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15 marzo 2023

 

I concetti fondamentali della filosofia aristotelica di M. Heidegger

 

C’è una questione importante, che riguarda la suddivisione che fa Heidegger circa la retorica, e cioè la retorica come τέχνη e la retorica come πρᾶξις, cioè come agire degli umani l’uno con l’altro. È questa seconda figura che viene presa in considerazione, la parte tecnica invece ci interessa poco. A pag. 158. Poiché i differenti λόγοι sono orientati sull’essere l’uno con l’altro… Abbiamo detto tante volte che l’uomo, per Heidegger, è un dialogo continuo …” si può considerare la retorica come παραφυές (il nascere) della διαλεκτική, nonché περί τά ἢθη πραγματεία (un comportamento pratico), un’indagine che può definirsi adeguata in quanto πολιτική. La πολιτική è l’agire degli umani gli uni con gli altri. La retorica è παραφυές “qualcosa che nasce, si sviluppa e fa tutt’uno con la trattazione degli ἤθη (comportamenti), propriamente definibile come πολιτική. L’etica rientra nella politica. Qui però dobbiamo lasciare da parte altri moderni concetti di etica e di politica, e intendere la nostra indagine come orientata in primo luogo sull’“essere l’uno accanto all’altro”,… Su questo aspetto insiste continuamente. …e attenta in particolare all’essere-posto del singolo nei confronti dell’altro. Questa è la retorica in quanto πρᾶξις: l’agire dell’uomo in quanto dialogo continuo con l’altro. Con tale indagine “concresce”, παραφυές, il διαλέγεσθαι (il dire), giacché l’essere l’uno con l’altro è determinato dal parlare l’uno con l’altro. Cosa significa essere l’uno con l’altro? Parlare l’uno con l’altro. La definizione dell’essere l’uno con l’altro nella πολιτική coincide con ciò che viene trattato nella retorica. A pag. 159. Aristotele entra maggiormente nel dettaglio della terza πίστις, il λέγειν, nella misura in cui esso è un mostrare qualcosa. Nel λέγειν egli distingue determinate possibilità: posso mostrare qualcosa adducendo un esempio, oppure motivando una determinata tesi. Il δεικνύναι (mostrare) tramite il λόγος è duplice: 1. παράδειγμα, 2. συλλογισμός ρητορικός, come ένθύμημα. Troviamo la stessa distinzione, in termini corrispondenti, nella διαλεκτική, che tratta dei λόγοι in cui non si mira a un prendersi cura, ma a un parlare l’uno con l’altro di una questione scientifica. No, questa è la dialettica, sapere come stanno le cose. Il duplice modo di mostrare qualcosa si dà anche nella διαλεκτική, come segue: 1. έπαγωγή (induzione), 2. άπόδειξις (deduzione) (συλλογισμός). Al παράδειγμα corrisponde έπαγωγή, all’ένθύμημα l’άπόδειξις. Sono le due forme classiche dell’inferenza: l’induzione e la deduzione. La deduzione avviene tramite sillogismi, l’induzione tramite παράδειγμα, tramite eventi particolari. Ma cosa s’intende con ένθύμημα? L’entimema è una figura logica, nonché retorica, che generalmente si considera come quel sillogismo dove o la premessa maggiore è soltanto possibile oppure è assente, si dà come implicita, come nota a tutti, per cui non c’è bisogno di enunciarla. Ενθυμεῖσθαι significa: “prendersi a cuore qualcosa”, “ponderare qualcosa nel proprio intimo”, “esaminare a fondo”; ένθυμεῖσθαι μή (non): “badare a che qualcosa non accada”, “prendersi cura che qualcosa non succeda”. Ένθύμημα viene applicato a un determinato λέγειν, che tende in sé a un prendersi cura, un discorrere di qualcosa con gli altri nel quale – per sua propria tendenza – ne va del prendersi cura. Άπόδειξις significa: non discutere semplicemente di stati di cose per ciò che sono, ma parlare in modo tale che, tramite il parlare stesso, nasca e si sviluppi il πιστεύειν (convinzione). Sono queste le due possibilità implicite nel λόγος, nella misura in cui esso ha il compito di far vedere. Fare vedere è fondamentale nella retorica. Un discorso che riesce a far vedere ciò di cui parla è vincitore, perché di fronte al vedere le persone si persuadono immediatamente. Παράδειγμα è il “condurre verso qualcosa”… È l’induzione che conduce verso l’universale. …e ciò accade, nel discorso così come o stiamo tematizzando qui, adducendo un esempio, un caso concreto. Appunto l’induzione: questa mattina è sorto il sole (premessa maggiore), anche ieri mattina è sorto il sole e, siccome non abbiamo motivo di pensare che domani sarà differente, allora sorgerà il sole anche domani. Παρά significa ciò che è attualmente presente, che sta lì davanti a noi, ciò che è esibito, direttamente addotto, dimostrato con l’esempio. Questa questione è importante nei sillogismi, sia nell’induzione che nella deduzione. Παράδειγμα: “condurre verso qualcosa”, ma condurre a qualcosa che è lì immediatamente presente: oggi è sorto il sole è una cosa che è presente a tutti. Come dire che c’è la necessità di muovere da qualche cosa che sia riconosciuto da tutti come lo stesso, e cioè che ci sia una sorta di comunanza della chiacchiera, una sorta di κοινωνία, avrebbero detto gli antichi. Tutti pensano così, e questo non è altro che il si dice che sia così, si pensa che sia così, si crede che sia così, ecc. Aristotele stabilisce la differenza delle forme parallele del λέγειν della dialettica – l’άπόδειξις e l’έπαγωγή – nei Topici, uno dei suoi primi scritti. Esso si occupa di quel peculiare λέγειν che non è άπόδειξις nel senso della “trattazione scientifica” di una questione. L’άπόδειξις è la deduzione, che generalmente si considera la forma inferenziale più certa, perché muove dall’universale e dall’universale fa discendere i particolari, che sono già impliciti nella premessa maggiore. È per questo che alcuni hanno accostato la deduzione alla tautologia, perché non dice nulla di più di quanto sia già implicito nella premessa maggiore. La differenza tra la trattazione (dimostrazione) scientifica e il συλλογιζεσθαι (fare, costruire sillogismi) e quello della ṕητορική, divengono evidenti se si considera il punto di partenza del discorso retorico, ciò a partire da cui si parla. Ciò a partire da cui si parla in un συλλογιζεσθαι è solitamente chiamato “premessa maggiore”. Con questa designazione, che orienta tutto sulla proposizione, il senso autentico del parlare va perduto. Qui dice una cosina così, al volo, ma è fondamentale. Punta tutto sulla proposizione, nella pre-supposizione che la proposizione possa condurre alla verità. Ed è in questo che il senso autentico del parlare va perduto, perché il parlare autentico non è propriamente il parlare della deduzione, il parlare autentico è quello che dice, come diceva nelle pagine precedenti, della vita, di ciò che accade, dice di un’infinità di cose. Questa in fondo è la differenza fondamentale tra la logica così come è intesa oggi e la logica antica. La logica antica, per i greci, non era un procedimento che giungeva a stabilire, a descrivere uno stato di cose, ma era il modo di parlare; dopo, passando attraverso la logica medioevale, soprattutto con Anselmo, si è arrivati a pensare che la logica consentisse di vedere come stanno le cose, cioè, una proposizione correttamente condotta conduce alla realtà delle cose. Anselmo arrivava a stabilire l’esistenza di Dio, semplicemente perché la sua argomentazione era corretta. In una scienza, ciò a partire da cui si parla deve avere il carattere dell’ἀληθής (vero)… Ciò a partire da cui si parla nella scienza deve essere vero. …deve starsene lì, libero, nel suo essere–così, in modo tale che non se ne possa domandare ulteriormente il perché; dev’essere univocamente visibile in se stesso, poiché soltanto così può costituire il possibile terreno a partire dal quale posso proseguire e dimostrare qualcosa. Qui si capisce bene il divieto di Aristotele di interrogare oltre. Ma divieto di interrogare oltre che cosa? Il divieto riguarda la premessa maggiore, quella che regge tutto; è questa che non si deve interrogare, perché altrimenti cessa di essere quella cosa certa, sicura, che se ne sta lì, immobile. Se comincio a discuterla, quella si muove da tutte le parti e non la controllo più.

Intervento: Come dire che si può dimostrare qualcosa solo a partire dalla δόξα.

Esattamente. È per questo che Aristotele aveva imposto il suo divieto di non interrogare oltre, perché sennò si incontra appunto la δόξα, cioè ci si accorge che tutto quanto è sorretto dall’analogia, dal si dice, dal si pensa, dal si crede, dalla chiacchiera. La chiacchiera è il fondamento della possibilità stessa della conoscenza, non solo della conoscenza ma della sua stessa possibilità. Nei Topici Aristotele definisce il συλλογισςμός un “λόγος (un άποφαίνεσθαι, un parlante “far vedere”) in cui subentra (si aggiunge insieme anche) qualcos’altro (un altro si aggiunge nel senso del parlare, viene visto, mostrato), un altro da ciò che c’è già fin da principio (qualcosa che è altro da ciò che viene presupposto come noto e da cui si parte nel mostrare)”. Il sillogismo è ciò che dovrebbe mostrare qualche cos’altro rispetto a ciò da cui si è partiti. Il problema è che la deduzione non mostra qualche cosa d’altro, mostra sempre ciò da cui si è partiti, qualche cosa che era già implicito nel punto di partenza. Tutti gli animali sono mortali, Socrate è mortale: è già implicito nella premessa che gli animali siano mortali, essendo Socrate un animale. Quindi, la conclusione, per cui Socrate è mortale, è già necessariamente implicita nella premessa maggiore, che tutti gli animali sono mortali, e tutti sanno che Socrate è anch’egli un animale. Vedete come la deduzione, in realtà, non dice niente, è un discorso che ripete se stesso. Proprio “lungo il cammino che passa per ciò da cui si parte” diviene visibile un altro. Nelle inferenze si parte da qualcosa e poi dovrebbe apparire qualche cos’altro rispetto al punto da cui si è partiti. Nel caso del “parlare scientifico”, άπόδειξις, l’ύπόθεσις, ciò da cui si parte, ha il carattere dell’ἀληθής ed è, nel contempo, un πρῶτον (primo): non necessita che se ne parli e che lo si mostri ulteriormente. Ciò da cui si parte parla da sé, per sé, ha la πίστις in virtù di sé, sicché al suo riguardo non ha senso addure una πίστις. Non ha senso volere persuadere qualcuno del fatto che tutti gli animali sono mortali, tutti lo sanno. Non ha senso stare a spiegare il perché, anche perché, se incominciassi a spiegare perché tutti gli animali sono mortali, correrei il rischio di trovarmi in difficoltà: questi “tutti” dovrebbe coinvolgere passato, presente e futuro, perché siano “tutti”, sennò è una parte e, quindi, non è un universale. Il συλλογιζεσθαι della διαλεκτική si differenzia dal parlare scientifico per il fatto che ciò da cui si parte, ciò che c’è già, ha il carattere dell’ἒνδοξον, è “nella δόξα”. Ciò da cui si parte è l’opinione. Mentre, dice lui, il sillogismo vorrebbe partire da qualche cosa che si mostra lì per quello che è, nella retorica invece si mostra non come la cosa così com’è ma in quanto opinione: penso che sia così, credo che sia così, ecc. Aristotele definisce l’ἒνδοξον come ciò “che a tutti, o alla grande maggioranza, si presenta in questo o quel modo, alla grande maggioranza oppure a coloro, tra i molti, che sono i più assennati, i più noti tra la gente, e godono di alta considerazione”. Il fatto caratteristico è che l’ένθύμημα parte da un ἒνδοξον, anzi non solo parte ma vi fa anche ritorno, esattamente come la deduzione scientifica parte da qualcosa che è di per sé perspicuo, per poi ritornare a uno stato di fatto che ora ha la medesima evidenza di ciò da cui si è partiti. Nel caso dell’ένθύμημα, ciò che ne risulta ha il medesimo carattere del “ciò da cui” si è partiti: è ἒνδοξον. La ṕητορική mostra un’affinità con il συλλογισςμός della διαλεκτική, nella misura in cui nel suo caso gli ἒνδοξα sono determinati. Gli ἒνδοξα della ṕητορική riguardano ciò che è futuro, ciò che è già accaduto, ciò che è presente, l’utile, il giusto e l’ingiusto, il bello e il brutto. Su tutto ciò si hanno già determinate opinioni, esistono determinate δόξαι, in base alle quali parla colui che prende la parola nell’assemblea – e anch’egli parla offrendo a sua volta una δόξα, mentre una determinata δόξα nasce in coloro che lo ascoltano. Per questo compito – partire dall’ἒνδοξον e raggiungere un ἒνδοξον – si hanno due vie: il παράδειγμα e l’ένθύμημα. Dobbiamo essere prudenti con il δεικνύναι (mostrare): non è una dimostrazione, ma una determinata modalità del parlare, da intendersi come portare in vista la cosa. Questo è il compito della retorica. Lo diceva nelle pagine precedenti: si tratta nella retorica di trovare quelle argomentazioni a favore di una certa cosa. Sì, certo, ma la retorica vorrebbe fare di più, vorrebbe portare alla vista ciò di cui sta parlando, farlo vedere, letteralmente, metterlo sotto agli occhi. Per comprendere il modo peculiare in cui il λέγειν è in sé una πίστιςIl dire è in sé un essere convinti. …può cioè parlare per sé, è importante considerare l’oggettività con cui il λόγος – in quanto discorso deliberativo, giudiziario, epidittico – ha a che fare. L’oggettività, cioè, verso che cosa si rivolge il discorso. Emergono qui elementi peculiari dell’ente: συμφέρον (utile), δίκαιον (giusto), καλόν (bello), tutti e tre in una specifica contrapposizione, giovevole-nocivo, ecc. Mi è utile o non mi è utile, mi serve o non mi serve? Queste cose lui le pone come elementi peculiari dell’ente, cioè, l’ente si mostra in questo modo: mi serve, non mi serve, molto semplicemente. Se mi serve allora diventa un utilizzabile ed esiste nel mio discorso, il mio discorso lo promuove; se non mi serve lo abbandono. Questi elementi sono determinazioni dell’ente così come esso viene quotidianamente portato al linguaggio: nel prendersi cura quotidiano pervengono al linguaggio il συμφέρον (utile), il δίκαιον (giusto) e il καλόν (bello) – caratteri d’incontro peculiari di ciò che è a tema nel λόγος ṕητορικός. È di questo che si occupa la retorica. A differenza della dialettica la retorica vuole convincere che una certa cosa è utile; la dialettica vuole mostrare che quella cosa è utile, non vuole convincere ma vuole che sia la cosa a parlare per sé. A pag. 162. Aristotele poi prosegue. Questa peculiare estensione nella temporalità si manifesta nell’ente di cui tratta la retorica. Aristotele collega i caratteri dell’esserci del mondo circostante agli elementi della loro temporalità in modo ontologicamente più preciso, in un certo senso più formale. /…/ ciò che ha un essere tale da “poter essere”, in se stesso, anche “altro”, ciò che nell’istante successivo è già diverso, non è più com’era prima. Che cosa ci mostra questo? Che tanto nella dialettica quanto nella retorica c’è l’esigenza di pensare che ciò che si dice duri nel tempo. Perché se quello che affermo, dopo cinque minuti che l’ho affermato, diventa tutt’altra cosa, non controllo più il mio discorso, cambia tutto, non posso più affermare niente, perché ciò che volevo affermare non è già più quella cosa lì; quindi, deve essere pensato come qualcosa che dura nel tempo. C’è, quindi, la necessità di pensare il tempo come durata; una necessità che potremmo dire logica per un verso e ontologica per l’altro. Logica perché è quella cosa che ci consente di potere dire delle cose senza temere che si dissolvano nel nulla un attimo dopo che sono state dette; ontologica in quanto comporta la necessità che ci sia questa cosa, che sia così, e cioè che duri nel tempo. Conformemente a questa struttura ontologica della quotidianità, anche il λέγειν è un che di peculiare. Esso non può essere una “dimostrazione scientifica”, άπόδειξις, poiché l’ente di cui diciamo che accade quotidianamente non soggiace ad assiomi teoretici, essendovi piuttosto opinioni di fondo, pareri, che non sono scaturiti da una considerazione teoretica, ma la stessa vita quotidiana ha plasmato in sé. Questo era il modo in cui Aristotele affrontava la questione. In Aristotele c’è sempre stato il tentativo di trovare, già nella Metafisica, il principio primo, qualcosa di fermo, di stabile, di sicuro su cui appoggiare il piede per andare avanti, qualcosa che si mostri per sé, si mostri autoevidente. Noi, già da tempo, abbiamo compiuto un’operazione analoga, muovendo il nostro pensiero non da ciò che appare ma da qualcosa che è autoevidente – autoevidente sempre a livello logico, proposizionale. Muovendo dal fatto che gli umani parlano, abbiamo introdotto un concetto che non può essere eliminato salvo negare la possibilità stessa di negare alcunché; ché se tolgo il linguaggio tolgo anche la possibilità di togliere il linguaggio. Quindi, anche noi siamo partiti da qualche cosa di sicuro, di solido, cioè da qualche cosa che non doveva più essere soltanto un’opinione. Tutte le teorie sono costruite sull’opinione, sulla chiacchiera, assolutamente tutte, dalla più elaborata e sofisticata alla più banale, però, muovendo da questo asserto, che gli umani parlano e che, quindi, per semplificare, non c’è uscita dal linguaggio, muoviamo da qualche cosa che non può essere negato. Certo, anche in questo caso sono soltanto proposizioni, stiamo utilizzano la logica, che sappiamo non avere alcun fondamento, e, quindi, abbiamo costruito questo discorso, che utilizziamo, a partire da qualche cosa, la logica, il sistema inferenziale, che di per sé non è fondato su niente. Potremmo dire che siamo partiti da qualcosa che ci è parso il meno peggio di tutti; perché anche questa cosa da cui siamo partiti, e cioè che gli umani parlano, potrebbe anche – difficile che qualcuno sia in grado di farlo – essere messa in discussione: tutti gli umani o una parte? Tutti quelli che conosciamo o che abbiamo conosciuti, e quegli altri? Quindi, anche noi siamo dovuti partire da un’induzione, da un’ipotesi. Che tutti gli umani parlino non è una certezza assoluta, di per sé non esiste in natura, ma è un’induzione, una costruzione; diciamo soltanto che è la più difficile da confutare. Questo, in realtà, dovrebbe insegnarci qualcosa, e cioè che tutto ciò che costruiamo è sempre e soltanto una sequenza di parole, di proposizioni, che non ha fondamento se non in altre parole, in altri pensieri che la precedono. Ecco perché diciamo che la sola cosa con cui gli umani hanno a che fare sono le fantasie, le proprie opinioni, la δόξα, ciò che già la dea ‘Aλήθεια aveva indicato, c’è solo la δόξα; anche nell’affermare che gli umani sono parlanti, anche questa è un’opinione, non è una certezza.

Intervento: …

Sì, certo, parliamo noi, io e lei, ma gli altri? Sto solo cercando di mostrare che anche questa affermazione, che gli umani in quanto parlanti parlano, non ha una sua dimostrazione. Posso argomentarla, certo, però non ha la certezza della deduzione o che si vorrebbe attribuire alla deduzione, perché la premessa maggiore che supporta questa affermazione è un’ipotesi. Poi, c’è un’altra questione che potremmo porci: come so che sto parlando? Chi me lo ha detto? Come lo so? La risposta più ovvia è che lo ho imparato, ho imparato che mettendo insieme dei suoni fatti in un certo modo e in una certa disposizione, questa cosa qui la chiamo “parlare”. Quindi, l’ho imparato, ma a partire da che cosa l’ho imparato? Da un “si dice”, da un “si pensa”, da un “si crede”, per cui, ecco che torniamo alla δόξα. È chiaro che non sono questioni che né Heidegger né Aristotele si sono posti, però noi sì, ce le poniamo, anche grazie ad Aristotele ed a Heidegger, che ci ha mostrato che il pensiero autentico è quello che pensa se stesso, che si mette in discussione, nel senso che si interroga sulle condizioni di ciò che sta pensando, di ciò che sta dicendo. Tutto questo dove ci porta? Ci porta a continuare a pensare al problema del linguaggio. Parliamo continuamente, facciamo continuamente quella cosa che noi chiamiamo parlare, e facendo continuamente questa cosa siamo da una parte indotti a pensare che ciò che diciamo sia finito, sia cioè la determinazione di uno stato di cose finito; dall’altra, però, non possiamo non considerare che per potere pensare qualche cosa di finito dobbiamo inserire qualche cosa che finito non è, sennò il finito non potrebbe sussistere in nessun modo. E qui, ecco che compare Hegel, cioè la coappartenenza di finito e infinito. Noi possiamo pensare, possiamo parlare, perché le cose che diciamo sono finite, ma sono finite proprio perché non lo sono; ma noi le finiamo attraverso quella cosa che chiamiamo δόξα, opinione. L’esempio che facevo l’altra volta del tavolo. Dico “Cesare, appoggi quella cosa sul tavolo” e Cesare comprende immediatamente, perché sul tavolo ci intendiamo: un piano sostenuto da supporti e che serve per appoggiarci cose. Non ci serve sapere di più per il parlare quotidiano. È chiaro che se ci volessimo mettere a definire in modo univoco e definitivo che cos’è un tavolo, non finiremmo mai. Quindi, la δόξα, l’opinione, certo, è ciò che ci consente di parlare, ma ci consente di parlare, come abbiamo detto, attraverso la censura: io mi impedisco, impedisco al mio discorso di interrogare qualche cosa al di là di ciò che si crede, e cioè mi attengo, in definitiva, al divieto di Aristotele, non faccio quella cosa che lui diceva di non fare, non interrogo. Quindi, aveva inteso probabilmente che se si interroga e si va oltre c’è un marasma totale. A pag. 163. Esso (il λόγος retorico) deve poter mostrare la quotidianità, mostrare semplicemente, senza complicazioni, in modo da non richiedere argomentazioni dimostrative dettagliate: 1. tramite un determinato modo del “condurre verso qualcosa”, έπαγωγή (induzione); 2. se si parla di qualcosa, e si deve esprimere una convinzione, il συλλογισςμός (sillogismo) dev’essere un modo di dedurre più conciso, poiché l’ascoltatore a cui ci si rivolge nell’assemblea popolare è άπλούς, “semplice”. Egli “non può operare deduzioni partendo da lontano”, possiede un pensiero di corto respiro, non è in grado di abbracciare un ragionamento di ampia portata, “non può abbracciare molte cose”, dunque anche il modo di mostrare dev’essere un altro: ένθύμημα, tale che la dimostrazione gli vada più al cuore. Deve parlare alle emozioni, ai sentimenti, non alla ragione. La differenza tra l’έπαγωγή (induzione) e il συλλογισςμός (sillogismo, deduzione) è stata già discussa da Aristotele nei Topici, dove egli mostra anche in ch cosa consiste il vantaggio dell’έπαγωγή sul συλλογισςμός. L’έπαγωγή, il “condurre verso qualcosa”, è una “via verso…”, una via che, “passando attraverso le cose particolari”, ciò che è innanzitutto immediatamente lì presente, va verso ciò che è “in generale”. È per questo che è così efficace l’induzione, perché parte da qualcosa che è immediatamente presente: il fatto che stamattina sia sorto il sole è presente a tutti. Qui chiaramente su apre tutto un discorso, che magari un giorno apriremo, sulla propaganda, su come funziona e perché è così efficace. Parla ancora dell’induzione, l’esempio è un’induzione. Con un esempio voglio appunto esemplificare, chiarire qualcosa, non il caso specifico dell’esempio stesso, bensì il senso dell’“in generale”, καθόλου (universale). Καθόλου non significa validità universale, ma semplicemente il “così in generale”. Non validità universale logicamente intesa, ma è il così in generale, il si pensa che sia così. Il vantaggio dell’έπαγωγή: 1. è un modo del mostrare tale che “parla più per se stesso”; 2. non ha particolari pretese quanto al modo in cui si stabiliscono le connessioni; dimostro tramite l’esempio, che parla più a favore dell’έπαγωγή (induzione), poiché essa è più evidente in vista del comprendere;… Utilizzare l’induzione significa partire da qualcosa che è più evidente, perché sotto gli occhi di tutti; invece la deduzione muove da un universale, che non è sotto gli occhi di tutti, perché questo universale è già il risultato di un’operazione. …3. “più familiare, in vista della percezione diretta, della comprensione abituale”; è sempre qualcosa che posso esibire direttamente a me stesso;… Qualcosa che è lì presente, sotto mano. …4. qualcosa che è “comune alla grande maggioranza, alla gran massa delle persone”, ovvero è più accessibile. Questi sono i caratteri tipici dell’induzione e anche il motivo per cui la si usa continuamente ed ha tanto successo. Anche il συλλογισςμός ha i suoi vantaggi, in quanto è 1. possiede “maggiore forza di persuasione”, e in definitiva convince più del semplice riferimento a un caso concreto, che è diverso a seconda dello scopo del discorso; 2. proprio il συλλογισςμός è più adatto quando si tratta di parlare e di discutere con coloro che “parlano per contraddire”, e per i quali non c’è esempio che tenga. Il sillogismo serve soprattutto quando c’è da contraddire, cioè, da combattere contro qualcuno. L’έπαγωγή (induzione) punta a convincere attraverso la familiarità di chi mi ascolta con ciò che sto dicendo, ma non ho da combattere contro di lui, anzi, l’induzione è ciò che viene costruito proprio per evitare di combattere, perché gli propongo delle cose che lui stesso ha già accolte da sempre e alle quali non rinuncia perché sono le cose che sa. Se, invece, c’è da combattere dialetticamente, ecco che allora c’è il sillogismo. Perché il συλλογισςμός possiede questa peculiare forza di persuasione. Ce lo dice qui. Conformemente al carattere ontologico dell’essere della quotidianità, anche il parlare e il mostrare sono di genere peculiare. È per questo che ciò da cui un συλλογισςμός parte, e che Aristotele, negli Analitici, chiama πρότασις, “premessa”, ha sempre il carattere di un ἒνδοξον – contiene cioè qualcosa su cui si è della stessa opinione. La protasi, la premessa di un qualunque argomentazione, ha sempre il carattere di un’opinione. La premessa maggiore ha sempre il carattere dell’opinione perché non deve essere messa in discussione, perché se l’altro mi mette in discussione la premessa maggiore, chiaramente mette in discussione tutto, soprattutto la conclusione a cui giungo. Quindi, deve essere qualcosa di assolutamente condiviso. La retorica non è quindi di per sé una disciplina puramente formale: ciò che emerge è invece la sua relazione con l’essere dell’“essere l’uno con l’altro” degli uomini. Come dire: gli uomini, fra di loro, parlano a questa maniera, si rapportano in questa maniera. L’esplicita accentuazione del nesso tra politica e retorica può essere compresa solo tenendo presente il retroscena retorico. La retorica non è una τέχνη autonoma, ma si colloca in seno alla politica: il modo eccellente di essere nell’essere l’uno con l’altro consiste nel parlare l’uno con l’altro. L’ ἒργον (forza, peculiarità) della retorica sta nel porre in luce le possibilità dell’essere l’uno con l’altro, e poiché essa tratta del λέγειν inteso sia come ένθύμημα e παράδειγμα, sia come συλλογισςμός ed έπαγωγή della dialettica, si avvicina alla dialettica. Sta dicendo che, tutto sommato, non c’è questa grande differenza tra la retorica e la dialettica. Entrambe descrivono, mostrano i modi con cui le persone si rapportano l’una con l’altra. Si tratta sempre di convincere, di piegare l’altro, o con il metodo suasorio dell’induzione – parto da ciò che sai già – oppure se parto dal sillogismo, utilizzando la dialettica; anche lì, ce lo ha appena detto, devo partire comunque da qualche cosa che l’altro accoglierà. Quindi, sta dicendo, anche se non in modo esplicito, che tra la retorica e la dialettica c’è uno scivolare continuo l’una nell’altra.

Intervento: Si diceva che la dialettica punta alla ragione mentre la retorica punta al sentimento, all’emozione…

Sì, era Perelman che diceva questo. Certo, la retorica punta al cuore, però, perché punti al cuore occorre che l’altro capisca quello che dico, e perché l’altro capisca quello che dico è necessario che il discorso sia costruito in modo logicamente corretto e coerente. Se non capisce, anche il cuore lascia il tempo che trova. Certo, posso dare una priorità su un aspetto piuttosto che all’altro, questo nell’oratoria, è noto. Però, occorre sempre tenere conto che si tratta di due momenti dello stesso, cioè, quello che dicevo la volta scorsa di Hegel, tenere sempre presente che ciascun elemento è quello che è in relazione al suo contrario, gli coappartiene. Ci si rende conto di quanto fosse forte, tra i greci, la capacità di vedere lo specifico stato di fatto della quotidianità. Il greco antico aveva sempre presente la quotidianità, tant’è, come sappiamo, per il greco l’essere è ciò che appare così come mi appare, nient’altro che questo. Al tempo di Aristotele, e prima di lui, la retorica era tenuta in tutt’altra considerazione all’interno dell’essere l’uno con l’altro degli uomini: essa “scompare, si riveste dell’abito della politica”. La retorica avanza la pretesa di essere essa stessa politica, e questo lo fanno anche “coloro che parlano contro la politica”, poiché vogliono sostituire la ṕητορική alla πολιτική, “in parte per ignoranza, in parte per millanteria”. Questa sarà poi l’accusa che Aristotele farà ai sofisti. Il lavoro specifico della πολιτική – creare le leggi – non sarebbe necessario. Al contrario Aristotele, nel libro X, capitolo 10, dell’Etica Nicomachea, sottolinea che l’intera faccenda può essere sbrigata solo sul terreno di una concreta esperienza dell’esserci stesso, poiché a tale esserci non ci si può avvicinare spacciando come fattore decisivo la disciplina formale della retorica. Qui è abbastanza vicino a Platone, e cioè la retorica non si occupa della verità: è questo il nocciolo della questione. Coloro che vogliono darsi da fare nell’ambito della πόλις hanno bisogno quindi di una specifica dimestichezza con l’esserci quotidiano. I sofisti, al contrario, che intendono far credere di volere qualcosa come l’accertamento della possibilità del giusto esserci della πόλις, “si mostrano ben lontani dall’insegnare qualcosa del genere. Infatti non sanno neppure che cos’è la politica, né la riterrebbero superiore, né sosterrebbero che possono creare le leggi limitandosi a sommare ciò che accontenta la grande maggioranza”. Fare le leggi che accontentano la maggioranza, dice. E, invece, no, fare le leggi che accontentano la ristretta e ricchissima minoranza. Questa è stata poi, in seguito, la direttiva da seguire. Qui si evidenzia dunque che, in effetti, era ben viva la tendenza ad attribuire alla retorica la funzione fondamentale dell’autentica intesa sull’esserci stesso. Per questo i sofisti sono in rapporto e in polemica con i filosofi, mentre i filosofi sono i veri sofisti – come insegna Platone nel Sofista. Passiamo al Capitolo 15, La δόξα. Per comprendere il fenomeno fondamentale della quotidianità, il fenomeno che sta alla base di questo parlare peculiare, è necessario che ci intendiamo ancora preliminarmente circa il senso dell’ἒνδοξον, della δόξα. Il termine δόξα designa anzitutto l’“opinione su qualcosa”, ma significa anche, per lo più, “avere un’opinione”. Per Aristotele la δόξα è ού ζήτησις, “non una ricerca”… L’opinione ha già trovato. φάσις τις ἤδη: io ho “già un’opinione”… Io non cerco l’opinione, ce l’ho già. …non sto ancora cercando, non sono ancora in cammino per verificare la natura di una cosa, ma al suo riguardo la penso in questo e quel modo. Φάσις: un certo λέγειν, un dire-sì a ciò su cui ho un’opinione. Questo è φάσις; accogliere ciò che io penso, credo. Nella misura in cui è caratterizzata dal fatto di essere un certo dire-sì, non un indagare, un riflettere, un “farsi ora un’opinione”, la δόξα è in relazione con l’έπιστήμηL’έπιστήμη, come sappiamo, è quella certezza che viene dalla dialettica, una certezza verificata. Qui ci dice che la δόξα è in relazione con l’έπιστήμη. Vediamo come. …se cioè possiedo una conoscenza di qualcosa nel senso che ne sono ben informato, che posso dire qualcosa in merito alla cosa in questione anche se non ce l’ho davanti agli occhi. Questa conoscenza in quanto έπιστήμη è caratterizzata dal fatto di non essere una ζήτησις, poiché già si conosce: essa è dunque un sì. Anche la δόξα è in un certo modo un sì, un pensarla in una certa maniera sulla cosa, però si distingue dall’έπιστήμη in quanto appartiene alla δόξα. Come vedete, anche qui le due cose scivolano spesso l’una sull’altra. Per dirci che l’έπιστήμη non è la δόξα, di fatto, le mette assieme. Potremo dire che non c’è δόξα senza έπιστήμη e che non c’è έπιστήμη senza δόξα. Tenete sempre presente Hegel e quello che vi dicevo la volta scorsa. Non c’è un’opinione senza una ricerca di qualche cosa, anche se l’opinione non è una ricerca di qualche cosa perché l’ha già trovato; ma, d’altra parte, qualunque ricerca parte necessariamente da un’opinione, come era giunto a considerare anche Husserl.