INDIETRO

 

 

15 febbraio 2023

 

Concetti fondamentali della filosofia aristotelica di M. Heidegger

 

Heidegger ci dice qui che cosa intende con τέλειον. Abbiamo già visto che è questo limite, questo fine, oltre il quale non c’è altro. A pag. 113. Anche il termine τέλειον, così come ὅν e, analogamente, άγαθόν, contiene un’ambiguità. Esattamente come ούσία, άγαθόν significa: 1. un bene un ente che è buono; 2. essere buono, bontà. Allo stesso modo, anche τέλειον significa: 1. un ente-finito; 2. ciò che costituisce l’essere-finito, l’essere determinato in cui un alcunché di finito dev’essere per essere finito, il modo d’essere dell’ente-finito. Cita poi Aristotele, sempre dalla Metafisica Δ 16, che dice così: “Si dice finito in primo luogo un ente al di fuori del quale non può essere trovata neppure una singola parte (tale che questa parte contribuisca ancora a costituire l’essere in questione)… È interessante, perché pone una questione. Dice: non può essere trovata neppure una singola parte. Come fa a saperlo? Evidentemente, deve già sapere quali parti appartengono all’ente in questione e quali no, cioè, deve già sapere che cosa escludere. Questo ci porta a una questione interessante: questa finitudine è tale perché so che cosa esclude, quindi, è tale per via di una esclusione. Questa esclusione è ciò che rende tale la finitudine, esclusione di ciò che questa finitudine esclude, per definizione o per quello che è, non importa. Ma se questa finitudine è tale perché ho escluso qualcosa, allora, sì, posso pensare che sia finito, ma non è completo. E questo a che cosa ci richiama, così all’impronta? A Kurt Gödel, la cui opera ci interessa non tanto per una questione matematica, perché è più ampia di quanto lui stesso potesse immaginare. Lui mostra che l’aritmetica o è completa, e allora è autocontraddittoria perché contiene la sua negazione, oppure, se non è autocontraddittoria, è incompleta, perché questo elemento che la nega è fuori. Dicevo che la questione va, in effetti, al di là dell’aritmetica. Gödel non considera la cosa, non era neanche nel suo interesse, stava scrivendo la sua tesi di laurea quando ha scritte queste cose, quindi era in tutt’altri pensieri affaccendato. Ma noi possiamo estendere questa cosa a qualunque giudizio, a qualunque affermazione. Ogni affermazione o è completa, ma per essere completa deve contenere in sé ciò che questa affermazione, per potere affermarsi, deve eliminare, cioè il suo negativo. Se non esclude questo negativo ma lo conserva all’interno di sé, è autocontraddittoria. Quindi, ogni volta che affermo qualcosa, questo qualcosa appare incompleto, perché se è quello che è deve escludere il suo negativo, sennò sarebbe contraddittorio. Ma, ponendo il suo negativo all’esterno, ciò che affermo non è completo, manca di qualcosa. Che cosa manca? Ciò che manca, in effetti, – e qui torniamo a Hegel – è l’Aufhebung, l’integrazione fra l’affermazione e la sua negazione. È una questione molto interessante teoreticamente, ma estremamente complicata, non tanto da pensare quanto da praticare. Come posso praticare un qualche cosa che è sé ma anche la sua negazione? Apparentemente, sembra non si possa farlo. Quindi, devo optare ciascuna volta o per una o per l’altra, per la completezza o per l’autocontraddizione. Questo nell’affermare qualcosa. Ma, una volta affermato qualcosa, allora sì che posso tenere conto dell’integrazione, posso cioè non fermarmi a ciò che ho affermato, pensando che sia quella cosa lì che io voglio sia o credo che sia, che spero che sia, a seconda delle circostanze. Quella cosa che è a condizione di non esserlo, di essere cioè il negativo di ciò che affermo, la sua negazione. Come dicevo, è una questione estremamente complicata. Di tutto ciò, naturalmente, Aristotele non dice assolutamente nulla, neanche Heidegger se ne occupa. Però, è una questione che riguarda direttamente la questione della finitezza o finitudine: quando qualcosa è finito? Aristotele sta ponendo una questione che per lui è importante: se la cosa non è finita nel modo in cui vuole lui significa che l’άγαθόν, cioè il bene, non è raggiungibile, perché non è finito neanche lui, è πειρον. E se non è possibile un bene, come faccio a indirizzare le masse? Devo sapere che c’è un bene e che è raggiungibile, se non da tutti almeno da qualcuno. È questa la questione per Aristotele, ha bisogno di trovare qualche cosa di finito, che l’άγαθόν sia qualcosa di finito, quindi, di conoscibile, perché se non è finito non è neanche conoscibile. Tutto ciò che ci ha raccontato intorno alla finitezza va in questa direzione: serve a mostrare che l’άγαθόν c’è ed è pensabile, è comprensibile e raggiungibile. Per fare questo ha dovuto anche dire che l’essere è finito, ha dovuto ricorrere a una serie di artifici, perché che l’essere sia finito o infinito è difficile da dire con precisione, anche perché si può porre in entrambi i modi. Ma a lui importa che questo bene, questo άγαθόν, sia finito e che, soprattutto, sia per sé, per se stesso, non dipenda da altro, sia cioè, come dice lui, διαύτό, per sé. A pag. 114. In secondo luogo viene detto finito ciò che, nell’ambito del disporre di una specifica possibilità di essere, non ha più nulla che la oltrepassi nella sua origine genuina. Nella considerazione che abbiamo fatto, abbiamo intuito qualcosa che è dell’ordine del linguaggio, che è l’unica cosa al di là della quale non si va, non c’è un oltre il linguaggio, non c’è nulla che si possa aggiungere o togliere al linguaggio che lo faccia cessare di essere linguaggio. Infatti, c’è una cosa che dice a un certo punto, quasi di sfuggita, ma che precisa ciò che sta dicendo. Per articolare questa sua idea del finito fa una serie di esempi, tutti assolutamente discutibili, che significano praticamente niente. Parla a un certo punto del medico compiuto, del flautista compiuto. Un medico, un flautista, sono compiuti quando, considerando il modo in cui è presente il loro specifico disporre del proprio essere, essi non difettano in nulla… Nella sua άρετή, nella sua abilità, non difetta in nulla in quanto alla sua possibilità. E che ne sa? Un flautista non può migliorare? Il medico non può diventare un medico migliore dello scalzacane che in genere è? Sono esempi strani quelli posti da Aristotele, che in genere è così preciso, come se gli mancasse qualche cosa, come se questa cosa della finitezza la stesse forzando a tutti i costi. Fa poi l’esempio della finitezza come compiutezza rispetto alla morte. E questo peraltro è il modo in cui Heidegger pensa la morte. Quando parla dell’essere come essere per la morte intende questo, non è che sia mortifero come molti hanno pensato. No, la morte è il compimento della vita nel senso che, una volta che interviene la morte, la vita non può essere aggiunta né diminuita, ma è quella che è, è quella che è solo nel momento della morte, ché finché non si muore si può aggiungere sempre qualcosa, si può modificare, dopo no, è compiuta. È questo il senso della compiutezza e, pertanto la famosa frase di Heidegger che l’essere è essere per la morte: questa è la sua estrema, ultima possibilità di essere. A pag. 116 prende una questione precedente. Articoliamo per punti il capitolo Metafisica Δ 16. 1. Χρόνος τέλειος descrive il τέλειον come ciò oltre cui non c’è nulla, oltre cui non si dà nulla, nulla che contribuisca a costituire l’essere di quell’ente il cui carattere è τέλειον. E per la precisione il τέλειονέρας) viene detto qui anzitutto dell’ente nella misura in cui viene compreso nel suo essere semplicemente presente. Qui pone un’altra questione complicata, perché dice che il τέλειον è ciò che è immediatamente presente, ciò che è così come mi appare; e se è così come mi appare non è né più né meno di come mi appare. Sì, certo, però è un discorso che poggia sull’apparire, mentre lui punta all’essere. Invece, qui poggia sull’apparire, sul “mi appare così”. Certo, per i greci l’essere è ciò che appare, è vero, però la sua indagine nella Metafisica ha tentato di andare oltre, cercando di trovare i principi primi per cui un ente è quello che è. 2. Τό κατάρετήν (secondo la virtù, intesa qui come la capacità di raggiungere il fine): ci dà l’ente già in un carattere del tutto peculiare, cioè come un ente che dispone della sua possibilità più propria, sicché in tal caso τέλειον significa: ciò oltre cui non c’è nulla che, in quanto possibilità di essere, renda l’ente ancora più proprio. Cioè: esaurisce tutte le sue possibilità. Qui richiama di nuovo l’esempio del flautista, che come esempio non è un granché. Per il flautista compiuto non c’è alcun “oltre”, alcun superamento nel senso della possibilità del suo essere più proprio. È difficile a dirsi. Dice che è un flautista; sì, ma può essere un ottimo flautista come un pessimo flautista. A pag. 117. Il τέλειον è una determinazione dell’άγαθόν, sicché anche l’άρετή – che impareremo in seguito a conoscere come una determinazione fondamentale dell’essere della vita – ha già un particolare riferimento all’essere-finito. Άρετή generalmente si traduce con virtù, ma qui è la capacità di essere compiuto. Nel disporre di qualcosa, di una determinata possibilità del suo essere, questo stesso essere è già trattenuto nella sua fine, il che significa che io domino e possiedo già la mia propria possibilità di essere. Quindi, io domino la mia possibilità di essere in quanto questa possibilità è in atto: io sono già ciò che posso essere. In definitiva, questa è la nozione stessa di esserci. Τελείωσις: Aristotele giunge a parlare espressamente del peculiare fenomeno dell’ἒχειν τό τέλος (avere un fine, un compimento). Il contesto è il seguente: dopo aver esaminato i singoli ϐίοι in quanto άγαθά διαύτά (beni per sé)… La vita come un bene fine a se stesso. Si considera che la vita non abbia un altro fine se non se stessa. Aristotele cerca di chiarire in modo più preciso il carattere dell’άγαθόν in quanto τέλειον. Cioè, il bene come il finale, oltre il quale non c’è più niente. Ne parlerà tra poco del bene come la vetta suprema da raggiungere, ciò che massimamente è desiderato, ciò che è al di sopra di tutti gli altri possibili desideri. E cosa risponde a questo requisito? Che cosa vogliono gli umani al di sopra di qualunque cosa? Se, come stiamo dicendo da tempo, gli umani sono parlanti – lo dice anche Aristotele, ζῶον λόγον ἔχων – allora questa massima soddisfazione deve appartenere al fatto che sono appunto parlanti, quindi, deve attenere al parlare stesso, al λόγος. Ma se attiene al λόγος, qual è la massima soddisfazione che il λόγος può fornire a un parlante? Cosa fa il λόγος? Tutte le pagine precedenti lo hanno illustrato bene: il λόγος è όρισμός, è definizione. La massima soddisfazione è nel de-finire, de-limitare, de-terminare, in una parola, dominare, e questo è il massimo bene, oltre il quale non si va, secondo Aristotele. È lui che afferma che l’umano è un vivente che parla, e se questa è la sua prerogativa, la massima soddisfazione dovrà risiedere lì, nel fatto che parla, dove sennò? A pag. 118. Che cosa ne risulta per l’άνθρώπινον άγαθόν (bene dell’uomo) se lo si concepisce come τέλος? Si tratta dell’άνθρώπινον άγαθόν riferito all’essere dell’uomo, che abbiamo imparato a conoscere come “essere l’uno con l’altro”. L’uomo è, sì, parlante, certo, ma con qualcuno, che può anche essere se stesso, naturalmente. È un λέγειν τί, certo, un dire qualcosa – se dico, dico necessariamente qualcosa –, ma con qualcuno, il κατά τίνός possiamo intenderlo come rivolto a un interlocutore, chiunque esso sia. Quest’ultimo è determinato da una molteplicità di πράξεις, che stanno tra loro in un rapporto gerarchico, sicché al di sotto di tutte si può rinvenire un άκρότατον άγαθόν, un “sommo bene”, un άγαθόν che è διαύτό (per se stesso). È questo ciò che Aristotele vuole stabilire. Nel caso del secondo ϐίος, il ϐίος πολιτικός, si hanno due possibilità: τιμή e άρετήRispetto e virtù, da intendersi sempre per altro. Infatti, il rispetto sono altri che me lo danno. Con la discussione del τέλειον otteniamo un fondamento per la localizzazione del concetto fondamentale della dottrina aristotelica dell’essere, l’έντελέχεια. Τέλος non è “meta”, bensì ἒσκατον, carattere del limite, “punto estremo”. La meta e lo scopo sono modi determinati in cui il τέλος è in quanto “fine”, però non sono determinazioni primarie, poiché sono piuttosto la meta e lo scopo a essere fondati nel τέλος in quanto “fine” quale suo significato originario. A pag. 119. 1. Il carattere del τέλειον inteso come ciò oltre cui non c’è nient’altro. 2. Un “niente oltre a ciò” che, in quanto possibilità determinata di essere di un ente, lo determina propriamente nel suo essere; il “niente oltre a ciò” inteso nel senso che oltre il τέλος non si dà, per un ente, nessuna ulteriore possibilità di essere, ovvero che un ente, riguardo alle sue possibilità di essere, è giunto alla sua fine. Ha raggiunto la sua fine, cioè, ha raggiunto in sé tutte le sue possibilità. E questo è l’ente in quanto finito, in quanto, come dice lui, non ha ulteriori possibilità. Certo, rimane la questione che dicevamo all’inizio: tutte queste possibilità che ha, come so che sono tutte? E se ce ne fosse un’altra? In ogni caso queste possibilità sono quelle che sono in virtù del fatto che ho eliminato le possibilità che non appartengono all’ente; quindi, per essere finito devono essere escluse queste altre cose; quindi, per essere finito deve essere incompleto, perché queste altre cose che escludo sono la condizione per cui lui sia quello che è, non è che escludo delle cose a caso. A pag. 121. 8. Nel riassumere il capitolo Aristotele suddivide i diversi significati in due gruppi distinti: a) il primo, nella misura in cui il τέλος viene propriamente asserito di qualcosa, b) il secondo, che raccoglie quei significati che ricevono il loro significato in quanto τέλειον dal fatto di essere riferiti a qualcosa che è stato chiamato τέλειον nel senso del punto a). Il τέλειον viene insomma riportato allo schema delle categorie. Questo indica che, nella misura in cui consente una simile suddivisione, il τέλειον è in se stesso un carattere ontologico fondamentale. Il τέλειον viene posto in evidenza come un carattere eccellente dell’essere nel senso dell’esserci. Questa nozione di τέλειον, per Aristotele, è fondamentale, perché mostra qualcosa che partecipa dell’essere in modo determinante; in quanto qualcosa, per essere quello che, è deve essere finito, nel senso di non avere nulla oltre a se stesso e di avere esaurito tutte le sue possibilità di essere quello che è. Questo per indicare, in effetti, che il bene – in fondo, è poi di questo che si tratta, è questo che lui cerca – non deve in nessun modo averne uno superiore; quello che lui cerca è quello lì, è il τέλειον, cioè quello che non ha un altro sopra di lui, il massimo possibile, oltre al quale non c’è più niente. A pag. 122. Questo carattere di limite del τέλειον in quanto determinazione ontologica diviene evidente nella metafora successiva: la morte è un modo dell’esserci, il “non esserci più”, l’“esser via”, l’άπούσία. Il “non più “Ci”” è un carattere del “Ci”, nella misura in cui la τελευτή viene chiamata τέλος, dove peraltro si tratta sempre di una metafora. Voglio dire che, rivolgendosi alla morte in quanto τέλος, il significato autentico di τέλος e τέλειον è in un certo senso andato perduto, nella misura in cui con τέλος si intende, appunto, una fine tale che essa non fa semplicemente svanire l’ente in questione, non lo porta via dal “Ci”, ma, al contrario, lo trattiene nel “Ci”, anzi lo determina nel suo “Ci” autentico. Come dire che è la morte che rende la vita autentica, e la rende autentica nel senso che la mostra per quella che è nel suo ambito finito: è finito, è compiuto. Τέλος, quindi, significa originariamente: essere alla fine in modo tale che questa fine costituisca il “Ci” autentico, determinare autenticamente un ente nella sua presenza attuale. Il “Ci”, il per noi, il per me, in che modo si manifesta in modo autentico? Si manifesta in modo autentico quando è alla fine. Sembra uno strano modo di dire, ma secondo questa concezione io sono autenticamente me stesso nella morte; solo allora sono me stesso, perché ho esaurito tutte le mie possibilità, non posso più fare niente, è finita. Ora, qui dà una definizione di έντελέχεια, che è l’integrazione di δύναμις e ἐνέργεια, di potenza e atto, insieme simultaneamente. Un ente, determinato dall’έντελέχεια, significa fondamentalmente un ente che trattiene se stesso nella sua autentica possibilità di essere, in modo tale che la possibilità sia compiuta. C’è questo ente che è ciò che può essere e, per dirla in modo rozzo, fa sua questa possibilità, si trattiene in questa possibilità di essere. Se l’ente è tale da poter avere il suo τέλος – il τέλος sta in vista, sicché se ne può parlare. Nel concetto di έντελέχεια così inteso viene a espressione il carattere più fondamentale del “Ci”. Questo carattere più fondamentale del “Ci”, ci sta dicendo, che compare quando il τέλος sta in vista, sicché se ne può parlare. Io “Ci” sono, nel senso dell’esserci, quando il fine, il compimento, è in vista, cioè ne posso parlare, è a portata di mano: allora ci sono. Ora, volgendo la cosa, che chiaramente Heidegger non fa, potremmo aggiungere: quando autenticamente ci sono? Quando domino, quando ho di vista e “posseggo” il compimento, allora ci sono, ci sono in quanto domino. Qui c’è una deriva ontologica perché, in effetti, stiamo dicendo che il mio esserci non è altro che la volontà di dominare l’ente; in questo senso io ci sono: in quanto dominatore dell’ente, sennò cesso di esserci. A pag. 125. Dell’άνθρώπινον άγαθόν (il bene dell’uomo) si è già detto che è διαύτό (fine a se stesso)… Cioè, non è per altro. Quando, secondo Aristotele, io cerco il bene è per sé, non è per qualcos’altro. Il bene è il τέλειον, non c’è qualcos’altro oltre. ἅριστον (sommo), άκρότατον άγαθόν (massimo bene), άγαθόν nel cui caso non si va oltre, sicché, dunque, probabilmente questo ἅριστον è un τέλειον. Ora, l’analisi dei ϐίοι ha già stabilito che esiste una molteplicità di τέλη διαύτά (fini per se stessi). Se quindi esiste una molteplicità di τέλη διαύτά, cioè di τέλεια, allora al di sotto di essi dev’esserci un τέλειότατον. Cioè: un fine per se stesso più autentico. Se ci sono tanti fini, ciascuno pe sé, ce ne deve essere almeno uno alla base di tutto. Ma se c’è quest’ultimo, allora c’è anche un τέλειότερον. Questa considerazione mostra come l’interpretazione dell’άγαθόν tenda qui, fin da principio, a un’applicazione radicale dell’idea del τέλος, del πέρας. Τέλειότατον è il fine per se stesso, τέλειότερον è il fine in vista per altro. Per la determinazione ontologica dell’esserci dell’uomo si fa ricorso in modo radicale e coerente alla determinazione fondamentale greca dell’essere, mostrando così che l’άγαθόν è τέλος nel senso che esso è άπλῶς τέλειον, τέλειον in senso assoluto. A pag. 126. L’“oltre cui nulla” non è da intendersi, in senso negativo, come un essere-finito nel senso dell’“essere alla fine”, ma in senso positivo come ciò che costituisce il “Ci” autentico. Il τέλος è tale da trattenere l’ente nella sua presenza attuale. Il senso dell’essere è determinato da questo essere attualmente presente. Ci dice che il τέλος è ciò che trattiene l’ente nella sua presenza attuale. Ma abbiamo visto che questo τέλος, il fine di qualche cosa, ha a che fare con l’utilizzabile, come dire che è il fatto di essere utilizzabile che mantiene l’ente quello che è, lo mantiene nella sua presenza attuale, cioè, così com’è. In base al concetto ora chiarito, di τέλειον, seguiamo dunque l’ulteriore sviluppo dell’analisi aristotelica riguardante l’άνθρώπινον άγαθόν. L’άγαθόν dell’esserci umano deve essere un πέρας, poiché ogni ente è determinato in quanto essere-limite. Si pone quindi la domanda: quale carattere possiede l’άνθρώπινον άγαθόν in quanto τέλος (il bene dell’uomo in quanto fine)? Quali determinazioni si addicono a questo τέλος in quanto tale? Qui accade una cosa curiosa, e cioè Aristotele si trova, e dietro di lui Heidegger, a considerare il τέλειότατον e il τέλειότερον come due momenti dello stesso. A pag. 127. La discussione dei ϐίοι, dei τέλη καθαύτά, ci ha fatto capire che esiste una molteplicità di τέλη καθαύτά, sicché l’ἅριστον dev’essere ciò che, tra i τέλη καθαύτά, è il τέλειότατον, ovvero il τέλειότερον, ciò che ha il carattere della fine in modo superiore e più autentico. Dunque, giacché probabilmente esiste una molteplicità di τέλη καθαύτά, sorge la domanda circa il τέλειότερον e il τέλειότατον. Quali sono le caratteristiche di uno άπλῶς τέλειον (il fine massimo)? Aristotele fornisce in primo luogo la definizione del τέλειότερον (fine per altro): Il τέλειότερον è quel καθαύτό che è perseguito, è colto, da uno e che è a causa di un altro (cioè: a causa sua). Questa definizione del τέλειότερον in riferimento al διἕτερον, “qualcosa che è in vista di un altro”, è una definizione, sì, necessaria, però non sufficiente. Sta dicendo che ciò che è fine per sé e ciò che è fine per altro sono due momenti dello stesso o, potremmo aggiungere più propriamente, essere fine per sé è essere fine per altro, e viceversa. Cosa significa essere fine per sé? Significa che qualche cosa non ha nessun rinvio, se è fine per sé finisce lì. Ma sappiamo bene che cosa succede se non c’è nessun rinvio: finisce tutto, anzi, non è mai nemmeno cominciato. Ecco che, quindi, deve essere necessariamente τέλειότερον, cioè un fine per altro. Essere fine per altro significa che il compimento sta nel rinvio, ma questo non toglie il fine per sé, anzi, potremmo dire che lo determina. Il fine per altro, cioè l’essere un rinvio, è la condizione perché possa pensarsi un fine per sé. Vale a dire, non posso pensare un fine che sia per sé, un fine άκρότατον, più alto possibile, se non in quanto fine per qualche altra cosa, cioè, in quanto rinvio. Qui Heidegger si accorge che il riferimento a un διἕτερον, all’essere fine di qualche altra cosa, non è sufficiente ma necessario, perché senza essere διἕτερον e il διαύτό, sarebbe senza rinvio, cioè non sarebbe neanche pensabile. È questo il problema per Aristotele e vedremo come lo articola, ma il pensare a un fine ultimo per se stesso, che quindi non deve niente a nessuno, è pensabile solo se questo fine è per qualcosa, sennò non posso neanche pensarlo, e quindi è necessariamente τέλειότερον e τέλειότατον. A pag. 128. Questi τέλη possono celare in sé anche un altro τέλος, di cui per l’uomo propriamente ne va: alla fine questo τέλος è l’esserci stesso. Questo fine a cui l’uomo tende è l’uomo stesso. A che cosa tendo? A essere me: ecco a cosa tendo. Se infatti lo άπλῶς τέλειον (il massimo fine) dev’essere qualcosa che è costantemente e sempre καθαύτό (per sé), allora per l’esserci dell’uomo è in questione soltanto qualcosa che si addice a questo esserci in quanto tale. Lo άει (l’essere) non è inteso in seno platonico, ma è riferito all’essere dell’uomo. Per l’esserci, l’essere, di cui in ultima analisi ne va, può essere solo il suo essere. Che cosa ne va dell’essere? È del mio essere: è questo ciò di cui ne va sempre, è questo il senso del “Ci”, del per me, è sempre per me che qualcosa accade, è per me che faccio delle cose, è per me che vedo le cose in un certo modo, è sempre per me, perché questo essere non è altro che me, che penso. Lo dice anche Gentile: di fatto, non faccio altro che pensare il mio pensiero, sono sempre io comunque. Non ne posso uscire, perché ciò che ne va del mio essere è il mio esserci, il mio essere qui in questo momento, nel mondo in cui ci sono. Questo è l’essere: il mio essere qui in questo momento nel mondo di cui sono fatto, niente altro che questo. Se l’esserci, in quanto “essere nel mondo”, è stato definito, in base ai τέλη (ἡδονή- τιμή (piacere-rispetto)), un sentirsi-situato, allora la possibilità di essere designerà una situatività, cioè la modalità dell’esserci in quanto διαγωγή, “permanere” in un mondo. Questo esserci nel senso più autentico ha la sua possibilità di attuazione nel θεωρεῑν. Questo per Aristotele, la teoria. A me piacerebbe tradurre θεωρεῑν con “il vedere oltre”. Quindi, questo essere nel mondo è il sentirsi situato, è un rendersi conto che, sì, sono nel mondo ma in quanto sono il mondo, e a partire da questo io mi rapporto a qualunque cosa.