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15 maggio 2024

 

Plotino Enneadi

 

Plotino, Enneadi. A pag. 157. Dobbiamo esaminare ancora in che senso Platone dice che i mali non cesseranno, ma che esistono necessariamente, che essi non sono negli dei, ma che si aggirano sempre intorno alla natura umana e a questo luogo terreno. E questa cosa a Plotino non sta bene. Forse in questo senso è stato detto che il cielo è puro da ogni male, poiché procede sempre con ordine e si muove secondo una legge né c’è in esso alcuna ingiustizia e nessun altro vizio, dato che i corpi celesti per il movimento ordinato, non si offendono l’un l’altro, mentre sulla terra esisterebbero l’ingiustizia e il disordine? Questa è la natura mortale e questa è la sua sede. Ma ciò che segue in Platone: bisogna fuggir di qui non deve essere riferito alle cose della terra. Qui è Plotino che interpreta Platone. Questa fuga, egli dice, non consiste nell’abbandonare la terra, ma nel restarci e nel viverci nella giustizia e nella santità accompagnate da prudenza. E come dice, cita di nuovo Platone, si deve fuggire la cattiveria, perché per lui il male consiste nella cattiveria e in ciò che ne deriva. Perché per Platone il male sono i molti. Però Plotino legge Platone e chiaramente torna utile. E quando l’interlocutore Socrate gli dice che il male sarà tolto via, se persuaderà gli uomini di ciò che dice, egli risponde che ciò non può avvenire perché il male esiste necessariamente, essendo necessario un contrario al bene. Quindi, per Platone, in effetti, il male è “necessario”. Il problema per Plotino, invece, che questo male non deve essere necessario, sennò tutta la sua dottrina della salvezza va… E, quindi, lui deve, come dire?, preservare il male. Dice, sì, certo, c’è il male, ma chi fa il male è perché si è allontanato dal bene, ma può ritornarci, anzi, deve ritornarci. Questa cosa era assente in Platone, in Platone il male era necessario, se c’è il bene c’è anche il male. A pag. 159. Ed essere presso gli dei significa essere presso gli esseri intelligibili. Gli essere intelligibili sono i pensieri. Questi, infatti, sono immortali. Riguardo la questione della necessità del male, si può rispondere anche così: siccome il Bene non esiste solo, è necessario che nella serie delle cose che provengono da lui o, se così si vuol dire, ne discendono e se ne allontanano, vi sia un ultimo termine e che dopo questo nulla possa più derivare, e questo è il male. Cioè, la massima distanza da allontanamento dal bene. A pag. 171. La rappresentazione è l’urto di un oggetto esterno sulla parte irrazionale dell’anima, che lo riceve perché essa non è indivisibile. L’opinione falsa ha luogo perché l’anima esce dalla verità, e ne esce perché non è pura. Il desiderio che ci rivolge all’Intelligenza è altra cosa. Necessariamente, infatti, l’anima si unisce all’intelligenza e ad essa sola vi si stabilisce e non declina più verso la realtà inferiore. Quindi, se l’anima guarda l’intelligenza, che è la seconda ipotesi, allora si salva. C’è sempre la possibilità di salvarsi in Plotino. Cosa ripresa naturalmente dal cristianesimo, che nasce qui. Plotino ha insegnato al mondo a pensare per ipostasi. Cosa significa pensare per ipostasi? Significa non interrogare ciò che si afferma, si afferma e basta, è così. Da qui il famoso enunciato del teorema del Grillo, che è un enunciato neoplatonico: “Io so’ io” è un ipostasi. A pag. 215. Pensiamo dunque che gli astri siano come lettere che scrivano ad ogni istante nel cielo, o meglio, già scritte e moventisi, le quali, pur compiendo un’altra funzione, abbiano anche la facoltà di significare alcunché: e così, nel mondo, come un vivente retto da un solo principio, si può da una parte conoscerne un’altra. Solo principio, quindi, da lì si conosce tutto. Ecco il pensare per ipostasi. Similmente, chi guarda gli occhi di un uomo dall’altra parte del corpo può conoscere il suo carattere e leggervi un segno di pericolo di salvezza. Ora, gli astri sono parte del mondo ed anche noi siamo parte dell’universo, perciò da una parte conosciamo le altre. Se conosciamo il principio, conosciamo tutto. Tutto è pieno di segni, ed è sapiente che da una cosa ne conosce un’altra. Così, di molti avvenimenti abituali tutti hanno conoscenza. A pag.217. Noi, da parte nostra, compiamo quelle azioni che sono naturalmente proprie dell’anima... Ricordiamo sempre che l’anima è la terza ipostasi. …finché non erriamo in mezzo alla molteplicità dell’universo, e se erriamo troviamo il castigo nell’errore stesso e nel cattivo destino che ci attende. Sta cercando di convincere tutti quanti che allontanarsi dal bene, cioè dall’uno, sia la causa di tutti i mali. Nel Timeo il Demiurgo fornisce il principio dell’anima e gli dei mobili nel cielo gli danno poi le passioni terribili quanto necessarie, gli impulsi generosi, i desideri, i piaceri, i dolori e l’altra parte dell’anima, donde provengono quelle passioni. Simili teorie ci legano agli astri, dai quali riceviamo l’anima nostra, e ci sottomettono così alla necessità non appena arriviamo quaggiù. Da essi deriva il nostro carattere dal carattere le azioni da una disposizione passiva le passioni. È una questione che è presente ancora oggi, in quella che si chiama astrologia, che gli astri ci influenzano, per cui, a seconda di come si muovono gli astri, ecco che divento di buon umore o di cattivo umore, le cose vanno bene o vanno male, ecc. È, comunque, una questione molto più antica di Plotino. A pag. 219. La natura di questo mondo è mista e se gli si togliesse l’Anima universale separata, rimarrebbe poca cosa. È un dio il mondo, se teniamo conto di quell’Anima; nel resto esso è soltanto un grande demone, dice Platone, che ha demoniache passioni. Quindi, non possiamo togliere l’anima, perché l’anima è quella che ci preserva da ogni male. A pag. 227. Essa (l’anima) unisce strettamente gli antecedenti ai conseguenti e a questi poi i successivi antecedenti, secondo le possibilità del presente; e perciò forse conclude che le cose che verranno saranno peggiori: per esempio, che gli uomini di una volta erano diversi da quelli di adesso, poiché le ragioni seminali, nell’intervallo, necessariamente cedono sempre più alle affezioni della materia. Cioè, si deteriorano. Però, è interessante qui il fatto che sia l’anima a garantire la successione dall’antecedente al conseguente. Pensate ad Aristotele: cos’è che garantisce che una cosa inserisca un’altra? Uso una parola, ύμάρχειν: io ho deciso che è così. Perché A è B perché? Perché sì. Qui, con Plotino invece non è più un’argomentazione. Lui, senza rendersene conto, ci mostra in atto come si pensa per ipostasi: è l’anima che decide che questo è il conseguente di quell’antecedente. La cosa interessante qui è cogliere come lui stia costruendo un modo di pensare per ipostasi, dove non c’è più la necessità di argomentare.

Intervento: Come se fosse già tutto determinato.

Sì, dall’uno. Certo, è già tutto determinato. Che, poi, è diventato tutto determinato da Dio.

Intervento: Quindi, si tratta solo di conoscere.

Più che conoscerla – di fatto, non è conoscibile – si tratta di sottomettersi e, infatti, la parola sottomissione interviene spesso. A pag. 237. L’Alterità intelligibile produce eternamente la materia; essa infatti è il principio della materia e il movimento primo; perciò anche il movimento è detto alterità; poiché movimento e alterità sono nati insieme: ora il movimento e l’alterità provengono dal Primo, sono cose indeterminate e di quello hanno bisogno per determinarsi; e si determinano quando si rivolgono verso di quello; prima, la materia è l’indefinito e l’altro, non ancora buona, ma priva della luce del Primo. Il movimento. Ricordate cosa dice Aristotele nella Fisica? Il movimento avviene tra δύναμις e ἐνέργεια, è l’entelechia: questo è il movimento, mentre qui il movimento viene dal primo. Questa alterità viene, come dire, composta dal primo. Adesso vediamo bene in che modo viene composta, perché è interessante. Anzi, io direi di andare proprio a leggere subito, poi magari torniamo indietro, dove parla della potenza e dell’atto. A pag. 257. Qui fate bene attenzione, perché c’è non soltanto la differenza abissale tra Plotino e Aristotele, ma anche il modo in cui Plotino risolve il problema dell’entelechia. Chiaramente, qui parla di potenza e atto, quindi, di δύναμις e ἐνέργεια. Una cosa che salta agli occhi grazie al testo greco è che non interviene mai la parola greca έντελέχειᾳ, ma soltanto δύναμις e ἐνέργεια. Perché possiamo chiederci? Lo vediamo subito. Si dice che qualcosa è in atto o in potenza; si dice anche che c’è atto negli esseri. Bisogna dunque cercare che cosa sia potenziale e attuale. Essere in atto è identico all’atto, e ciò che è atto è anche in atto? Oppure ognuno dei due è diverso e non è necessario che l’essere in atto sia diverso dall’atto? Che il potenziale si trovi negli esseri sensibili e chiaro; bisogna ricercare se esso sia anche negli esseri intelligibili; ora, in questi non c’è che attualità;… Le cosa pensate, in quanto pensate, sono in atto. …se ci fosse in essi un potenziale, questo rimarrebbe eternamente soltanto potenziale e se anche fosse eterno, non passerebbe mai all’atto, poiché in essi nulla si effettua nel tempo. Anzitutto, diciamo cos’è l’essere in potenza; ora, il termine “potenziale” non va preso in senso assoluto, perché non si può essere in potenza di nulla. Ci sta dicendo che ciò che è in potenza non necessariamente è in atto, è anche in atto, anche se lui dice prima che. Lui dice essere in atto è identico all’atto, non sta parlando di potenza. Poi, dice rispetto all’intelligenza, cioè al pensiero: se ci fosse un potenziale, questo rimarrebbe eternamente soltanto in potenza, e se fosse eterno, ecc. Cosa gli sfugge della lettura di Aristotele? Che la potenza non è una cosa separabile dall’atto. Non è casuale che non intervenga mai la parola greca έντελέχειᾳ. A pag. 259. Ed ora si deve ricercare se la materia, potenziale rispetto alla cosa che è formata, sia inoltre un essere in atto o no; in generale, se gli altri esseri che diciamo potenziali, quando hanno ricevuto la forma e persistono così, divengono anch’essi attuali; o se essere in atto si dica soltanto della statua, e se soltanto la statua attuale sia in opposizione alla statua in potenza, ma non si predichi l’attualità della cosa che era detta statua potenziale. Il tentativo disperato che fa Plotino è quello di mantenere, come dicevo prima, separati la potenza e l’atto. La statua, sì, diventa statua, ma prima è in potenza; ma se è in potenza non è statua. Mentre in Aristotele potenza e alto non sono scindibili, non sono separabili. E prosegue. Se è così, l’essere in potenza non diventa essere in atto, ma dall’essere in potenza che è prima, è venuto poi l’essere in atto. L’essere in potenza è prima, dopo c’è l’essere in atto. Vi ricordate di Aristotele? L’essere in atto, con l’entelechia, è ciò che rende l’essere in potenza quello che è. Quindi, domandarsi, rispetto all’entelechia, se c’è prima la potenza o l’atto non ha nessun senso, perché sono simultanei.

Intervento: Oltretutto si può ricavare solo retroattivamente.

Esattamente. In Plotino assolutamente no. E ancora. A pag. 261. E se lassù non c’è materia, nella quale consiste la potenza, se nulla può nascere che non sia già, se nulla, o trasformandosi in altro o sussistendo in sé, genera un’altra cosa o lascia il suo posto a un’altra uscendo dall’esistenza, non c’è lassù nulla in cui ci sia un potenziale, poiché i veri esseri sono nell’eternità e non nel tempo. Qui è la sua soluzione al problema: nell’uno non c’è qualcosa che sia in potenza. L’essere impotenza è qualcosa di inferiore rispetto all’essere in atto, che quindi sono assolutamente separati. E lassù non c’è nulla che sia in potenza, perché tutto è già in atto, è già tutto presente. No, l’anima non è in potenza queste cose, ma è la potenza produttrice di tutte queste cose. E come essere in atto, si dice dell’intelligibile? Allo stesso modo che la statua, unione di materia e di forma, è un essere in atto, e perché ogni intelligibile ha ricevuto una forma? /…/ L’Intelligenza non passa dalla potenza, che sarebbe la sua capacità di pensare, a un pensare effettivo - perché sarebbe allora necessaria prima di quella un’altra Intelligenza che non fosse proceduta dalla potenza -, ma in lei è il tutto. Cioè, l’Intelligenza non passa dalla potenza, che sarebbe la capacità di pensare ma ancora non realizzata. Ma la capacità di pensare non ancora realizzata è già pensiero. È questo che dice Aristotele: sto già pensando. L’essere in potenza desidera essere condotto all’atto quando intervenga un altro termine, per diventare un essere in atto;… Vedete come in Plotino la cosa procede progressivamente. …ma quel modo di essere che esso trae da sé e conserva eternamente è già in atto;… Cioè, l’uno, a cui si riferisce. Dunque, tutti gli esseri primi sono in atto, poiché possiedono da se stessi e sempre ciò che devono possedere. Altrettanto è dell’anima che non è nella materia, ma nell’intelligibile. Anche l’anima che è nella materia, diventa un’altra in atto, ad esempio vegetativa: anch’essa infatti è in atto quello che è. Qui l’atto, oltre a essere sempre ἐνέργεια, è ciò che segue alla potenza, semplicemente. La potenza è qualcosa che prelude e l’atto è il suo compimento. A pag. 263. Tutte le altre cose che sono in potenza possiedono anche l’esistenza in atto sotto un altro rapporto; e queste che già sono si dicono poi in potenza rispetto a un’altra cosa. Ma come possiamo dire che anche la materia, che vien detta esistente e della quale diciamo che è in potenza tutte le cose, sia un essere in atto? Se fosse così, essa non sarebbe tutti gli esseri in potenza. E se essa non è alcuno di questi esseri, necessariamente essa è un non-essere. Nel De generatione et corruptione, dove Aristotele parla del sinolo, σύν «con» e λος «tutto», tutto assieme, letteralmente, per cui la forma e l’atto sono inscindibili, non può distinguere la forma dalla materia; è impossibile, perché la materia senza la forma non c’è, e la forma senza la materia è nulla. Ora, si potrebbe dire: ma, allora, se non possiamo cogliere la forma senza la materia, quando parliamo di materia, di che cosa parliamo? Domanda legittima, perché la materia la cogliamo soltanto attraverso la forma, non c’è un altro modo, è sempre una materia formata, materia signata, dicevano i medievali. Quindi la materia non c’è. Sì, ma se non c’è la materia, non c’è neanche la forma. E, allora, come la mettiamo? Aristotele non risolve il problema, perché non ha, in effetti, soluzione; perché, parlando di singolo, lui evoca la questione dell’entelechia; cioè, non posso parlare di potenza se non parlo di atto. Ma, allora, non posso parlare di potenza se non c’è l’atto. È vero. Così come non posso parlare di materia se non c’è la forma, è vero anche questo; e non posso parlare di forma se non c’è la materia. Queste due cose sono due facce dello stesso, due momenti dello stesso. È chiaro che quando parla di materia si rivolge, sì, a ciò che è comunemente si intende, al famoso bronzo della statua, ma questo bronzo della statua, quando la statua è compiuta, permane? Certo che permane, ma permane in quella forma. La materia, cioè il bronzo in quanto tale, io lo vedo? No, perché per quanto sia deforme, sformato, comunque ha una forma e allora posso dire questo è bronzo, lo sento, lo tocco, lo do in testa a qualcuno. Ma dire esattamente che cos’è il bronzo, o qualunque altra cosa, è impossibile Ad esempio, il tavolo, certo che posso definirlo: definisco il tavolo sì, come qualunque cosa, ma, definendolo, io attribuisco a una certa cosa delle determinazioni. E siamo sempre alla questione dell’uno e dei molti. Perché l’uno si divide in due? Perché l’uno, per poter essere tale, deve poterlo determinare in quanto uno, almeno. Ma ciò che lo determina questo uno è altro, sono i molti, cioè il due. Ecco che compare il due. Quindi l’uno è due, necessariamente, perché il due è ciò che lo determina, e senza questo due, che lo determina in quanto uno, non è uno. Al tempo stesso, il due è uno, perché non è altro che la determinazione dell’uno. E allora ecco, riprendiamo la domanda di Plotino: c’è prima l’uno o prima il due? Si coappartengono, che significa che sono simultanei, cioè che non è possibile prendere uno prima dell’altro, perché se lo prendo prima l’altro non c’è e allora non c’è neanche questo qua, non c’è nessuno dei due. La stessa cosa vale per la forma e per la materia. La materia, qualunque cosa io intenda con materia, non c’è senza la forma, e viceversa: è il problema dell’uno e dei molti. Tu dici che siamo andati molto lontani, ma invece siamo rimasti esattamente all’uno e ai molti, perché non ha soluzione. Perché l’uno io lo determino per poter dire che è l’uno, lo determina come? Con i molti, cioè con il due. Quindi, il due è l’uno, perché è la sua determinazione e l’uno è in due, e il due è l’uno, e l’uno è il due, e così via. Ecco perché l’uno è altro da sé,è altro da sé perché per determinarlo devo determinarlo attraverso il due, cioè attraverso i molti, che sono il motivo dell’alterità. Ecco perché per Platone i molti sono il male, perché impediscono all’uno di essere quello che è, o meglio, quello che lui voleva che fosse. Plotino va oltre, va oltre. E, allora i molti, che per Platone sono il male, non devono essere messi da parte in quanto necessari al bene; no, perché il bene non ha la necessità del male per esistere, perché l’uno esiste per conto suo, per virtù propria, non ha bisogno di nessuno. Invece, in Plotino succede che i molti vengono recuperati - lo dicevamo già altre volte - come ciò che procede dalle ipostasi, quindi dall’uno, dall’Intelletto e dall’Anima, e poi a scendere tutto quanto. Plotino li vuole recuperare, e dopo dirà anche perché deve recuperarli. Soprattutto, questo impeto salvifico di Plotino è ciò che poi ha costituito il fondamento della Chiesa, per cui l’altro deve essere salvato, a tutti i costi. Perché? In base a che cosa? Deve essere salvato perché io so qual è il bene, perché posso salvarlo solo se so qual è il bene, se non lo so, come faccio a salvarlo, da che? Quindi, occorre la necessità che ci sia l’uno, sotto tutte le forme possibili e immaginabili, che è quella cosa che mi da la certezza assoluta e incrollabile di essere dalla parte giusta, dalla parte giusta della storia. Solo l’uno mi dà questa certezza, di sicuro Aristotele non gliela può fornire, dicendo che non c’è verità epistemica fa crollare anche questa ultima illusione; che, poi, in fondo, è quello che sostenevano i sofisti, tutto sommato; non è che dicessero cose molto differenti. E qui Plotino ancora prosegue. Ecco, qui Plotino giunge anche considerare che la materia… lui l’accosta al non essere. A pag. 263. Dunque essa materia, in quanto è già in potenza, non è ancora ciò che poi diventerà. Ciò che diventerà, ma non lo è, quindi è possibile la potenza senza l’atto, lo dà per acquisito, è un’ipostasi anche questo. Ma il suo essere è soltanto l’essere futuro che in lei si annunzia: così, il suo essere si riduce a ciò che sarà. Essa non è potenzialmente nulla di particolare, ma è potenzialmente tutte le cose; e poiché in sé essa è nulla, ma è in quanto è materia, essa non è in atto. La materia sarebbe pura potenza; dimenticando ciò che dice Aristotele, che non esiste la forma senza la materia, e viceversa, cioè la materia che non ha forma non c’è, per i motivi che abbiamo detti prima. Se fosse qualcosa in atto, quello che essa fosse attualmente non sarebbe più materia... Ma se abbiamo appena detto, ricordando Aristotele, che la materia non esiste senza la forma? E come, come può dirci qua: se fosse qualcosa in atto, quello che essa fosse attualmente non sarebbe più materia. No, è proprio perché è in atto che è materia, perché senza l’atto non c’è la materia; la materia è indissolubile dalla sua forma. Anche il bronzo? No, anche il bronzo. Non è ancora la statua. Il bronzo che non ha una forma non è niente. Non posso neanche pensare al bronzo senza forma; se lo penso gli do una forma, qualunque forma sia non importa. Ora, dunque, lui accolta la materia al non essere. A pag. 263. Fin da principio essa (materia) non era qualcosa in atto poiché era lontana da tutti gli esseri… Gli esseri hanno una forma. …né è diventata poi tale; voleva immergersi in essi ma non può nemmeno ricevere da essi un riflesso, e mentre è in relazione con una cosa, è già in potenza quella che viene dopo, apparendo dove sono cessati gli esseri intelligibili; posseduta dagli esseri che vengono dopo di essa, rimane fissa al loro limite inferiore. Cioè, la materia rimane fissata al suo limite inferiore, la materia è il punto più basso. Ci sono le ipostasi, l’uno, l’intelletto e l’anima, poi tutto quanto, e alla fine c’è la materia. Occupata dunque da due generi di esseri, essa non è in atto né l’uno né l’altro, ma solo lei concesso di essere in potenza come un fantasma fragile e vago, incapace d’essere formato. Questo è ciò che Plotino intende con materia. Essa è dunque un fantasma in atto, e quindi una menzogna in atto, cioè una vera menzogna, o meglio, il reale non-essere. Se dunque è non-essere in atto, a maggior ragione è un non-essere e perciò veramente non-essere. Sicché non è certamente possibile che una cosa, che ha la sua verità nel non-essere, sia un essere in atto. Se essa deve essere, non deve essere in atto, affinché sia fuori di ogni essere vero… Perché l’essere in atto è l’essere vero, ma per essere “essere” deve essere in atto. E, invece, lui ha detto che la materia è in potenza: qualunque cosa, quindi, è sempre solo potenza. …se agli esseri ingannevoli tu togli la loro menzogna, togli loro nello stesso tempo la loro essenza, e se introduci l’attualità in una cosa che abbia in potenza l’essere e l’essenza, le togli il principio stesso della sua realtà, che consisteva nell’essere in potenza. Se necessariamente la materia si conserva senza perire, è necessario si conservi come materia; e perciò, si deve dire che essa è soltanto in potenza per essere ciò che; altrimenti dovremmo rigettare tali argomenti. Cosa che invece facciamo, perché non ha nessun senso quello che sta dicendo. Ma si può capire perché lo dica, e cioè perché la materia è ciò da cui bisogna prendere massimamente le distanze, perché posta, sempre come ipostasi, la materia come ciò che è più distante dall’uno, allora è chiaro che questa materia è ciò da cui dobbiamo prendere quanto più possiamo le distanze se vogliamo avvicinarci all’uno, dobbiamo abbandonarla necessariamente da qui. La purificazione è l’ascesa. Ora, invece, a fronte della materia, che è soltanto in potenza e non potrà mai essere in atto, perché se fosse in atto, come invece dice Aristotele, che è già in atto in quanto forma necessariamente. Se, come dice Plotino, la materia rimane sempre in potenza, lui dice materia è in potenza, non è mai in atto, rimane in potenza e, quindi, è un non-essere. Da qui derivano anche molte considerazioni fatte poi dai padri della Chiesa, dai filosofi medievali: il peccato come allontanamento dall’essere, quindi andare verso il non-essere; il peccato è non-essere, è la negazione dell’essere. È ovvio, a questo punto, che essere e non-essere non possono in nessun modo, per nessun motivo, essere due facce dello stesso. Questo appare evidente, sennò crolla tutto. A pag. 267. L’essere è diverso dalla sostanza? E qui intervengono le categorie; lui non ne parla, naturalmente. L’essere è ciò che è separato dalle altre cose, e la sostanza è l’essere insieme con le altre cose, col movimento e il riposo, l’identità e la differenza? E sono questi gli elementi della sostanza? La sostanza è perciò un tutto, mentre di quelle di quelle parti una è l’essere, una il movimento, ecc. Dunque il movimento è un essere per accidente, ma è anche sostanza per accidente, oppure è un complemento della sostanza? No, in se stesso esso è sostanza; lassù nel mondo intelligibile tutto è sostanza. Lassù tutto è sostanza, il che significa Immediatamente che non ha bisogno delle categorie per determinarsi. Le categorie le abbiamo eliminate. Perché non è così anche in quello sensibile? Perché nel primo tutti gli esseri sono un essere solo, mentre nel secondo ci sono solo le loro immagini separate e diverse l’una dall’altra: così nel seme tutte le parti sono riunite ciascuna è tutte le altre, la mano non è separata dalla testa… Ecco, qui lui vuole distinguere le qualità della sostanza, quelle che sono proprie e quelle che invece sarebbero le categorie. A pag. 267, 25. Ma forse si devono distinguere le qualità: quelle sostanziali che sono proprietà della sostanza e quelle che sono soltanto qualità e qualificano la sostanza, ma non portano mutamenti nella sostanza e non derivano dalla sostanza stessa;… Sarebbero le categorie di Aristotele. Le categorie, secondo Plotino, badate bene, non modificano la sostanza, mentre per Aristotele sì, non solo la modificano ma la fanno esistere. Vedete come si allontana, sempre di più. …in una sostanza già esistente e compiuta, esse introducono una maniera d’essere solo esteriore, una semplice aggiunta alla sostanza dell’essere, sia che ciò avvenga a un’anima o a un corpo. Quindi cosa fanno le categorie? Sono una semplice aggiunta alla sostanza. Cosa dice, invece, Aristotele? Che le categorie sono la sostanza, perché della sostanza possiamo dirne solo le categorie, possiamo solo predicarne, appunto dirne: se non diciamo niente non c’è neanche la sostanza. A pag. 269. Riguardo alle cose sensibili ciò è naturale: infatti nulla in esse è sostanza... Perché? Perché la sostanza è lassù. …ma solo affezioni della sostanza. Sta cercando in tutti i modi di separare la sostanza dalle categorie in tutte le maniere, e allora mette la sostanza e le categorie quaggiù, tra i sensibili. Da qui sorge la domanda, come da cose che non sono sostanze sorga la sostanza. Si è già detto che ciò che diviene non può necessariamente essere identico a ciò da cui deriva. Ecco la sua selezione: ciò che diviene non è identico a ciò che deriva; tutto deriva dall’uno, ma ciò che ne deriva non è identico all’uno. C’è una differenza tra ciò che il produttore e il prodotto. In questo modo lui vorrebbe mantenere questa netta separazione tra la sostanza che sta lassù e le categorie che stanno quaggiù. Noi diremo che nel mondo intelligibile la sostanza possiede l’essere più genuino e più puro e che essa è veramente sostanza, per quanto è possibile, tra le differenze di quella realtà, o meglio, che essa è detta sostanza solo con l’aggiunta dei suoi atti. Per il fatto che agisce, che produce cose; infatti, dall’uno procedono tutte le cose. Essa sembra essere il il compimento di Quello, cioè dell’Uno, ma per quell’aggiunta e per quella sua non totale semplicità è inferiore e già si allontana dall’Uno.