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15-5-2015

 

Ci sono cose da riprendere, cose cui ho accennato mercoledì scorso, alcune cose da precisare, altre da aggiungere?

Claudia: io ho fatto alcune riflessioni, noi siamo partiti da una idea per cui il potere sarebbe l’esercizio della propria volontà. Mi è venuto in mente che il potere è una posizione maschile, se noi consideriamo la caratteristica tipicamente femminile io l’avrei riconosciuta nell’accoglienza, nell’accogliere, ricevere se consideriamo l’anatomia degli organi sessuali. I ruoli comunque sono interscambiabili … ho pensato alla Genesi, Adamo ed Eva, ma cosa ha fatto Eva? Ha mangiato la mela dall’albero della conoscenza. Allora “accogliere” che cosa significa? Poter accettare tutta una serie di diversità che in realtà il potere non consente, mentre “accogliere” significa accettare, accogliere, essere disposti a comprendere una moltitudine di cose diverse e quindi quello che ha fatto Eva, non può essere che ha concepito una diversità? “non mangiare” e io ne mangio invece, e poi il fatto che sia la conoscenza, il fatto che il potere sia una verità assoluta può permettere la conoscenza oppure la conoscenza che come diversità è più vicina alla scienza?

Ferruccio: io posso rispondere una cosa, una conoscenza che esula da quella del padre …

Forse c’è un aspetto che va messo in evidenza, e cioè “maschile/femminile” come fantasie, in effetti è questo che fa la differenza, cioè differenti fantasie che vengono costruite e poi prese per vere ovviamente, però la questione della “conoscenza” credo che sia molto complicata e forse trova una soluzione partendo dalle fantasie femminili e maschili …

Claudia: come posizioni, posizioni che si possono assumere?

Posizioni che si assumono a partire da fantasie differenti, come quando i bambini sono molto piccoli in effetti ciò che conta è la forza, la forza fisica, in tutti i giochi che fanno i bambini mettono alla prova la loro forza per vincere sull’altro. Finché sono molto piccoli più o meno le forze si equivalgono poi man mano che crescono inizia una disparità: la bambina piccola non riesce più ad atterrare l’amichetto perché nel frattempo è diventato più forte di lei e allora per ottenere il potere la bimbetta escogita altri modi, si rende conto che non può più usare semplicemente la forza che per gli uomini può proseguire anche per tutta la vita, possono immaginare di essere molto forti e quindi di potere affrontare qualunque situazione facilmente. Anche questa è una fantasia ovviamente, mentre la bimbetta che poi diventa donna ha dovuto imparare che con le sue sole forze non riesce ad affrontare molte situazioni, la sua forza fisica intendo dire, è questa l’idea originaria che poi prosegue con le dovute varianti. Dunque dicevo trova un altro modo per acquistare il potere. La fantasia più comune del fanciullo è conquistare il mondo con la sua forza, abbatterlo, per mostrare al mondo intero ma soprattutto agli altri uomini che è lui il più forte di tutti, tutti gli sport vanno in questa direzione, mentre la fanciulla non è interessata a conquistare il mondo ma a conquistare il fanciullo che ha conquistato il mondo e cioè conquistare quella persona che la farà sentire la più forte, la più brava, non rispetto agli uomini ma rispetto alle altre donne. Questa è la fantasia più comune, non sto dicendo che sia universale però è molto frequente, straordinariamente frequente.

Claudia: se posso interrompere, noi dobbiamo considerare che in questo momento noi siamo di fronte a un momento storico in cui da molti anni il ruolo della donna non è riconosciuto … il femminismo ha complicato ma tuttavia il ruolo della donna non è riconosciuto e questa fantasia…

È ovvio che questa fantasia segue a tutto il resto, e cioè al modo in cui le bambine vengono addestrate, soprattutto dalla madri che sono coloro che generalmente se ne occupano, così anche i bambini vengono per lo più addestrati dalle madri, però non mi stavo riferendo a questo, certo che questo ha le sue ragioni storiche, è chiaro che se i bambini venissero allevati non più dalle mamme o da chi per loro ma da macchine tutto cambierebbe perché non ci sarebbe più un addestramento per la bambina a crescere rispettosa e soprattutto consapevole della sua fragilità e l’uomo non crescerebbe più con la convinzione di dovere esibire e mostrare la sua forza per proteggere e difendere quelli più fragili, quindi in genere le donne. Questo procede da una tradizione millenaria, ora perché sia avvenuto questo è difficile a dirsi con esattezza, certo si possono fare delle ipotesi ma non è questo che ci interessa particolarmente, a noi interessa valutare la situazione, come diceva lei giustamente, così come si presenta adesso, e intendere se sia possibile fare un passo avanti rispetto a questa situazione. È vero che c’è questa idea che le donne siano sempre state sottomesse nel corso dei millenni, ma qualcuno potrebbe anche dire: sì certo, ma le donne dov’erano in tutto questo tempo, perché si sono lasciate sottomettere, anziché imporre, come hanno fatto gli uomini, la loro volontà e iniziare fin da subito un gioco alla pari? Perché non è avvenuto?

Beatrice: io penso che le donne, se così è avvenuto, io penso che le donne abbiano il loro tornaconto perché vogliono “sono piccoline” “sono fragili” “sono belle”, i canoni della bellezza femminile è fatta di queste qualità …

Occorre avere una certa stima delle donne per potere pensare che in qualche modo c’entrino, perché se no in effetti, se uno dovesse considerarle come delle entità incapaci di intendere e di volere, come talvolta accade per altro, allora effettivamente sono lì, sono delle cose e gli uomini le hanno usate come meglio hanno creduto, ma non è così…

Claudia: non penso che sia così…

Per molti, più di quanti lei immagini, invece funziona proprio così, cioè vedono in questo modo le donne, in occidente anche ma soprattutto in altre culture. In ogni caso tutto questo ha una sua portata nella misura in cui si riesce a intendere un po’ meglio come funziona il pensiero, perché è il pensiero che costruisce le fantasie. Tutto sommato l’esistenza di fantasie maschili e femminili potrebbe anche essere una cosa irrilevante …

Claudia: possiamo parlare di “potere e accoglienza” perché era di questo che volevo dire io, e di come si contrappongono il potere e l’accoglienza…

Si può pensare, come è stato pensato per lo più, la donna come “accogliente” per una questione anche fisiologica come lei ricordava, però la questione forse è un po’ più complessa: è così o le è stato insegnato che è essere così? Perché anche questo aspetto potrebbe essere del tutto ininfluente, se non fosse supportata da una robusta e potente e antica fantasia, di dover essere “accogliente” per esempio, l’ha imparato perché glielo ha insegnato la mamma. Ho visto delle volte le mamme con le bambine piccole, con messaggi più o meno espliciti, le indirizzano in una certa direzione che è quella che vi dicevo prima, della sottomissione, della remissione, della consapevolezza della propria fragilità, e cioè che alcune cose lei non le può fare, anche se non viene formulato in modo esplicito. Ma la mamma riproduce un modello che ha imparato, dalla nonna in questo caso, e la nonna dalla bisnonna e così via.

Sandro: sembra che cerchi di arrivare a una sorta di definizione “naturale” della differenza fra uomo e donna, come se esistesse una sorta di naturalità … ma sono costruzioni comunque che vengono da una tradizione, costruite dal linguaggio cioè dal pensiero, la questione diventa complicata se uno cerca una sua origine naturale e quindi se si sono suddivisi questi ruoli non è stato un caso e si sono mantenuti. È chiaro che anche la donna ha avuto un suo tornaconto ad assumere un certo ruolo anche a subire certamente. Quello che ci interessa a questo punto è sapere qual è questo tornaconto, perché la donna accetta? È un po’ il discorso della servitù volontaria, perché le persone accettano il potere passivamente e non si ribellano quando alla fine dei conti il re è un uomo piccolino, grande così, e basterebbe una sberla per buttarlo giù? Ovviamente c’è tutta una serie di tornaconti per i quali la cosa si è strutturata in un certo modo al punto tale che sembra quasi impossibile poterla modificare e la questione dell’impossibilità porta poi alla questione della naturalità: l’uomo è fatto così, la donna è fatta cosà, e non si può far niente…

Claudia: io volevo dire qualcosa di diverso, forse non mi sono spiegata bene, il concetto di “accoglienza” che è una cosa buona, una cosa bella, cosa grande, la capacità di poter accogliere opinioni, idee differenti che volevo contrapporre al potere che è la verità assoluta, l’accoglienza è la possibilità di poter vedere tante verità diverse …

Perché non prendiamo la cosa in modo più radicale, dopo tutto l’“accoglienza” è un significante, un sostantivo femminile singolare e come tale forse va considerato nel senso che a questo termine, a questo significante possiamo appiccicare una sequenza notevole di significati e ogni volta che mettiamo un significato diverso cambia tutto. La questione presa in termini più radicali comporta una domanda, che chiede se il linguaggio sia strutturalmente una metafisica, con tutto ciò che questo comporta ovviamente. La questione la tratta anche Heidegger ponendo un asserto che ho trovato di qualche interesse e cioè l’asserto dice così “la logica è la metafisica della verità”, adesso vi dirò perché. Ciò che interviene nel pensiero metafisico è, già da Platone, un passaggio dal mondo sensibile che è quello falso e ingannevole, a quell’altro che è quello vero, il mondo delle idee, cioè la verità sta nell’Iperuranio. Questo concetto si è mantenuto fino ad oggi, anche se non si parla di iperuranio. Il linguaggio è strutturalmente metafisico, anzi la metafisica è il linguaggio, questa è la considerazione che sto facendo ultimamente, perché la metafisica è strutturata come trascendenza, vale a dire come lo spostarsi da un elemento, il quale elemento per essere quello che è, necessita di un’altra cosa, così come aveva intravisto Platone. Uno spostamento, un rinvio, ciascuna parola funziona come un segno e cioè come un rinvio, il significato di una parola, diceva Wittgenstein, è l’uso che se ne fa, non tenendo però conto a sufficienza del fatto che per potere usare una parola, questa parola deve avere già un significato perché se non avesse nessun significato in nessun modo, né potesse mai averne, non potrei usarla in nessun modo, in nessuna combinatoria, quindi deve già avere un significato e la questione si fa complicata perché a questo punto ogni volta che una parola rinvia a un’altra è sempre, come direbbe Heidegger, una sorta di “in vista di …” cioè la parola è questa in vista di un’altra, che è il suo significato. Questa struttura è quella della metafisica, della trascendenza, nel senso che una parola trascende sempre verso un’altra, e quell’altra la trascende nel senso che dice tutto ciò che nella parola presente, immanente non c’è. Un significato è ciò che determina un qualche cosa, come è noto, ma quale significato? Wittgenstein diceva che il significato è l’uso. Prendete la parola “mare”, io posso dare un significato a questa parola, posso definire “mare” come una distesa di acqua salata che circonda le terre emerse del pianeta, è una definizione abbastanza corretta, però quando qualcuno dice in piena estate “domani vado al mare” questo “mare” ha esattamente questo significato? No, “mare” in questo caso significa “spiaggia, ombrellone, caldo etc., cioè ha un significato totalmente differente, qual è dunque il significato corretto? Il dizionario, come sapete, fornisce una definizione ma questa definizione non è “la definizione”, è semplicemente, così si costruiscono i dizionari, l’uso che ha quel termine nel senso di una maggiore occorrenza, cioè il più delle volte compare con quel significato, il più delle volte, ma moltissime volte no, quindi come gestire questa questione? Come fanno cioè gli umani, i parlanti a gestire una cosa del genere? Dove il significato di una parola che è determinante perché è in base a questo significato che si impone, si deciderà di tutto quello che ne segue, dunque dicevo, come gestire una cosa del genere, come fa la metafisica? Immagina che il significato delle parole sia quello che si usa in quel momento, però che questo abbia una garanzia che questa cosa che si sta dicendo non sia totalmente arbitraria, ha una garanzia e la garanzia sta nell’iperuranio ovviamente, non c’è nessun altro luogo dove potrebbe stare, e l’iperuranio è il riferimento costante di tutto il pensiero occidentale, dalla religione alla scienza, c’è sempre l’iperuranio come garante ultimo che le cose siano esattamente così come appaiono, e non altrimenti. Le cose appaiono, in accezione heideggeriana del termine, cioè come vengono in luce, come si mostrano, questa posizione è singolare perché a questo punto le implicazioni sono notevoli e cioè le implicazioni che seguono alla considerazione che la metafisica sia il linguaggio, perché è fatto di rinvii, ogni parola per essere quella che è deve rinviare a qualche altra cosa che non è presente ancora, lo sarà appena lo dirò: questa è la struttura della metafisica, cioè una cosa non è mai quella che è se non in attesa di qualche cosa che è sempre “in vista di …” che è di là da venire. Heidegger fa un discorso intorno a tutto ciò muovendo dal principio di Leibniz, lui pone i tre principi della logica e aggiunge quello di Leibniz cioè il “principium rationis”, il principio secondo cui ogni cosa ha una ragione, cioè qualche cosa che lo trascende, la “ragione” è questo, la “ragione” non sta nella cosa ma sta altrove, in questo movimento continuo consiste la metafisica, qui intendo sempre “metafisica” in accezione heideggeriana del termine che riprende poi quella di Platone. Ora se, come sto dicendo, il linguaggio è la metafisica allora c’è una conseguenza immediata, e cioè che qualunque certezza si voglia affermare, questa certezza risiede nell’iperuranio, necessariamente, che può apparire una bizzarria, che garanzie mi dà l’iperuranio? Nessuna appunto, nessuna. Non c’è assolutamente nessuna garanzia, e di conseguenza l’approccio a ciò che si dice potrebbe essere completamente differente tenendo conto che, come dicevo, questo essere della parola sempre in vista di qualche cos’altro è sempre in vista dell’iperuranio, di quella verità che sta là, però non è reperibile perché quando io trovo il significato anche questo significato ovviamente, essendo fatto di parole, diventa ciò che è immanente e quindi anche lui sarà “in vista di …” un altro significato che lo garantisce e così via all’infinito, dopo tutto la semiotica ha fatto questo. Anche il segno di De Saussure visto in questo modo potrebbe intendersi a questa maniera: la barra che divide il significante dal significato è un “in vista di …” e cioè come una trascendenza. L’unica possibilità di evitare un impiccio del genere è che la cosa significhi da sé, cosa che però è un grossissimo problema, sarebbe quella che i medioevali chiamavano l’emanazione. Dicevo che una cosa del genere comporta delle implicazioni notevoli perché modifica radicalmente il modo di parlare, e di conseguenza di pensare, perché se si toglie l’iperuranio allora non c’è più la garanzia che quella cosa che sto dicendo sia proprio quella, e sorgono dei problemi: per esempio la domanda che lei poneva prima rispetto all’“accoglienza” a questo punto tecnicamente non potrebbe farsi, non potrebbe porsi, se non sapendo ciò che si sta facendo, e cioè si sta facendo questo esattamente: prendo questo termine “accoglienza”, è una parola italiana si può usare, dopo di che la inserisco all’interno di un gioco linguistico fornendola di un certo significato e in base a questo traggo delle conclusioni, cioè costruisco un altro gioco linguistico, a che scopo? Semplicemente per costruire un altro gioco linguistico, non c’è nessun altro scopo. Vi rendete conto immediatamente che questo modifica radicalmente il modo in cui si parla e quindi il modo in cui si pensa e anche soprattutto mette in luce un altro aspetto che riguarda, in questo caso più propriamente e più direttamente, la questione del potere, dove volevo arrivare, e cioè per evitare una cosa del genere, per evitare cioè che si verifichino tutti questi fenomeni di cui stavo accennando e cioè la dissoluzione inarrestabile di qualunque significato che trascende sempre in altri e quindi impedisce radicalmente la costruzione di qualunque cosa che possa mostrare di sé una qualche stabilità, allora devo imporre che il significato sia quello, con un atto di imposizione, di volontà e di imposizione. È questo che in fondo Nietzsche poneva, anche se non poneva la cosa esattamente in questi termini: tutto ciò che fanno gli umani è imporre il significato, perché questo significato rimanga quello che è e quindi possa funzionare in modo tale da dare un supporto vero a tutto ciò che seguirà. C’è soltanto questa via, l’imposizione, per potere compiere questa operazione cioè per potere pensare che il significato sia quello, e se il significato è quello allora non può che seguire quest’altro, cioè un esercizio di potere. Il parlante si trova di fronte a sorta di “bivio”, o imporre incessantemente mentre parla il suo potere sui significati che sta utilizzando per renderli stabili, fissi e quindi partecipabili soprattutto, perché se sono partecipabili posso imporli anche ad altri anzi gli altri devono parteciparne, oppure prendere in considerazione l’eventualità che questa operazione non produca nulla, cioè il significato continua a essere un incessante rinvio, cosa che non è una novità, certo lo si sa da moltissimo tempo, però la novità sta che in questa occasione tutto questo viene applicato anche allo stesso discorso che si sta producendo, il che significa che qualunque discorso si faccia non è nient’altro che un gioco linguistico fatto al solo scopo di costruire giochi linguistici, non può né manifestare uno stato di cose né dire come stanno le cose, né intendere alcunché di stabile, può soltanto continuare a giocare. È un gioco ininterrotto, senza fine, “gioco” sia nell’accezione strutturale, nel senso che è fatto di regole, per cui una certa mossa è consentita e un’altra no, ma anche sotto l’aspetto ludico, cioè di divertimento, piacevole: costruire scene, immagini, storie, racconti, ininterrottamente, sapendo e non potendo non sapere che sono soltanto questo, e che dietro questi racconti ci sono altri racconti, altri racconti, altri racconti ancora all’infinito. Certo questo è un modo di pensare e di dire molto più leggero, che però è praticamente, o quasi, impraticabile questo è l’unico difetto, se così vogliamo dire, cioè la praticabilità di una cosa del genere è di una difficoltà inimmaginabile perché il linguaggio è costruito in quel modo e cioè deve affermare qualche cosa e affermandola la fa essere quello che è, e quindi appare così come è, e di lì, come dicevo, pensare che sia proprio così il passo è brevissimo, quasi inevitabile. Occorre un esercizio notevole per sottrarsi, sottrarsi in un certo senso al fascino della tecnica, perché il linguaggio è la prima tecnica utilizzata dagli umani, una tecnica che mette in atto un meccanismo per ottenere certi risultati, produrre degli strumenti per soddisfare delle richieste, perché il linguaggio fa questo, è la prima tecnica. Il fascino che ha oggi la tecnica è che mantiene ciò che promette, e cioè promette di sentirsi dio, consente di avere tutto il mondo sotto controllo, fa questo il linguaggio, fa ciò che promette, nel senso che produce, crea qualunque cosa, basta costruirla, basta trovarsi presi in sequenze linguistiche e si creano immagini, scene, storie di ogni sorta. Ma a questo punto c’è la possibilità, o almeno potrebbe esserci, di sapere ciò che si sta facendo oppure no, un po’ come tenere conto che il linguaggio è metafisica, non si può evitarlo, almeno appare così, e non si può evitare che una parola sia quella che è in quanto rinvia a un'altra, però è possibile tenerne conto.

Ferruccio: scusi, però il linguaggio deve essere poi reificato …

Questa operazione di reificazione non è necessaria, e in effetti potremmo anche non farla e lasciare che il linguaggio faccia ciò che fa ininterrottamente, e cioè costruire sequenze. Nella costruzione di queste sequenze costruisce anche l’idea, che è una costruzione, che esista qualche cosa fuori dal linguaggio, lo può fare e infatti lo fa, anzi la più parte delle persone immagina che sia proprio così e cioè che le cose siano fuori dal linguaggio, però non offre la possibilità, utilizzando il linguaggio, di provare una cosa del genere anche perché, come diceva Heidegger, nell’asserto che prima ricordavo e cioè che la logica è la metafisica della verità, la logica si occupa proprio di questo di stabilire quali sono le leggi che regolano il pensiero e che consentono di stabilire quali affermazioni sono vere e quali non lo sono, però compiere questa operazione necessita di rinvii continui, necessita cioè che ciascun elemento tragga la propria esistenza da qualche altro …

Ferruccio: la differenza tra Freud e Lacan … sul piano del simbolico … “perché non ce l’hai?” chiedono i maschi … ho visto molti volti spaventati mi sembra doveroso mescolare le due esperienze, le due teorie … la curiosità …

Se così come appare, il linguaggio è metafisica, allora non c’è salvezza, c’è soltanto la possibilità di prenderne atto e di tenerne conto, cioè di non cadere nell’ingenuità di pensare che ciò che si sta facendo definisca uno stato di cose, compreso ciò che sto facendo in questo istante ovviamente: la costruzione di un gioco linguistico, un gioco linguistico che consente di mostrare il funzionamento di un gioco linguistico, tutto qui, non c’è molto altro che però, come dicevo, non ha soltanto un aspetto strutturale ma anche un aspetto ludico e cioè il fatto che potrebbe anche essere divertente costruire queste cose, costruirle solo per lo scopo di farle, e cioè per trovarsi di fronte sempre a nuove cose, esercitando un potere? Beh se con esercizio di potere si intende il rinvio di un elemento linguistico a un altro elemento linguistico sì, allora sì, d’altra parte ho appena detto che se il linguaggio è metafisica allora l’esercizio in questo senso è assolutamente inevitabile, si può sapere quello che si sta facendo, questo sì, anche se, come dicevo prima, è straordinariamente difficile tenerne conto però non è impossibile. La cosa più singolare è che si modifica radicalmente l’approccio nei confronti di qualunque cosa. Lei evocava Freud, Lacan, per esempio si può considerare la teoria di Lacan come un gioco linguistico al pari di qualunque altro, né più né meno e cioè sprovvisto di significato, in un certo senso, nel senso che non ce l’ha propriamente, occorre fornirglielo e ciascuna volta che glielo si fornisce si fornisce un significato che procede da una serie di altri significati precedenti che sono stati stabiliti; non si può smettere di parlare quindi non si può smettere di pensare e quindi questo procedimento è sempre ininterrottamente in atto, cioè la costruzione di nuove sequenze. Ritengo che questa posizione di considerare qualunque atto che gli umani praticano come un esercizio di potenza ponga la questione in termini più radicali di quanto abbia fatto Freud, e cioè che ciò che Freud ha elaborato possa costituire rispetto a questa una sovrastruttura per usare i termini di Marx, sicuramente non è originaria né prioritaria …

Intervento: anche nel Piccolo Hans c’era la curiosità …

Ne parlava anche Aristotele nella Metafisica, usando la parola greca “θαμa” che viene tradotta in genere come “curiosità” “meraviglia”, mentre Severino insiste che “θαμa” originariamente era il terrore, la paura, l’orrore degli umani di fronte al fatto di non potere controllare né gestire nulla di ciò che li circonda, da qui la necessità di costruirsi un pensiero, un’immagine di un qualcuno che invece abbia questo potere con il quale allearsi, e da qui le religioni. Questa era la tesi di Severino sulla nascita delle religioni, cioè allearsi con qualcuno che è più potente, più forte. Quindi prima di affrontare questa questione, Claudia, sull’“accoglienza” dovremmo forse riflettere sul significato che stiamo utilizzando, su questo termine e anche sul perché usiamo un certo significato anziché un altro, perché da questo seguirà tutto ciò che diremo. Questo è un modo non usuale di approcciare le cose in genere si approcciano così in modo molto sommario, si immagina che una parola abbia un significato e da lì si parte per chiedersi se è così o non è così senza tenere conto che si è attribuito o si immagina che esista un significato di quel termine magari univoco, magari che significa proprio quella cosa lì, invece è un problema perché non c’è uscita dalla metafisica, non c’è uscita da quella struttura che impone, perché il linguaggio è fatto così, che ciascun elemento per essere quello che è deve rinviare a un altro, se no è niente, se il linguaggio non funzionasse così non funzionerebbe, quindi di conseguenza gli umani non sarebbero mai esistiti, perché senza linguaggio non esistono perché non c’è la possibilità nemmeno di pensare l’esistenza.

Stefania: io ho colto una cosa di quello che tu hai detto, di quanto la praticabilità poi di tutto questo sia estremamente difficile. Se rendessimo operativo questo panorama che tu hai illustrato teoricamente sul quale convengo tuttavia mi domando, se lo rendessimo operativo saremmo ancora umani? Saremmo più vicini alle macchine …

Quando per esempio uno gioca a poker con gli amici gioca per il piacere di farlo, a meno che non sia un professionista, non lo fa per portare via venti euro all’amico, ma solo per il piacere di farlo, ora il sapere che questo è un gioco, sapere come funziona tutto quanto, sapere esattamente quello che si sta facendo non toglie il piacere del gioco perché in quel momento fa come se il gioco fosse la cosa più importante dalla quale tuttavia può sottrarsi in qualunque momento, è assolutamente consapevole di quello che sta accadendo, lo fa perché lo diverte in quel momento, con quelle persone, questo non toglie il piacere di fare certe cose, anche se si sa benissimo magari anche perché si prova quel piacere, lo si può sapere in effetti ma se lo si vuole provare perché no? L’unica cosa che scompare probabilmente è la paura, l’ansia, l’angoscia cioè tutto ciò che effettivamente rende gli umani quello che sono, tutte queste cose probabilmente sì non avrebbero più motivo di esistere…

Beatrice: beh se una psicanalisi compie un’operazione di questo genere non è poi così male, no?) in effetti dicevo sì non c’è possibilità di uscire da questa struttura c’è soltanto la possibilità di averne la consapevolezza tutto qui cioè sapere quello che sta succedendo, tutto quello che si sta facendo, che però questo già sarebbe una cosa devastante e inimmaginabile per qualunque forma di governo, di stato, sarebbe una catastrofe di proporzioni bibliche perché le persone non sarebbero più ricattabili …

Stefania: è un dubitativo, personalmente penso che questo tipo di discorso io lo reputo estremamente efficace da mettere in evidenza quelli che possono essere le radici del potere a partire da una pratica di ascolto analitico, esco giusto da una seduta e dove a partire proprio da due parole che hanno in effetti il potere della parola. Due parole che aprono una voragine, non c’è la dimensione che stiamo giocando a poker in quelle due parole si gioca una questione di vita o di morte, è la carne viva lì, ed è solo nell’attraversare quella carne viva che puoi arrivare forse a un distanziamento, ma è solo nell’attraversare quella tragedia. È su questo punto che io collego il discorso che fai tu, deve essere l’attraversamento della tragedia che la parola scatena, se c’è l’attraversamento del deserto stai sempre al di qua del deserto bisogna andare al di là …

Una persona può in seguito all’intervento dell’analista oppure in seguito a qualche cosa che lei stessa dice all’improvviso accorgersi di qualcosa, delle volte anche con meraviglia, con stupore, accorgersi di qualcosa che è come se prima non ci fosse, ma da dove viene questa meraviglia? Perché si meraviglia di qualcosa che di fatto o sapeva già, ma non poteva saperlo, oppure è una cosa effettivamente nuova che non c’era prima, ma in questo caso la meraviglia non è così forte, la meraviglia è forte quando interviene qualche cosa che finalmente si riesce a dire e che non poteva dirsi prima per via di tutti i meccanismi di cui Freud ci ha raccontato, e questo va benissimo, ma il discorso che sto facendo comporta un altro aspetto e cioè la possibilità di non trovarsi più presi nella meraviglia di fronte a qualche cosa che compare nel proprio dire, perché è come se fosse già da sempre stato. Ma questa apertura è come se facessero parte del gioco, ciascuna volta in cui si parla si producono cose nuove, ci si può anche meravigliare certo, e di fatto funziona così, come fai a meravigliarti di una cosa che sai che è così che funziona, ogni volta costruisce nuove sequenze e sono “nuove” in un certo senso ma anche connesse e legate ad altre perché non vengono da nulla ovviamente, quindi sì, è così che succede come tu descrivi, molte volte in un’analisi ma questo ci pone una questione e cioè come avviene che la scoperta di quella certa cosa produca tanta meraviglia? Se fosse possibile, ritorniamo alle possibilità di conoscere perfettamente il funzionamento di questa cosa che chiamiamo “linguaggio” ecco questa “meraviglia” o in accezione di cui parlava Severino, del θαμa, cioè dell’orrore, della paura eccetera, tutto questo non avrebbe nessun motivo di esistere, semplicemente è un’altra sequenza linguistica che si aggancia ad altre sequenze linguistiche, che procede da altre sequenze linguistiche, come in un caleidoscopio. Se compare questa meraviglia, se qualcosa si apre all’improvviso come uno squarcio eccetera è perché c’è stato un intoppo che tecnicamente non sarebbe dovuto essere, e questo intoppo si è potuto costruire perché non c’è la conoscenza, la possibilità di sapere come funziona questa cosa che gli consente di pensare …

Sandro: scusi, è anche perché si è attribuito un certo significato a una certa cosa e che questo significato sia esattamente quello, prima parlava della tragedia, com’è che si costruisce una tragedia? Difficile attraversare la tragedia, ma la tragedia l’attraversi verso l’articolazione di tutte le significazioni …

Beatrice: l’importante è che l’analista non creda alla tragedia …

Stefania: quello che cercavo di mettere in evidenza è che il processo, parlavo di una situazione molto peculiare. Sono d’accordo che la tragedia è una costruzione, dici “fantasie” io li chiamo “fantasmi” è vero che è così …

Stefania: certo che l’analista non ci crede …

Beatrice: deve “non crederci”, la formazione dell’analista riguarda anche e soprattutto le proprie credenze, quindi non deve essere preso da questo stupore e meraviglia …

Stefania: però deve creare una situazione dove c’è “un come se”. È molto difficile, perché noi siamo tutt’uno con il pensiero, siamo tutti dentro a quel pensiero. Non è che “provo rabbia” sono la rabbia, è questo il passaggio …

Parli di una questione che è importante in una pratica certo, cioè quando ci si trova di fronte a una persona che crede in un’infinità di cose, le crede fortissimamente e occorre trovare il modo perché incominci a metterle in gioco, però a questo punto le considerazioni che facevo prima potrebbero anche in teoria mettere in discussione una cosa del genere: il fatto che queste persone abbiano delle fantasie, dei fantasmi, che credano cose bizzarre eccetera, e cioè tutte queste cose che sono state costruite, sappiamo che di per sé non sono né bene né male, sappiamo anche che se la persona non avesse avuto dei buoni motivi non le avrebbe costruite, quindi se le ha volute costruire è perché c’è un buon motivo, che cos’altro sappiamo? Sappiamo che è piuttosto fedelmente ancorato a queste superstizioni, queste credenze, quindi in teoria perché dovrebbe abbandonarle? A che scopo? Tenendo anche conto che sono la sua vita, le cose in cui crede sono ciò di cui sono fatti i suoi pensieri quotidianamente, incessantemente, certo può accadere che una persona faccia una domanda di analisi ma per quale motivo lo fa? Per sbarazzarsi di queste cose? E qui la questione è sottile perché in effetti chiede di sbarazzarsi di qualche cosa che lui stesso ha costruito, questo già Freud lo sapeva benissimo …

Stefania: deve sbarazzarsi di qualche cosa che in ultima analisi si vuole tenere …

Sì, ma perché volersene sbarazzare? Non ci sarebbe nessun motivo in teoria. Ma forse c’è un motivo: “se me ne voglio sbarazzare è perché dicendo questo io dico che non lo voglio e quindi non ne sono responsabile”, questo potrebbe essere un ottimo motivo, non sono io che le voglio, queste cose mi sono piovute tra capo e collo e vorrei che qualcuno me le levi di torno, cioè non ne sono responsabile. In effetti una delle cose più difficili lungo un percorso analitico è giungere alla consapevolezza della responsabilità e cioè del fatto che questa cosa l’ho costruita io per questo motivo, poi che il motivo sia buono o no questo è un altro discorso, non ci interessa adesso.

Beatrice e in genere continua a costruirla quella cosa che per lui è importante …

Non può non farlo, in effetti non può non continuare a costruire delle certezze, delle verità, come dicevo prima, dei significati, questo indipendentemente dal fatto che inizi un’analisi oppure no, ma da parte di chiunque, è continuamente preso nella metafisica cioè in questa struttura in cui il significato di qualche cosa, cioè la sua verità, è sempre proiettata nell’iperuranio, e questo crea qualche problema ogni tanto, non sempre, ma qualche volta sì. Però sembra tutto apparentemente direi addirittura straordinariamente semplice, forse la difficoltà sta nell’accorgersene. Parlando si costruisce letteralmente una metafisica, la metafisica esige che una cosa sia quella che è in base ad un’altra, a questo punto posso saperlo oppure no, tutto qui, se lo so allora non ho più la necessità di imporre dei significati, non ho più la necessità di fare nulla di tutto ciò, sarebbe, come tu prima paventavi, come diventare macchine …

Stefania: la vita stessa, le relazioni, il narcisismo anche qua funziona, uno sta bene quando si sente di corrispondere all’ideale di se stesso, quando ti senti uno “strafigo” la vita ti va da dio … dopo di che ti cade un bicchiere d’acqua e si scatena la tragedia. Io penso che c’è sia difficilissimo a raccontarsela un minimo giusta, anche perché mamma e papà ci hanno insegnato che devi essere o non devi essere geloso del tuo fratellino … se sei il primo devi essere “accogliente”. Tutta questa scalata al potere è per la primogenita l’unica scalata sul secondogenito. La questione però è non potere riconoscere che il secondogenito l’hai considerato poco bene e poiché tu non ti puoi riconoscere cominci a costruire tutta una serie di sovrastrutture che servono a continuare a scalare il potere, è una cosa così semplice dire “non lo reggo” perché è venuto a scombinare tutto il mio quartier generale. Giungere a dire questo sembra impossibile, questo è il dramma. Nella storia che ho presente che è una storia di qualche ora fa, lo impedisce il fatto che per non perdere l’amore di mamma devi fare fin da piccolissimo dei compromessi terribili con te stesso, che il fatto di dire “quanto voglio bene a questo fratellino” costruisce tutta una serie di compromessi per poi costruire tutta una serie di storie …

Beatrice: ma ti rendi conto che è questo il “disagio” della civiltà, non del bambino o della bambina, ma della “civiltà”, perché gli umani funzionano così e quindi se incominciassero ad avere la responsabilità del loro pensiero, delle loro costruzioni forse non avrebbero bisogno di tutto il buonismo, il perbenismo e qualcosa potrebbe modificarsi forse anche la continua storia che gli umani hanno continuato a costruire e continuano a costruire da millenni …

Stefania: il fatto che qualcuno venga il analisi è già … la questione è che noi siamo lì perché quella persona di cui noi siamo in ascolto, noi siamo lì perché possa arrivare lei a dire “ah … io lo detestavo tantissimo ma non ho mai potuto dirmelo perché se no perdevo l’amore di mamma” cioè è questo che noi dobbiamo fare …

Sandro: questo è un passaggio importantissimo, ma il passaggio successivo è realmente il “disagio della civiltà” ed è che persiste l’amore di mamma, perché non è il fatto stesso di non riuscire a dire non “lo reggo”, che è già qualcosa il dirlo, ma è la necessità dell’amore di mamma che poi si trasmette e trova le sue variazioni in altre cose e su cui si struttura la civiltà, è questa necessità perché se non ci fosse questa necessità dell’amore di mamma non ci sarebbe neanche questa necessità, o questa esigenza, di dire “non lo reggo”, perché non si porrebbe il problema …

Stefania: siete voi che mi insegnate la catena linguistica sono dei passaggi … uno che ha trentacinque anni che ha costruito tutta una serie di cose …

Sandro: noi viviamo in una società in cui abbiamo bisogno dell’amore di mamma, di protezione, e avendo bisogno di questa protezione siamo in concorrenza l’uno con l’altro, ci ammazziamo, ci detestiamo facciamo qualunque cosa, senza rendersi conto che ciò che sostiene tutto è questa esigenza di amore di mamma …