stato interpretato in diverse maniere: come ratio, come verbum, come legge del mondo, come ciò che è logico e costituisce la necessità del pensiero, come il senso, come la ragione. Sempre di nuovo si fa sentire un richiamo alla ragione come misura direttiva del fare e non fare. Tuttavia, che cosa può la ragione se si mantiene insieme con la non-ragione e con l’antiragione sullo stesso piano di una medesima dimenticanza, che trascura di riflettere alla provenienza essenziale della ragione e di impegnarsi in questo suo venire a noi? È inutile parlare di ragione se non ci interroghiamo da dove viene questa ragione, e quali sono le condizioni della sua esistenza. Che cosa può fare la logica, di qualunque specie essa sia, se noi non cominciamo mai a prestare attenzione al Λόγος e a seguire la sua essenza principale? Di nuovo: che cosa ce ne facciamo della logica se prima non la interroghiamo? Ciò che sia il λόγος lo possiamo desumere dal λέγειν, che significa λέγειν? Chiunque conosca la lingua greca sa che λέγειν significa “dire” e “parlare”; λόγος significa: λέγειν come “enunciare” e λεγόμενον come “ciò che è enunciato”. Chi può negare che nella lingua dei greci, fin dalle origini, λέγειν significhi dire, parlare, narrare? Però, in un tempo ugualmente antico e in modo ancor più originario, e quindi già sempre e perciò anche nel significato ora menzionato, λέγειν significa anche ciò che è espresso nella analoga parola tedesca “legen”: posare, metter dinnanzi. In questo si fa sentire il senso di “riunire”, “mettere insieme”, il latino legere nel senso in cui il tedesco lesen significa andare a prendere, raccogliere. Qui incomincia a porre la questione rispetto al λέγειν, cioè il posare. Ma il posare è il dire, che mentre dice posa qualcosa. Che cosa posa il λέγειν? Posa il τί. Non parla del λέγειν τί, ma avrebbe dovuto farlo, perché è proprio la questione di cui si tratta: si pone nel λέγειν, nel dire, ciò che il dire dice, è questo che si pone. Lo dice tra le righe, più avanti, ma senza porlo in modo deciso. A pag. 142. Come giunge il senso proprio di λέγειν, che è legen, “posare”, a significare “dire” e “discorrere”? Fa l’esempio del raccogliere insieme, raccogliere l’uva, raccogliere il grano, che occorre raccogliere e conservare, in modo che rimanga lì. A pag. 143. Il raccogliere che così proponiamo di pensare – tuttavia – non si colloca affatto accanto al “posare”. E neppure soltanto lo accompagna. Invece, il raccogliere è già inserito nel posare. Quando poso qualcosa, quando il λέγειν dice qualcosa, questo qualcosa è già raccolto, è già un tutto. Ogni raccogliere è già posare. Ogni posare è di per se stesso raccogliere. Che significa, infatti, posare? Il posare mette a giacere, in quanto lascia che qualcosa stia insieme dinnanzi. Troppo spesso siamo inclini a intendere questo “lasciare” nel senso in cui si dice “lasciar andare”, “lasciar correre”. Allora “posare”, “mettere a giacere”, “lasciar stare” viene a significare: non preoccuparsi più di ciò che è stato “deposto” e che “sta davanti”, passare oltre. Ma λέγειν, posare, nel suo “lasciar-stare-insieme-dinnanzi” significa proprio che ciò che sta dinnanzi ci importa e per questo ci concerne. Al “posare” in quanto “lasciar-stare-insieme-dinnanzi” importa di ri-tenere quanto è “posto” come “stante dinnanzi”. /…/ Il “posare” che abbiamo ora da pensare, il λέγειν, ha in anticipo rinunciato alla pretesa – una pretesa che, anzi, non ha nemmeno mai conosciuto – di essere esso stesso a portare ciò che sta davanti nella posizione che questo occupa. Al “posare” come λέγειν importa unicamente di una cosa: lasciare ciò-che-di-per-sé-insieme-sta-dinnanzi, in quanto stante-dinnanzi, nella custodia in cui è stato deposto e permane. Qual è questa custodia? Ciò-che-insieme-sta-dinnanzi è introdotto nella disvelatezza, messo via, posato, depositato, cioè messo in serbo e al riparo, in essa. Al λέγειν, nel suo lasciar-stare-dinnanzi-raccolto, importa lo stare al sicuro, nella disvelatezza, di ciò che sta dinnanzi. Il κεῐσθαι, lo stare-dinnanzi-di-per-sé di ciò che è così depositato, dell’ύποκείμενον, non è nulla di meno e nulla di più elevato che il farsi-presente nella disvelatezza di ciò-che-sta-dinnanzi. In questo λέγειν dell’ύποκείμενον rimane incluso il λέγειν come raccogliere, riunire. Ora, può sembrare abbastanza complicato, ma in realtà è abbastanza semplice. Per renderlo appunto semplice utilizziamo i termini di de Saussure: significante e significato. Cos’è presente? Il significante, il suono, dicendo che è significante proprio perché questo λέγειν, questo dire, ha un τί, ha un significato. Ora, che cosa si disvela propriamente? Ciò che si disvela, in effetti, è proprio il λέγειν, il dire, perché fino a che non ha un qualche cosa che dice è niente, è nascosto, è nulla. È nel momento in cui interviene il τί che il λέγειν si disvela come λέγειν. Pensate a Hegel, all’in sé e per sé: anche l’in sé, finché non c’è il per sé per cui qualche cosa è quella che è, anche l’in sé è nulla, è come se fosse nascosto, velato, non c’è; c’è nel momento in cui il per sé torna sull’in sé. Ed è esattamente questo che Heidegger sta dicendo. Si disvela, perché prima era velato: il λέγειν senza il τί è velato, propriamente non c’è. Il detto famoso “la natura ama nascondersi” – qui la natura non c’entra niente naturalmente, la φύσις è la cosa o, addirittura, l’essere –, si nasconde perché fino a che non è in relazione con qualche cosa è nascosto, si disvela nel momento in cui il suo significato, il τί, ritorna sul λέγειν, e allora il significato ritorna sul significante per cui il significante è significante. È in questo senso che si disvela. A pag. 145. Giacché come raccogliente lasciar-stare-dinnanzi il dire riceve la sua essenza specifica a partire dalla disvelatezza di ciò-che-insieme-sta-dinnanzi. Il disvelamento del nascosto nella disvelatezza, però è la presenza stessa di ciò che è presente. Ciò che è presente è ciò che si disvela. Che cosa si disvela? Tornando ad usare i termini di de Saussure, si disvela il significante nel momento in cui c’è il significato, nel momento in cui è in relazione con il significato. È chiaro che non può esistere senza relazione; infatti, se non ci fosse questa relazione con il significato, il significante non esisterebbe in alcun modo. Il λόγος porta ciò che appare, ciò che si pro-duce nello star-dinnanzi, a mostrarsi da se stesso, a farsi vedere nella luce. Qui bisogna fare attenzione a questa questione, perché ciò che si produce a questo punto non è tanto il τί ma il λέγειν, che si produce nel momento in cui c’è il τί. Noi sappiamo che il τί non può non esserci e che solo allora si produce il λέγειν, che si produce il significante, cioè, il significante è quello che è, cioè, compare nella presenza, nel disvelamento: si disvela finalmente ed è quello che è. A pag. 146. All’opposto, sull’udire in senso autentico si può forse dire soltanto poco, che però tocca immediatamente ognuno. Ricordate che nel frammento si parla del sentire: se non me ma ciò che il λόγος dice, ecc. Qui non si tratta di fare delle ricerche, ma di riflettere con attenzione su qualcosa di semplice. Così, appartiene per l’appunto all’udire in senso autentico il fatto che l’uomo posa fraintendere in quanto non ode l’essenziale. Che cos’è l’essenziale che non ode l’uomo? La relazione tra il λέγειν e il τί, la simultaneità tra il λέγειν e il τί, è questo che non si ascolta mai. Se l’orecchio non ha immediatamente da fare con l’udire autentico nel senso dell’ascoltare, si dovrà dire che per ciò che riguarda l’udire e l’orecchio le cose stanno in una maniera peculiare. Noi non udiamo perché abbiamo orecchi. Noi abbiamo orecchi e possiamo essere fisicamente dotati di orecchi perché udiamo. È interessante questo modo di porre la questione: è perché udiamo, perché parliamo, che abbiamo orecchie, sennò non avremmo niente. I mortali odono il tuono del cielo, lo stormire del bosco, lo scorrere dell’acqua alla fontana, gli accordi dell’arpa, il rombo dei motori, i rumori della città, ma tutto ciò soltanto e solo nella misura in cui a tutto questo essi stessi, gli uomini, già appartengono o non appartengono. Siamo già nel mondo, cioè, siamo nel linguaggio: è questo che consente di accorgersi delle cose, è per questo che possiamo ascoltare, parlare; senza il linguaggio non ascoltiamo né vediamo niente. A pag. 147. Nel λέγειν come όμολογειν (dire lo stesso) dispiega il suo essere l’autentico udire. Questo udire è quindi un λέγειν, che lascia-star-dinnanzi ciò che già insieme-sta-dinnanzi e che è tale in virtù di un posare il quale concerne tutto ciò che di per sé sta-insieme-dinnanzi nel suo stare. Questo posare per eccellenza è quel λέγειν, nella cui forma accade il Λόγος. Sta dicendo che il λέγειν dispiega questo suo essere autentico soltanto quando il λέγειν lasciare stare dinnanzi, che cosa? In questo caso il τί, ciò che il dire dice: lo lascia stare dinnanzi. In tal modo il Λόγος è come il puro riunente raccogliente posare. Il λέγειν, il dire, posa, ma posando anche raccoglie, perché non è che posi qualche cosa che non ha fine, è anche così, ma il fatto di posarlo significa averlo già determinato: solo se lo determino posso posare qualche cosa, l’infinito non posso posarlo, se lo poso è perché è già determinato. Quindi, ecco perché dice subito dopo che In tal modo Λόγος è chiamato semplicemente ‘ο Λόγος… dove ‘o è l’articolo determinativo “il”. Ricordate τό αύτό, è lo stesso, solo che ο è maschile, τό è neutro. …il posare: il puro lasciar-stare-insieme-dinnanzi ciò che di per sé sta dinnanzi, nel suo stare. Che cosa sta dinnanzi al λέγειν se non il τί, inesorabilmente? Che cosa sta dinnanzi al dire se non ciò che il dire dice? È questo che gli sta dinnanzi. Il Λόγος è l’originario riunire della raccolta principale a partire dall’iniziale posare. ‘O Λόγος è il posare raccogliente e nient’altro. Il Λόγος non è altro che la relazione tra il λέγειν e il τί, è una relazione, cioè, qualcosa che posa e che mentre posa determina, raccoglie e l’uno e il tutto. Difatti, lo dirà tra poco, tra l’altro lo diceva già Eraclito: il Λόγος è uno e il tutto, il Λόγος è questa relazione indissolubile tra l’uno e i molti. Voi non udite affatto autenticamente fino a che i vostri orecchi rimangono attaccati soltanto al risuonare e al fluire di una voce umana per afferrare in essa una frase che faccia al caso vostro. Eraclito inizia la sua sentenza con un richiamo contro l’udire esercitato per il puro piacere dell’udito. Ma questo avvertimento si fonda su una indicazione che orienta verso l’udire autentico. Oύχ έμοῡ άλλά… non me dovete ascoltare (come fissandomi), ma… l’udire mortale deve rivolgersi verso altro. Verso che cosa? άλλά τοῡ Λόγου (verso il linguaggio). Il modo di essere dell’udire autentico si definisce in base al Λόγος. In altri termini, ci vuole il linguaggio per potere udire. Ma in quanto è nominato così puramente e semplicemente, il Λόγος non può essere inteso come una cosa qualunque fra le altre. L’udire adeguato ad esso non può quindi rivolgersi a lui in modo occasionale, per poi allontanarsene di nuovo. Se ci deve essere un udire autentico, bisogna che i mortali abbiano già sentito il Λόγος con un udito, il quale non è nulla di meno che questo: appartenere al Λόγος. Ogni cosa è già da sempre udita perché c’è la possibilità di udire, e c’è la possibilità di udire perché siamo esseri parlanti. “Se voi non a me (il parlante) avete semplicemente prestato orecchio, ma se vi mantenete in una appartenenza disposta all’ascolto, questo è autentico udire”. Questa è la traduzione di Heidegger della frase di Eraclito. E che accade, quando ciò si verifica? Cioè, quando dà retta al Λόγος. Allora si dà όμολογεῖν, che può essere ciò che è solo in quanto è un λέγειν. L’udire autentico appartiene al Λόγος. Perciò questo udire stesso è un λέγειν. In quanto tale, l’udire autentico dei mortali è in un certo senso lo stesso che il Λόγος. Tuttavia, appunto come όμολογεῖν, esso non è in tutto e per tutto lo stesso. Non è esso stesso il Λόγος medesimo. L’όμολογεῖν rimane invece un λέγειν che sempre soltanto posa, lascia-stare, ciò che già come ὸμόν, come tutto insieme, e sta-dinnanzi in uno stare che non proviene mai dall’όμολογεῖν, ma che si fonda sul posare raccogliente, sul Λόγος. Questo όμολογεῖν non fa nient’altro che mantenere ciò che si pone. Verrebbe qui da fare una connessione azzardata con l’analogia: è ciò da cui tutto incomincia, che sembra essere posto originariamente. Ma c’è sempre questo όμολογεῖν, questo essere come se, questo tanto quanto, questo così come. Questa è un’estrapolazione rispetto a ciò che dice Heidegger e sulla quale occorrerebbe riflettere di più. Ma che accade quando si dà udire autentico come όμολογεῖν? Eraclito dice: σοφόν ἓστιν (è saggio). Quando accade l’όμολογεῖν allora accade, è σοφόν. Noi leggiamo: σοφόν ἓστιν. Si traduce giustamente σοφόν con “saggio”. Ma che significa “saggio”? Richiama solo al sapere degli antichi saggi? Che cosa sappiamo noi di un tale sapere? Se questo rimane un aver-visto il cui vedere non è quello degli occhi del corpo – così come l’aver udito non è un udire con gli organi dell’udito – allora è probabile che l’aver-udito e l’aver-visto si identifichino. Essi non indicano un puro atto di afferramento, ma un modo di con-tenersi. Ma che genere di contegno? Quello che si mantiene nel soggiorno dei mortali. Quest’ultimo si tiene a ciò che di stante-dinnanzi il posare raccogliente già sempre lascia-stare-dinnanzi. Qui è come se cercasse l’origine di tutto, in questo trovarsi tutto raccolto. Come? L’uno, cioè il λέγειν, il significante, che è ciò che appare, ma appare a condizione di questo movimento, che Hegel chiamerà dialettico, cioè questa relazione con il τί, con il qualcosa che il dire dice. E, infatti, è per questo che nelle pagine precedenti parla di disvelamento, perché si disvela il λέγειν: a questo punto e solo a questo punto il λέγειν può apparire, il significante è significante. A pag. 149. E già ci troviamo di fronte a un nuovo termine enigmatico: τὸ Σοφόν. Invano ci sforziamo di pensarlo nel senso di Eraclito, finché non avremo seguito la sentenza in cui esso parla fino alle ultime conclusive parole. In quanto l’udire dei mortali è divenuto udire autentico, accade un όμολογεῖν. Nella misura in cui questo si verifica, accade un “ben disposto”. Come dire che il saggio è colui che si accorge che all’origine, in questo λέγειν τί, in questo dire qualcosa, c’è sempre un όμολογεῖν, un come se. Eraclito dice όμολογεῖν σοφόν ἓστινΕν Πάντα: un ben disposto accade in quanto uno tutto”. Il testo oggi corrente suona: Εν Πάντα εῖναι (l’uno è tutto, tutto è uno). Lo εῖναι (essere) è la correzione della lezione che sola ci è stata trasmessa: ἓν πάντα είδέναι, che si interpreta in questo senso: è saggio sapere che tutto è uno. La congettura εῖναι è più conforme al contenuto. Tuttavia, noi lasciamo da parte questo verbo. Con quale diritto? Perché “Εν Πάντα è sufficiente. Ma non solo è sufficiente. Rimane di per sé molto più adeguato al contenuto che qui è pensato e con questo anche allo stile del dire eracliteo. “Εν Πάντα, uno: tutto; tutto: uno. A pag. 150. L’interpretazione consueta intende la sentenza di Eraclito in questi termini: è cosa saggia ascoltare la parola del Λόγος, e prestare attenzione al senso di ciò che esso dice col ripetere quel che si è udito nell’affermazione: tutto è uno. C’è il Λόγος. Questo ha qualcosa da annunciare. C’è quindi anche ciò che esso annuncia, e cioè che tutto è uno. Solo che l’“Εν Πάντα non è ciò che il Λόγος annuncia come parola e che dà da comprendere come senso. “Εν Πάντα, invece, dice in quale maniera il Λόγος dispiega il suo essere. Cioè, come relazione. Sta dicendo che questo Εν Πάντα non è un messaggio che Eraclito vuole mandare dicendo che “tutto è uno”; no, dice che questo “tutto è uno” è il Λόγος, è il linguaggio. Questa relazione tra l’uno e i molti è il linguaggio. Se non ci fosse questa relazione non ci sarebbe linguaggio. Εν è l’unico-uno in quanto l’unificante. Esso unisce perché riunisce. Riunisce perché raccogliendo lascia stare-dinnanzi ciò che sta-dinnanzi, in quanto tale e nella sua totalità. L’unico-uno unisce come il raccogliente posare. Questo raccogliente-posante unire riunisce in sé l’unificante di modo che esso è questo uno e, come tale, l’unico. L’“Εν Πάντα di cui parla la sentenza di Eraclito ci dà il semplice cenno nella direzione di ciò che il Λόγος è. Torniamo al significante. Esso riunisce, ma riunisce che cosa? Il significato, ovviamente, lo riunisce in uno, cioè nel significante. Questo è l’uno. Ma potrebbe darsi questo uno senza i molti, senza il τί del λέγειν? Ovviamente no. Dice L’unico-uno unisce come il raccogliente posare, perché raccoglie, certo, tutto ciò che c’è nel significato e lo posa, lo posa facendolo permanere, ed è lì che c’è il disvelamento, che il significante si disvela in quanto significante. L’“Εν Πάντα di cui parla la sentenza di Eraclito ci dà il semplice cenno nella direzione di ciò che il Λόγος è. Il Λόγος è la relazione tra il λέγειν e il τί, la simultaneità tra il λέγειν e il τί, tra il dire e ciò che il dire dice. Il quanto il Λόγος lascia stare-dinnanzi come tale ciò che sta dinnanzi, esso disvela il presente nella sua presenza. Il Λόγος lascia stare dinnanzi, lascia stare il significato, lo lascia lì, perché senza quello non appare niente, non c’è nessuna presenza. Ma il disvelare è l’ ’Αλήθεια. Questa e il Λόγος sono la stessa cosa. Qui è chiaro il concetto. Il Λόγος questa relazione, è l’ ’Αλήθεια, perché è lì che c’è il disvelamento, perché è lì che si disvela il λέγειν grazie al τί. Il λέγειν lascia ἀλήθεια, del disvelato, stare-dinnanzi come tale. Ogni disvelare trae fuori la cosa presente dal nascondimento. Era nascosto il significante fino a quando il significato non lo ha fatto apparire per quello che è. Il disvelare ha bisogno del nascondimento. L’ ’Α- Λήθεια riposa nella Λήθη attinge ad essa, posa dinnanzi ciò che da questa è tenuto in serbo. Il Λόγος è in se stesso a un tempo un disvelare e un nascondere. Ricordate il detto φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ, la natura ama nascondersi: la natura è questo continuo disvelamento. Qui “natura” non c’entra niente con il suo concetto corrente. Il Λόγος, il posare raccogliente, ha in sé il carattere del disvelare-celare. Cela e disvela. Cela nel senso che banalmente il significato io non lo vedo, non lo sento, non lo tocco, però è ciò che consente il disvelamento del significante, perché senza il significato il significante non c’è, quindi, non appare, non è presente. La presenza ha la necessità di ciò che è occultato, del trascendente. Nella misura in cui ci è dato di vedere, nel Λόγος, il modo in cui l’“Εν dispiega il suo essere come l’unificante, risulta subito chiaro che questo unire che si dispiega nel Λόγος rimane infinitamente diverso da ciò che si è soliti pensare sotto i concetti di connettere e collegare. Non è una connessione, un collegamento, ma sono lo stesso. Questo unire che risiede nel λέγειν non è né soltanto un cogliere insieme cose diverse mediante un atto che le abbraccia tutte, né un accostamento di contrari attraverso un puro e semplice compromesso. L’“Εν Πάντα lascia stare-insieme-dinnanzi in una presenza ciò che è staccato e opposto come il giorno e la notte, l’inverno e l’estate, la pace e la guerra, la veglia e il sonno, Dioniso e Ades. Ciò che è così trans-portato, διαφερόμενον (metafora), attraverso l’estrema distanza che separa presente e assente, è quello che il posare raccogliente lascia stare-dinnanzi nella sua dia-ferenza. Il suo posare stesso è, nella dia-ferenza, ciò che regge. L’“Εν stesso è dia-ferente. Sta dicendo, con tutta la forza che ha, che questi due elementi non sono accostati né accostabili, perché sono due momenti dello stesso, non sono separabili in nessun modo, ma sono distinti, come il giorno e la notte. Εν Πάντα dice ciò che il Λόγος è. Λόγος dice il modo in cui l’“Εν Πάντα dispiega il suo essere. Entrambi sono la stessa cosa. Quando il λέγειν mortale si conforma al Λόγος accade un όμολογεῖν. Questo si raccoglie nell’“Εν (Uno), nel suo potere unificante. Quando si dà un όμολογεῖν, accade un “ben disposto”. Tuttavia l’όμολογεῖν non è il “ben disposto” vero e proprio in se stesso. Dov’è che possiamo trovare non solo un “ben disposto”, ma il “ben disposto” in quanto tale, puramente e semplicemente? Che cos’è, esso, in se stesso? Eraclito lo dice chiaramente all’inizio della sentenza B32: “l’unico-uno che tutto unifica soltanto è il “ben disposto”. Se però l’“Εν è lo stesso che il Λόγος, allora sarà ό Λόγος τό σοφόν. Il solo e cioè anche il vero e proprio “ben disposto” è il Λόγος. Ma nella misura in cui un λέγειν mortale si conforma, in quanto όμολογεῖν, al “ben disposto” è a modo suo qualcosa di ben disposto. Dice che se l’Uno è lo stesso che il Λόγος… che poi propriamente non è lo stesso. Non può darsi il Λόγος senza il Πάντα, senza i tutti, senza i molti. Ma in che modo il Λόγος è il “ben disposto”, il destino vero e proprio, ossia la riunione dell’inviare, che invia ogni cosa di volta in volta in ciò che le è proprio? Il posare raccogliente riunisce in sé ogni inviare… Un inviare a qualcuno: è una relazione. …in quanto apportando lascia stare-dinnanzi, dirige ogni presente e ogni assente al suo luogo e alla sua via, e custodisce tutto riunendolo nel tutto. Così tutto e ciascuna cosa può di volta in volta conformarsi e adattarsi a ciò che le è proprio. Eraclito dice (B64): “Ma il tutto (di ciò che è presente) governa (dirigendolo nella presenza) la folgore”. Che cosa fa la folgore? Illumina all’improvviso tutto in un colpo solo. Eraclito pensava alla folgore come una fonte di luce istantanea che fa vedere tutto per un istante. È una cosa interessante, oltre ad essere una bella metafora: questa folgore che di colpo mostra tutto, ma solo per un istante. La folgore, con moto repentino e d’un sol colpo, posa-dinnanzi tutto ciò che è presente nella luce della sua presenza. Questo è ciò che fa la folgore. Solo che questo è ciò che fa il Λόγος: il Λόγος mostra all’istante. In questo movimento tra il λέγειν e il τί è come se in un attimo si vedesse il tutto, cioè la relazione tra queste due cose che è il fondamento di tutto. Eraclito usa questa metafora della folgore, certo, ma è questo che voleva che chi lo stava ascoltando propriamente ascoltasse. Dentro le sue parole c’è il linguaggio: il Λόγος mostra per un istante. Che cosa mostra per un istante? Che è nient’altro che relazione, dialettica tra il λέγειν e il τί, che si coglie per un attimo. A pag. 153. Quando all’άκούειν dei mortali sta a cuore unicamente il Λόγος, il posare raccogliente, allora il λέγειν dei mortali si è dato, conformemente al ben disposto, all’insieme del Λόγος. Il λέγειν mortale riposa custodito nel Λόγος. Esso è, a partire dal destino, appropriato all’όμολογεῖν. Così, esso resta traspropriato al Λόγος. In tal modo il λέγειν mortale è ben-disposto-conforme-al-destino. Ma esso non è mai il destino stesso, cioè l’“Εν Πάντα come ό Λόγος. Chiaramente il λέγειν non è “Εν Πάντα, ma il λέγειν è una parte dell’“Εν Πάντα. In base a ciò che stiamo dicendo è l’ente, è l’Uno, è il dire. Ma sappiamo bene che non esiste senza il τί, cioè, senza il Πάντα. Il τί, ciò che il dire dice, è il tutto. Che cosa diciamo quando diciamo qualunque cosa? Non diciamo tutto, ma diciamo “il” tutto. Il tutto, cioè il concreto, perché questo concreto non è altro che la relazione tra il tutto e l’Uno. Questa relazione è sempre presente, inesorabile. A pag. 154. La via di accesso, in ogni caso, proprio in quanto passa attraverso le vie che l’originario pensiero greco apre ai posteri, rimane da principio difficile da percorrere e piena di enigmi. Noi ci limiteremo, per cominciare, a fare una buona volta un passo indietro davanti all’enigma, per scorgere in esso qualcosa di ciò che costituisce la sua enigmaticità. La sentenza di Eraclito (B 50), in una traduzione esplicitante suona: “Non me, il parlante mortale, ascoltate; ma siate attenti al posare raccogliente; se ad esso innanzitutto apparterrete, in tal modo potrete anche veramente udirlo; un tale udire è nella misura in cui accade un lasciar-stare-insieme-dinnanzi, a cui sta dinnanzi l’insieme, il riunente lasciar-stare, il posare raccogliente; quando si dà un lasciar-stare da parte del lasciar-stare-dinnanzi, accade qualcosa di ben-disposto; poiché l’autentico ben-disposto, il destino solo, è l’unico-uno che tutto unifica”. Questa è la traduzione di Heidegger per facilitare la comprensione del detto di Eraclito. È ciò che vi dicevo prima, in effetti, non è nient’altro che questo: se il parlante ascolta veramente, che cosa ascolta? Ascolta ciò che parlando si pone dinnanzi. Per potere porre ciò che sto dicendo, per potere dire ciò che sto dicendo, occorre che il λέγειν sia un λέγειν τί; solo a questo punto il mio dire diventa un dire, diventa cioè presente, diventa qualcosa che è posto. A pag. 155. La traduzione di λέγειν con “lasciar-stare-dinnanzi-raccolto” e di Λόγος con “posare raccogliente” può forse lasciare perplessi. Tuttavia, è più salutare per il pensiero aggirarsi nel sorprendente che installarsi in ciò che è perspicuo. Probabilmente, Eraclito ha stupito i suoi contemporanei in un modo ancora completamente diverso, e cioè per avere inserito parole ad essi familiari come λέγειν e Λόγος nel tessuto di un simile dire, e per avere preso a parola-guida del suo pensiero ό Λόγος. Dove è guidato il pensiero di Eraclito da questa parola, ό Λόγος, che noi ora cerchiamo di ripensare come il posare raccogliente? La parola ό Λόγος designa quello che riunisce ogni cosa presente nella presenza e in essa la lascia-stare. Potremo anche dire che fa esistere questa presenza. Ό Λόγος denomina quello in cui accade la presenza di ciò che è presente. La presenza di ciò che è presente si chiama, per i greci, τό ἒόν, cioè τό εἶναι τῶν ὂντων; per i romani, esse entium; noi diciamo: l’essere dell’essente. Dall’inizio del pensiero occidentale, l’essere dell’essente si dispiega come l’unica cosa degna di essere pensata. Qual è l’essere dell’essente? La relazione tra λέγειν e τί. Senza questa relazione nulla è presente, perché il significante, senza il significato, senza il τί, non appare, non si manifesta. Sto semplificando, è chiaro, ma la questione è questa. Nel pensiero di Eraclito l’essere (la presenza) dell’essente appare come ό Λόγος, come il posare raccogliente. Ma questo balenare dell’essere rimane dimenticato. L’oblio viene ancora a sua volta nascosto dal fatto che la concezione del Λόγος ben presto cambia. Per questo resta fin da principio, e per un lungo periodo, impossibile sospettare che nella parola ό Λόγος abbia potuto venire ad espressione l’essere stesso dell’essente. Che cosa accade quando l’essente nel suo essere, quando la differenza che c’è tra essi, in quanto differenza, viene portata ad espressione? Portare ad espressione significa abitualmente: esprimere qualcosa oralmente o per iscritto. Ma questa locuzione potrebbe ora pensare qualcosa di diverso: portare al linguaggio: mettere al sicuro l’essere nell’essenza del linguaggio. È lecito ritenere che ciò si preparava già quando ό Λόγος divenne la parola-guida del pensiero di Eraclito perché era divenuta il nome dell’essere dell’essente? /…/ Che cosa sarebbe accaduto se Eraclito – e dopo di lui i greci – avessero pensato propriamente l’essenza del linguaggio come Λόγος, come il posare raccogliente? Nulla meno che questo: i greci avrebbero pensato l’essenza del linguaggio a partire dall’essenza dell’essere, anzi come questa essenza stessa. Cioè, l’essere è linguaggio, e viceversa. Giacché ό Λόγος è il nome dell’essere dell’essente. Quindi, l’essere dell’essente è il linguaggio: è questo che fa apparire l’essente. Però, tutto questo non è accaduto. Da nessuna parte troviamo una traccia del fatto che i greci abbiano pensato l’essenza del linguaggio immediatamente a partire dall’essenza dell’essere. Invece, e proprio a cominciare dai greci, il linguaggio venne pensato in riferimento all’emissione del suono, come φωνή, come suono e voce, foneticamente. La parola greca che corrisponde al nostro “linguaggio” è γλῶσσα, la lingua. Il linguaggio è φωνή σημαντική, un’emissione di suono che designa qualcosa. Questo vuol dire che il linguaggio acquista fin da principio il carattere fondamentale di ciò che noi indichiamo con il termine “espressione”. Un’espressione è già implicitamente dotata di senso, sennò non sarebbe espressione, perché non esprimerebbe nulla. Ogni specie di espressione tende ad essere considerata come una specie di linguaggio. La storia dell’arte parla del “linguaggio delle forme”. Eppure, una volta, all’inizio del pensiero occidentale, l’essenza del linguaggio balenò nella luce dell’essere. Sta dicendo che all’inizio i presocratici si sono accorti che l’essere non è altro che linguaggio. Una volta, quando Eraclito pensò il Λόγος come parola-guida, per pensare in questa parola l’essere dell’essente. Ma il lampo d’un tratto si spense. Nessuno colse il suo raggio e la vicinanza di ciò che esso illuminava. Questo lampo, possiamo vederlo soltanto se ci collochiamo nell’uragano dell’essere. Ma oggi tutto sembra far ritenere che ci si preoccupi soltanto di allontanare l’uragano. Si organizza con tutti i mezzi possibili una difesa meteorologica, per proteggere la nostra tranquillità dall’uragano. Questa tranquillità, però, non è affatto tale. È soltanto apatia, anzitutto apatia che opponiamo alla paura di pensare. Qui è come se avesse visto bene quello che facevano gli eleati. Quanto al pensiero, le cose stanno in un modo del tutto peculiare. La parola del pensatore non ha alcuna autorità. La parola del pensatore non conosce “autori”, nel senso di “scrittori”. La parola del pensiero è povera di immagini e priva di attrattive. La parola del pensiero poggia sull’assenza di illusioni rispetto a ciò che dice. Pensate al sofista, a Eutidemo, a tutti quanti: l’assenza di illusioni rispetto a ciò che si dice. Qual è l’illusione? Quella di Platone, quella per cui il dire possa mostrare l’ente così com’è, per quello che è. Ecco: manca questa illusione. E tuttavia, il pensiero cambia il mondo. Lo trasforma nella profondità sorgiva, sempre più oscura, di un enigma; proprio in quanto è più oscura, questa profondità è promessa di una più grande chiarezza. L’enigma ci è proposto da lungo tempo nella parola “essere”. Per questo, “essere” rimane solo la parola provvisoria. Badiamo a che il nostro pensiero non si limiti a correrle dietro in maniera cieca. Prendiamo in considerazione anzitutto che “essere” significa originariamente “esser presente”; e che “essere presente” vuol dire pro-dursi e durare nella disvelatezza. Ciò che è presente è ciò che mi appare. Che cosa mi appare? Ciò che può apparire. E che cosa può apparire? Può apparire il significante, perché c’è il significato. È lui, il significato, è il τί, è il Πάντα che consente all’ἓν di apparire come tale, altrimenti non sarebbe mai apparso nulla, cioè, non ci sarebbe mai stato linguaggio e, di conseguenza, nulla.