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M. Heidegger, Essere e Tempo

 

15 marzo 2017

 

Siamo a pag. 28, Capitolo secondo: Il duplice compito nell’elaborazione del problema dell’essere. Il metodo della sua ricerca e il suo piano. Par. 5. L’analitica ontologica dell’Esserci come ostensione dell’orizzonte per l’interpretazione del senso dell’essere in generale.

Quindi, l’analitica dell’Esserci, che cosa ci dà? Ci mostra l’orizzonte all’interno del quale si interpretano le cose, cioè, si conoscono, si manifestano. Nel delineare i compiti relativi alla “posizione” del problema dell’essere si è chiarito che non basta stabilire quale sia l’ente da interrogarsi per primo… l’uomo … ma che occorrono anche il possesso esplicito e la sicura garanzia della giusta via d’accesso a questo ente. Abbiamo già discusso quale sia l’ente che assume il ruolo principale in seno al problema dell’essere. Ma come può questo ente, l’Esserci, riuscire accessibile e, per così dire, esser preso di mira nell’interpretazione che lo comprende? Era il problema del circolo ermeneutico, perché, lui dice, per avere l’accesso a questo, l’Esserci, l’uomo, occorre in un certo senso porsi fuori e osservare l’Esserci, ma lui si si chiede: come possiamo parlare dell’esserci se siamo dentro, se noi siamo questo Esserci che parla dell’Esserci? È questo il problema che sta ponendo. Il problema ontico-ontologico che si dimostrò proprio dell’Esserci potrebbe sviarci nella falsa opinione che questo ente sia anche il primo a essere dato in sede ontico-ontologica, non solo nel senso di una sua afferrabilità “immediata”, ma anche nel senso di una altrettanto “immediata” accessibilità al suo modo di essere. Questo primato, dice, ci fa illudere che sia più facile, più immediato, di avere un accesso diretto all’Esserci, però, ci mette in guardia perché dice Certamente l’Esserci non solo ci è onticamente vicino, o anche il più vicino di tutto, ma noi stessi siamo rispettivamente l’Esserci. Siamo vicini a che cosa se siamo noi? Nonostante ciò, o proprio per ciò, esso è ontologicamente ciò che vi è di più lontano da noi. Questo è il problema che sta sollevando Heidegger. È il più vicino, ma in che senso? Se io sono l’Esserci è anche il più lontano, perché come faccio a pormi come tema da trattare, da discutere, da affrontare. Sono sempre io, mentre sto pensando di pormi come tema sono già quel tema lì. Certo, rientra nel suo essere più proprio di avere una comprensione di tale essere, … la cosa più propria è comprendere tale essere, l’essere dell’Esserci, comprenderla vuol dire accorgersi di essere quell’ente che sta parlando. … nonché di mantenersi già sempre in un certo stato di interpretazione del proprio essere. Se io so di essere qualche cosa già sono in un qualche modo in uno stato di comprensione dell’Esserci, perché mi rendo conto di essere un qualche cosa che sta pensando, per esempio. Ma con ciò non si vuole assolutamente dire che questa più prossima interpretazione pre-ontologica di se stesso possa fungere da filo conduttore adeguato, quasi che tale comprensione dell’essere debba scaturire da una riflessione tematicamente ontologica della più propria costituzione d’essere. Sta dicendo che questo problema, il fatto che io tematizzo me stesso mentre mi tematizzo, e dice che tale comprensione dell’essere debba scaturire da una riflessione tematicamente ontologica della più propria costituzione d’essere, come se questa comprensione dovesse scaturire quasi immediatamente, da sé. Questa era un’idea che poteva anche intervenire, cioè, io sto parlando, sto pensando, e questo fatto stesso mi mostra l’Esserci. Non è proprio così, dice Heidegger, dice, infatti, L’Esserci, piuttosto, a causa di un modo di essere che gli è proprio… Qual è il modo più proprio dell’Esserci? Innanzitutto, di esser quell’ente che può interrogarsi su di sé, questo è ciò che gli è più proprio. … tende a comprendere il proprio essere in base all’ente a cui costantemente e innanzi tutto si rapporta per essenza, cioè in base al “mondo”. Questo esserci non potrebbe darsi in nessun modo né esistere in alcun modo se non ci fosse il mondo, nell’accezione in cui ne parla Heidegger, e cioè la storicità. Fa parte dell’Esserci, e perciò della comprensione dell’essere che gli è propria, ciò che noi mostreremo come il riflettersi ontologico della comprensione del mondo sulla interpretazione dell’Esserci. (pagg. 28-29) Questo è importante. Sta dicendo che mostreremo come il riflettersi ontologico - ontologico non è altro che la considerazione intorno all’essere – della comprensione del mondo sulla interpretazione dell’Esserci, faccia parte dell’Esserci. Vale a dire, la comprensione del mondo da parte dell’Esserci, io posso comprendere il mondo perché mi trovo preso in mezzo al mondo, posso comprenderlo perché sono quell’ente che può porsi queste domande. Ora, il fatto di essere nel mondo è esattamente ciò che mi consente di cominciare a riflettere sull’Esserci, perché, certo, io mi trovo preso nel mondo, però, non per questo devo necessariamente riflettere su questo mondo che mi fa essere quello che sono. Questo è, invece, il compito dell’analitica dell’Esserci: riflettere sulle condizioni che mi consentono di accorgermi di essere quello che sono in base a tutto ciò che mi ha fatto diventare quello che sono. Il primato ontico-ontologico dell’Esserci è dunque la causa del fatto che all’Esserci resta nascosta la sua specifica costituzione d’essere, intesa nel senso della struttura “categoriale” che è propria di esso. L’Esserci è onticamente “vicinissimo” a se stesso, ontologicamente lontanissimo, ma pre-ontologicamente tuttavia non estraneo. Sta dicendo molto semplicemente che l’Esserci, onticamente, cioè in quanto ente, è vicinissimo, perché sono io; ontologicamente, è lontanissimo perché una riflessione intorno all’essere dell’Esserci, quindi, una riflessione ontologica, non ontica, è quanto c’è di più lontano perché, dice giustamente Heidegger, nessuno ci ha mai pensato in questi ultimi 2500 anni, nessuno ha mai preso in considerazione l’essere. Per questo è la più lontana, perché sembra sia impossibile pensare all’essere, non si fa che pensare all’ente, immaginando che l’essere dell’ente sia semplicemente la sua semplice presenza, la sua essenza, cosa che per Heidegger non è. Ma poiché l’Esserci, oltre a implicare la comprensione dell’essere, è tale che questa comprensione si sviluppa o fallisce col mutevole modo di essere dell’Esserci stesso, esso può disporre di un ricco patrimonio di interpretazioni. Questa comprensione dell’Esserci, dicevo prima, non c’è mai stata, fallisce di volta in volta con il modo di Esserci, il modo con cui ciascuno è nel mondo. Come è nel mondo, in genere? È nel mondo della chiacchiera, nel mondo delle deiezioni, quindi, fallisce il compito di occuparsi dell’essere dell’Esserci. Questo Esserci è preso nella deiezione, così come per Heidegger è sempre stato da sempre fino al lui. La psicologia filosofica, la antropologia, l’etica, la politica, la poesia, la biografia, la storiografia hanno indagato, per vie diverse e con ampiezza mutevole, i comportamenti, le facoltà, le forze, le possibilità e i destini dell’Esserci. Sempre trattandolo come un ente, come se fosse privo del suo essere, cioè del suo mondo, cioè, del suo progetto, del suo Dasein. Ma resta da vedere se queste interpretazioni furono condotte sul piano esistenziale con quella originarietà che può darsi posseggano sul piano esistentivo. Avevamo letto la differenza tra esistenziale e esistentivo. L’esistenziale riguarda solo l’ente che è l’uomo; l’esistentivo ciò che appare, ciò che si manifesta. Una analitica dell’Esserci resta dunque l’esigenza prima quando si pone la questione dell’essere. Sta dicendo che finalmente, a questo punto, dopo 2500 anni di storia della filosofia, abbiamo inteso qual è veramente il problema, e cioè che l’essere non è l’essenza della cosa, che sta da qualche parte, ma è ciò che io, in quanto sono nel mondo, le attribuisco. Questa è cosa è ci che io le attribuisco in quanto io sono nel mondo e, attribuendole qualche cosa, la faccio essere quella che è per me in questo momento. Quindi, l’essere di questa cosa non è affatto la sua essenza né il suo apparire, ma ciò che è per me in questo momento, cioè, in che modo questa cosa partecipa del mio Esserci qui, adesso. Ma, in questo caso, il problema del reperimento e della assicurazione della via d’accesso all’Esserci incomincia a diventare veramente scottante. Esprimendoci in termini negativi: non è lecito fare ricorso a un’idea casuale dell’essere e della realtà, per “ovvia” che essa sia, e poi applicarla all’Esserci con procedimento costruttivo e dogmatico; non è lecito costringere l’Esserci a sottostare a “categorie” desunte da quell’idea, senza un appropriato esame ontologico. (pagg. 29-30) Che cosa non è lecito? Prendere l’essere come è sempre stato preso, cioè come l’essenza dell’ente, come il manifestarsi dell’ente semplicemente, in termini, potremmo dire, scientifici, come oggetto. Questo non è consentito, l’essere dell’Esserci deve essere un’altra cosa, l’essere dell’Esserci, che sono io, deve essere un’altra cosa. E in verità l’ente dovrà mostrarsi così com’è innanzi tutto e per lo più, nella sua quotidianità media. La quotidianità media è il modo comune di intendere le cose, il modo comune di vederle. Dice che comunque è da lì che si parte, dobbiamo sempre partire dall’ente, non possiamo non partire da un qualche cosa che abbiamo sotto mano. Di essa non verranno poste in luce strutture qualsiasi e accidentali, ma quelle essenziali, … non il fatto che sia rettangolare, che abbia una certa forma, ma cosa c’è di essenziale… cioè quelle che si mantengono ontologicamente determinanti in ogni modo di essere dell’Esserci effettivo. Cioè, tutte le cose che si mantengono come elementi che sono determinanti per rendere questa cosa quella che è. Non è il fatto che sia un parallelepipedo, che sia fatto d’argento, ecc., ma ciò che è determinante per questa cosa e di trovarsi, qui, in questo momento, a costituire l’esempio che io sto facendo in questo momento a voi per dirvi delle cose, questa è la sua determinazione, questo è il suo essere, il suo essere per l’Esserci, che sono io. L’analitica dell’Esserci così intesa… intesa come la ricerca di ciò che è determinante per l’essere di questo aggeggio qua che, torno a dirvi, non è il fatto che abbia una certa forma, un certo materiale, ecc., ma di essere parte del mio progetto in questo momento. In che modo è parte del progetto? Fa parte nel senso da esempio che mi serve per spiegarvi qualche cosa. Essa… l’analitica dell’Esserci … deve piuttosto preparare l’ostensione dell’orizzonte dell’interpretazione dell’essere più originaria di tutte. Che è quella che vi ho mostrato, questo è l’orizzonte, questo è il mio progetto, il mio Dasein, il mio Esserci qui, in questo momento, nel mondo che mi circonda, con tutto ciò che mi circonda. Questo è l’orizzonte all’interno del quale io posso interpretare, cioè, posso conoscere. Senza questo orizzonte, cioè, senza tutto ciò che mi fa essere quello che sono, questo aggeggio non c’è, non ci sono nemmeno io. Si mostrerà che il senso dell’essere dell’ente che chiamiamo Esserci è la temporalità. Questa dimostrazione dev’essere comprovata mediante la ripetizione dell’interpretazione delle strutture dell’Esserci provvisoriamente esibite come modi della temporalità. Ma l’interpretazione dell’Esserci come temporalità non costituisce, come tale, la risposta al problema conduttore che concerne il senso dell’essere in generale. Essa appronta però il terreno per trovare questa soluzione. (pag. 30) La questione della temporalità l’abbiamo vista in varie occasioni e in vario modo. La mia storicità significa che tutto ciò che dico, che penso, è preso nel tempo, cioè, nella storia che mi riguarda, nella storia che riguarda tutto ciò che ho imparato, che ho conosciuto. Il modo in cui ho imparato tutto questo fa parte della mia storicità e quando parla di temporalità dell’Esserci sta dicendo che l’Esserci non è un qualche che sta fuori da tutto ciò che l’ha costituito, non è un oggetto rispetto al quale ci sarebbe un soggetto che l’osserva, ecc. La temporalità, per Heidegger, è ciò che costituisce la differenza ontologica, cioè l’impossibilità di sovrapporre l’essere all’ente, perché l’ente è quello che è in virtù di una temporalità, in virtù di ciò che storicamente lo fa essere quello che è per me in questo momento, per me che sono storicamente determinato da tutto ciò che ho pensato, ho detto, sto pensando, sto dicendo. A pag. 31. Di cenno abbiamo fatto vedere che fa parte dell’esserci, come costituzione ontica, un essere pre-ontologico. L’Esserci è siffatto che, essendo, comprende qualcosa come l’essere. Questo già vi dà la misura del pensiero di Heidegger, perché è l’Esserci, cioè, sono io che comprendo l’essere e non viceversa, non c’è un essere da qualche parte che mi fa essere quello che sono, ma è il mio Esserci - questo ci sottolineatelo, vuol dire qui e adesso – che pone la questione dell’essere. Difatti, lo dice sempre, è soltanto questo ente che è l’uomo, cioè l’Esserci, che può domandarsi circa l’essere. “Comprende” lo possiamo intendere nei due sensi del verbo: comprendere come prendere insieme, letteralmente, quindi, avvolgere; comprendere anche come capire, come intendere, come cogliere. Quindi, ciò che l’Esserci comprende è il tempo. Cosa vuol dire questo? Che l’esserci, posto come problema, come questione da interrogare, l’Esserci può comprendere se stesso solo se tiene conto del tempo, solo se tiene conto della sua storicità, solo se tiene conto di tutto ciò che lo fa essere e lo ha fatto essere quello che è, perché, se toglie di mezzo tutto questo lo toglie dal tempo, quindi, lo rende come una specie di elemento fuori del tempo, che è lì identico a sé, immobile, sub specie æternitate, quindi, senza un passato, senza un futuro, ma totalmente presente, l‘Esserci svanisce e, di conseguenza, l’uomo svanisce, non c’è più niente, per cui qualunque oggetto, se tolto dal tempo, scompare. Questo nell’accezione di tempo come la intende Heidegger, cioè, se l’oggetto non è storicizzato, non si coglie a partire da un percorso storico che fa essere l’Esserci quello che è, l’oggetto non c’è, non c’è niente, perché non è connesso con niente. Vedete, il tempo è ciò che mantiene, potremmo dirla così anche per fare un accenno semiotico, il tempo, così come ne sta parlando Heidegger, è ciò che consente la connessione fra ciò che appare e il fatto che a me appare così come appare. Mi appare, sì, in un certo modo, ma il fatto che mi appaia in un certo modo è vincolato a una serie di connessioni sterminata. Questa serie di connessioni sterminata che io pongo in essere in ciascun istante è quello che Heidegger chiama il “mondo” (die Welt), che è, appunto, questa serie infinita di combinazioni, questo è il mondo.

Il tempo è la condizione per cui l’Esserci può comprendersi, quindi, può comprendere l’essere, perché il tempo è la sua storicità, cioè, soltanto se io tengo conto del fatto che sono quello che sono in relazione a tutto ciò che mi circonda, in relazione a tutte le relazioni che io sto costruendo e intessendo in questo istante, che ho costruito in tutta la mia vita, se non tengo conto di questo, dice Heidegger, io non arriverò mai a comprendere l’Esserci, cioè, non arriverò mai a comprendere me, chi sono e qual è il progetto che mi appartiene.

Intervento: il tempo è ciò che impedisce che una cosa sia quello che è una volta per tutte…

Sì, certo, una cosa non mai una volta per tutte, è storica, è quello che è in questo momento, non una volta per tutte. Perché tutto sia chiaro, occorre un’esplicazione originaria del tempo come orizzonte della comprensione dell’essere a partire dalla temporalità quale essere dell’Esserci che comprende l’essere. Dice occorre un’esplicazione originaria del tempo come orizzonte della comprensione dell’essere, quindi, il tempo, la mia storicità, è l’orizzonte per il quale io posso comprendere. Se tolgo la storicità non comprendo più niente, diventa l‘oggetto fuori del tempo, che è quello che sub specie æterninate, quindi, occorre mostrare il tempo come quell’orizzonte entro il quale è possibile che avvenga la comprensione. Questa comprensione avviene a partire da che cosa? A partire, dice lui, dalla temporalità quale essere dell’Esserci che comprende l’essere. Adesso spiego. Abbiamo un orizzonte, la temporalità è questo orizzonte all’interno del quale è possibile la comprensione, cioè, la comprensione è possibile se io tengo conto della mia storicità, e cioè di tutto ciò che io sono in questo momento e tengo anche conto di tutte le relazioni che io sto costruendo in questo istante mentre parlo con voi e che mi fanno essere quello che sono, perché, dice, solo a questa condizione, soltanto a partire dalla comprensione di questa temporalità, che definisce come l’essere dell’Esserci che comprende l’essere, che è la cosa essenziale dell’Esserci, il fatto che ci sia questo orizzonte, cioè la storicità, la temporalità, è necessario che ci sia questo orizzonte, e questo orizzonte è l’essere dell’Esserci, cioè, quanto di più gli è essenziale dell’Esserci, ma soltanto a partire da questo è possibile una riflessione sull’essere, e cioè che l’Esserci possa riflettere sul suo essere, cioè sulla sua essenzialità, sulle sue proprietà, sul suo darsi, soltanto se è preso nella temporalità. Non c’è Esserci senza temporalità. Per questo lui titola Essere e tempo ma, come abbiamo detto altre volte, questo titolo potrebbe essere sostituito da Essere è tempo. Il tempo non è niente altro che l’orizzonte, ma questo orizzonte che cos’è se non tutte le connessioni, le relazioni di cui sono fatto, la combinatoria che mi fa dire quello che sto dicendo in questo istante? È questo, sennò che altro è? Fuori dall’orizzonte, che è il tempo, non è possibile nessuna comprensione di nessun tipo. L’esecuzione completa di questo compito… Il compito dell’analitica dell’Esserci, cioè, di riflettere su questo orizzonte, sulla temporalità, ecc. … esige inoltre che il concetto di tempo così ottenuto sia delimitato rispetto alla comprensione ordinaria del tempo, la quel è divenuta esplicita in una interpretazione del tempo depositatasi nel concetto tradizionale del tempo quale è prevalso da Aristotele a Bergson e oltre. Come dire che questo modo che lui sta ponendo per intendere il tempo non è che cancella il tempo inteso cronologicamente, non lo può cancellare in nessun caso. Qui bisognerà far vedere che, e come, questo concetto del tempo (e l’interpretazione ordinaria del tempo in generale) scaturiscono dalla temporalità. Perché? È semplice, perché io non posso comprendere il tempo, non posso neanche pensare il tempo se sono fuori da questo orizzonte, cioè, fuori dalla temporalità, perché fuori dalla temporalità non c’è niente. Quindi, anche il tempo, così come lo si intende comunemente come una successione di stati nello spazio, anche questa concezione di tempo non esiste senza la temporalità, senza questo orizzonte che rende possibile qualunque interpretazione, quindi, qualunque comprensione, qualunque interpretazione è sempre una comprensione, ovviamente. Andiamo a pag. 33, al paragrafo 6. Il compito di una distruzione della storia dell’ontologia. Heidegger non vuole distruggere l’ontologia, come riflessione intorno all’essere, perché è quello che sta facendo, ma la storia dell’ontologia, cioè, tutto ciò che è stato detto intorno all’essere da Platone fino a prima di lui. Ogni indagine, e non per ultima quella che si muove nell’ambito di quel problema centrale che è il problema dell’essere, è una possibilità ontica dell’Esserci. Ogni indagine, non ultima quella che sta facendo lui, è una possibilità ontica dell’Esserci, cioè, è una possibilità mia, ed è possibile grazie alla temporalità, grazie al tempo, grazie al fatto che io sono quello che sono in relazione a un’infinità di relazioni che mi fanno essere appunto quello che dico di essere. L’essere dell’Esserci trova il suo senso nella temporalità. Ma la temporalità è anche la condizione della possibilità della storicità… Se ha appena detto che fuori da questo orizzonte della temporalità non c’è niente, è chiaro che di qualunque cosa parli troverà la sua condizione nella temporalità. … quale modo d’essere temporale dell’Esserci stesso, a prescindere dal problema se, e come, l’Esserci sia un ente che è “nel tempo”. Senza temporalità non c’è nessuna possibilità di pensare alcunché. Il carattere della storicità viene prima di ciò che si designa col termine storia (l’accadere della storia nel mondo). Ovviamente. La storia è un concetto, è uno studio, è un’indagine, quello che vi pare, ma perché tutto questo possa accadere è sempre necessaria, dice Heidegger, la temporalità, cioè, questo orizzonte che consente la comprensione di una qualunque cosa, compreso l’essere dell’Esserci. La storicità sta a significare la costituzione d’essere dell’”accadere” dell’Esserci come tale, sul fondamento del quale soltanto diviene possibile qualcosa come la “storia del mondo” e l’appartenenza storica alla storia del mondo. Anche qui è evidente che la storicità sta a significare l’appartenenza di qualunque indagine sulla storia alla storicità stessa, senza la quale io non posso indagare proprio niente. Continua a ripetere la stessa questione. Nel suo essere effettivo, l’Esserci è sempre come e “che cosa” già era. Io sono, ma come sono? Sono come già ero, in quanto ero la possibilità dell’Esserci, ero una delle possibilità dell’Esserci, ciò che sono adesso era una delle possibilità dell’Esserci che io ero trent’anni fa. Quale sia la migliore, questo è un altro discorso. Esplicitamente o no, esso è il suo passato. Questa è la storicità, io sono il mio passato, non è che il mio passato stia da qualche parte, io sono il mio passato e sono anche tutte le mie possibilità future. E ciò non soltanto nel senso che esso, per così dire, spinge il proprio passato “dietro” di sé e possiede ciò che è passato come una qualità ancora presente che, di tanto in tanto, agisce ancora su di esso. No, dice lui, l’Esserci è il proprio passato nella maniera del proprio essere, essere che, detto alla buona, accade venendo ogni volta dal proprio avvenire. Cosa vuole dire questo? Intanto abbiamo visto che l’Esserci non è il mio passato, nel senso che è una cosa che io posso ricordare, posso anche vivificarlo riproducendo fantasmaticamente qualcosa del mio passato. No, dice lui, non è questo che interessa, non è di questo che si tratta, ma il mio passato accade, qui e adesso, venendo, dice lui, dal proprio avvenire, cioè, da una propria possibilità. Il fatto che io ricordi un qualche cosa è una possibilità dell’Esserci, che io sto mettendo in atto. È in questo senso procede dall’avvenire perché, in quanto possibilità, non riguarda il passato, riguarda qualcosa che deve avvenire, cioè, il passato viene da ciò che sta accadendo adesso e, quindi, da una possibilità, da qualcosa che era possibile e che si concretizza adesso, in questo istante, in questo senso viene dall’avvenire. È nel corso di un’interpretazione dell’Esserci tramandata e dentro di essa, che l’Esserci è cresciuto nel suo rispettivo modo d’essere, e quindi anche nella comprensione dell’essere che gli è propria. Ciò che noi pensiamo dell’Esserci, compreso quello che sta pensando Heidegger dell’Esserci, viene da tutto ciò che lo ha preceduto ma che è comunque presente adesso mentre lui ne parla, non è un ricordo, anche ma non è di questo che si tratta. È a partire da questa interpretazione che l’Esserci si comprende innanzi tutto e, in certi limiti, costantemente. Vale a dire, io comprendo costantemente l’Esserci, cioè io, ma in che modo costantemente? Perché io sono sempre e comunque questa possibilità che si attua e che si attua ininterrottamente, come il fare così con la mano, dieci minuti fa era una possibilità, adesso è un atto. Questa comprensione apre le possibilità del suo essere e le regola. Cosa vuol dire che questa comprensione apre le possibilità? Che queste possibilità, qualunque esse siano, sono comunque e sempre nella temporalità, cono sempre e comunque all’interno di questa serie infinita di relazioni in cui io mi trovo, ed è per questo che si aprono delle possibilità, perché una possibilità si apre all’interno di un progetto, ma questo progetto sono io. Io, certo, posso parlare del mio progetto, però, più propriamente, io sono il progetto, in quanto mi attuo le possibilità che mi sono più proprie ininterrottamente, tutto quello che faccio è una possibilità che si apre mano a mano che le metto in atto. Il passato dell’Esserci, che sta sempre a significare il passato della sua “generazione”, non segue l’Esserci ma lo precede sempre. (pagg.33-34) Qui la sua “generazione” non vuol dire i suoi precedenti ma ciò che lo genera. Quindi, sta dicendo che ciò che genera il passato dell’Esserci lo precede, che è il discorso che faceva prima. È un po' come la questione del circolo ermeneutico, cioè, il mio passato precede, apre la possibilità di progettare, quindi, questo progettare è, sì, determinato dal passato ma, a sua volta, il progettare stesso precede l’Esserci. Per dirla in modo più chiaro, mentre l’Esserci è storicamente determinato da tutte le relazioni, queste relazioni, che costituiscono poi l’orizzonte, questo orizzonte è la condizione per le possibilità del mio Esserci, di me. Quindi, ciò che accade, difatti lui parlava di accadimento, questo accadere è ciò che precede l’Esserci ma nel senso che gli fornisce tutte quelle relazioni di cui ha bisogno per realizzarsi, per poter manifestare il suo progetto. Dire che il passato precede sempre l’Esserci è come dire che il passato pone le condizioni delle possibilità che l’Esserci incontrerà. Ecco, è in questo senso che lo precede, queste possibilità che l’Esserci incontrerà sono determinate dalla sua storicità. Più avanti incomincia a considerare il metodo fenomenologico della ricerca, quindi comincia a riflettere sulla parola “fenomenologico”, composta da fenomeno e da logico. Rispetto al fenomeno fa tutto il discorso del φανεσθαι, di ciò che viene in luce, di ciò che si manifesta. Più interessante il discorso che fa intorno al logos. Intorno al φανεσθαι abbiamo già detto moltissimo, ciò che appare, ciò che esce dal nascondimento, ecc. Possiamo leggere questo a pag. 45. Il fenomeno, ciò che si manifesta in se stesso, significa un modo particolare di incontrare qualcosa. Distingue tra fenomeno e apparenza, appare, sì, ma non nel senso dell’apparenza, perché dice Invece apparenza significa un rapporto di rimando nell’ente stesso, tale che ciò che rimanda (che annuncia) è in grado di assolvere la sua funzione possibile solo se si manifesta in se stesso, se è “fenomeno”. Dice che il fenomeno è ciò che appare, che si manifesta da se stesso, l’apparenza è ciò che, apparendo, rinvia a qualche cos’altro che non è presente in quel momento, a un altro fenomeno.