15 gennaio 2025
Proclo Teologia platonica
Ciò che a noi interessa è il modo in cui la teologia cristiana ha determinato il modo di pensare. E, infatti, qui, nel libro II, dice: Le entità più imperfette/particolari vengono ordinate/governate in modo conveniente, sono richiamate verso il bello, e traggono vantaggio dalla partecipazione al bene, per quanto ne sono in grado. Questa idea di essere richiamati verso il bello, cioè, che il bello assoluto costituisca un richiamo irrefrenabile, viene quasi da pensare che sia stata proprio la teologia cristiana, quindi il neoplatonismo, a inventare la necessità di avere un ente da dominare. Ciascuna cosa ovviamente si presenta molteplice e, quindi, per dominarla occorre ricondurla all’uno - qui lo dice in modo molto chiaro. Ma questa riconduzione all’uno dice due cose: la prima è la necessità di eliminare i molti; l’altra, è che ci sia necessariamente questo forte richiamo, da parte dell’uno. Le Henadi raccolgono tutta la molteplicità nell’Uno - fanno sparire tutto ciò che è portato alla divisione/frammentazione - divinizzano tutto ciò che partecipa di Esse - da ciò che ne partecipa (tutte le realtà inferiori) non accolgono nulla in sé (non si contaminano con ciò che è secondario) - non diminuiscono la Loro unità a causa della partecipazione. Si tratta sempre, quindi, di fare sparire i molti, farli sparire in modo che permanga soltanto l’uno. Quando si vuole dominare un ente, qualunque esso sia - una cosa, una persona, un’idea -, è esattamente questo che si fa: si tenta in tutti i modi di fare sparire i molti, in modo che questa idea diventi l’uno, quindi identica a sé, quindi inamovibile. Da qui la difficoltà, poi, di muovere questa idea perché, una volta che è diventata inamovibile, non si può più fare nulla, perché è quella che è. Poi aggiunge a pagina 2. Pur essendo gli Dei uniformi, le Loro apparizioni risultano polimorfe /…/ Eros, l’Amore, l’elemento che ricongiunge alla divina Bellezza tutte le realtà inferiori. L’amore, che poi verrà ripreso in tutta la teologia medievale, è quell’elemento che ricongiunge alla divina bellezza, cioè, all’uno. Sarebbe questa, nella teologia, la funzione dell’Eros, quella di ricongiungere alla divina bellezza. Eros, in base al Bello (katà tò kalon) connette (synaptei) ciascuna entità al livello che la precede. Ecco la connessione: l’amore è ciò che connette il conseguente all’antecedente. L’eros, l’amore è ciò che giustifica l’implicazione. Alètheia, la Verità, l’elemento che eleva verso la divina Sapienza: infatti, “è la Verità che pone gli esseri nelle vicinanze della divina Sapienza. Infatti, è a causa della Verità che è possibile raggiungere la pienezza di ciò che è veramente Sapienza”. Anche in questo caso traspare in modo abbastanza evidente che per Proclo anche la verità è qualche cosa che attrae. C’è sempre questa attrazione; in fondo, si tratta di una seduzione, che è quella che, come dicevo, giustifica l’implicazione. “La primissima Verità è ciò che unisce l’Intelletto e l’intelligibile” (“in ogni livello, la verità è la fonte del congiungimento fra molteplicità e unità… Sulla necessità della unificazione dei molti Proclo insiste tantissimo. Lui si rende conto che i molti ci sono, naturalmente non può non far finta che non ci siano, ma incessantemente ripropone questa idea di dovere eliminarli, unificandoli. Ma unificandoli come? Attraverso l’analogia, perché non c’è un altro modo. L’analogia per Proclo, così come per tutti i neoplatonici, è ciò che consente di unificare le cose, quindi avvicinarle all’uno. Per Aristotele, come sappiamo bene, non è affatto così. Anche i neoplatonici, i teologi, si sono accorti, sapevano benissimo che tutto ciò che andavano proponendo era molto discutibile. E, allora, Bisogna cercare il Bene non per via conoscitiva… Si riparano dietro questa cosa. (gnostikos- infatti tale Fede è più importante dell’attività conoscitiva, sia per gli Dei che per noi), ma “abbandonandosi alla luce divina, e con ‘gli occhi chiusi’ (cfr. “procedendo nella sua interiorità e per così dire nel penetrale dell’anima, per mezzo di ciò contempla con gli occhi chiusi il genere degli Dei e le Henadi degli enti”. Libro III. Principio di somiglianza nella processione: “le seconde fra le processioni si compiono in base alla somiglianza di tali entità con i loro principi.” È la somiglianza ciò su cui praticamente si regge l’implicazione. Questo affinché la processione degli enti sia continua e non vi sia alcun vuoto. Cioè, non ci deve essere un salto, perché il salto, il vuoto, comporterebbe l’eventualità che ciò che segue non somigli più a ciò che lo precede, ma sia un’altra cosa. …né fra le entità incorporee né fra quelle corporee: è necessario, dunque, che ogni cosa che procede, lo faccia attraverso la somiglianza. Lui insiste, dice che è necessario che ci sia la somiglianza, perché regge tutto su questo. Quindi, perché una cosa inerisce o appartiene a un’altra? Per somiglianza. Infatti, le realtà seconde non possono mai essere identiche al loro principio causale… Certo, perché non possono essere Dio. …perché la processione è una diminuzione rispetto all’unità propria del livello causale superiore: “non vi è identità di realtà così differenti.” Non c’è identità, c’è somiglianza. Dunque, il causato non è identico alla causa, ma non è neppure solamente diverso da essa, altrimenti non sarebbero connessi né parteciperebbero l’uno dell’altro. Cioè, non si somiglierebbero. Se infatti bisogna che ci sia una continuità della processione divina e che ciascun ordine sia legato insieme attraverso mediazioni appropriate, è necessario che i gradi più elevati dei secondari siano congiunti agli ultimi termini dei primi ordini; ora, questa congiunzione avviene per somiglianza.” La somiglianza è l’unica garanzia in tutto ciò. Pertanto, se non ci fosse un ultimo non vi sarebbero neppure permanenza della somiglianza, della processione e la reciproca connessione, in base alla quale le entità inferiori risultano sempre collegate a quelle superiori.” Qui è come se dicesse qual è la necessità dell’inferenza, e cioè la possibilità stessa di pensare in termini veritativi, perché il conseguente segue necessariamente all’antecedente perché gli somiglia: è un po’ meno ma gli somiglia, cioè, qualche cosa dell’antecedente comunque c’è nel conseguente. Questa è l’idea di fondo, lo schema generale.
Intervento: Come se dall’effetto si potesse risalire alla causa per somiglianza.
Sì. Questo lo diceva già Plotino, quando diceva che l’intelletto e l’anima mantengono qualcosa dell’Uno che li ha creati, che li ha prodotti. È per questo motivo che hanno il desiderio di ritornare all’Uno. Proprietà della somiglianza - può raccogliere i molti in unità -… Questo è fondamentale. …è capace di legare insieme e convertire le entità derivate alle Monadi che le precedono. L’essere simili viene da un’unità. La somiglianza congiunge la molteplicità a questa unità, a partire dalla quale ha avuto la sua processione. La somiglianza rende i molti simili per genere, simpatetici verso se stessi e amici fra loro e in rapporto all’Uno. Ecco la necessità di raccogliere i molti nell’uno. A un certo punto dice che l’anima partecipa di tutti quelli che la precedono, cioè, tutto ciò che segue partecipa sempre e comunque di ciò che precede, perché permane qualche cosa di ciò che precede, in quanto procede da quella. Serve a questo l’idea di processione inventata da Plotino, che invece è assolutamente assente in Aristotele.
Intervento: Pensavo anche alla ricerca di se stessi, come se l’idea fosse di trovare quel qualcosa di divino, di ineffabile, immobile, che non mente.
Sì. Questa è una fantasia che ha creato il neoplatonismo e che ha dato poi vita a una serie di discipline, di dottrine, come la stessa psicologia. È l’idea che ci sia un qualche cosa dentro di sé, come quando si dice che bisogna cercare dentro di sé per trovare la verità. L’Essere è Monade di potenze molteplici e realtà che si fa molteplice: “l’Essere non è nient’altro se non Monade di potenze molteplici e realtà che si fa molteplice, e per questo “l’Essere è Uno-Molti”. Qui si pone una questione, perché si accorge ovviamente che c’è l’uno e anche i molti. “È dunque al contempo uniforme e multiforme: “Uno- molti” (hèn- pollà). Ma i molti sono in modo segreto e indistinto nei primi enti, mentre sono in modo distinto nei secondi; infatti, quanto più l’Essere è congenere all’Uno, tanto più cela la sua molteplicità e si definisce solo in base alla sua stessa unità (forma dell’Uovo)”. Quindi, i molti sono in modo segreto ed indistinto nei primi enti. Qui si è trovato di fronte a un problema: da dove arrivano questi molti? Non possono essere un qualche cosa che non c’è nell’Uno, se nell’Uno c’è tutto. Ma ci sono come? In modo segreto e indistinto. Poi, negli altri enti diventano distinti e palesi, ma ci sono anche nell’Uno. È sempre infatti necessario che l’Essere sia partecipante e l’Uno partecipato... Quindi, l’Uno è di sopra e l’essere di sotto. …e che il partecipato sia generatore del partecipante: in ogni ambito, la natura divina partecipata fa sussistere il partecipante in relazione con se stessa. Questo legame tra partecipato e partecipante è sempre presente, ed è sempre presente per via della processione. … lo Straniero di Elea solleva difficoltà sul pensiero parmenideo, sintetizzato nella tesi “il tutto è uno”: … Lui si riferisce sempre a Parmenide, ma è quello di Platone. … prima rivela la molteplicità intelligibile e mostra che dipende dall’Uno; poi sottolinea il fatto che l’Uno-che-è partecipa dell’Uno, ma ha passivamente questo carattere, ossia non è Uno-in-sé, né Uno in senso primario. Perciò, a partire dalla nozione di ‘intero’ ricava la distinzione fra Uno impartecipato ed Essere: l’Uno-che-è è un ‘tutto’ (come attesta anche Parmenide), ma il tutto ha parti- ciò che ha parti non è l’Uno-in-sé pertanto, l’Uno-che-è non può essere identico all’Uno-in-sé. Poi, dalla nozione di ‘completo’, ricava la seguente evidenza: ciò che è diviso e contiene molte parti non ha la stessa sussistenza di ciò che è completamente Uno ciò che non è soggetto a molteplicità trascende per sua natura l’Uno-che-è. Qui ha dovuto compiere questa operazione: distinguere l’Uno-che-è dall’Uno. Non possiamo dire che l’Uno è l’uno che è perché gli attribuiamo l’essere, e questo non è bene perché l’Uno-che-è non sarebbe più ineffabile, sarebbe dicibile. In questo caso, l’essere sarebbe la sua determinazione: l’Uno-che-è. Quindi, deve compiere questa operazione di separazione perché l’ineffabile deve rimanere indicibile, perché è identico a sé; mentre, se pensiamo all’Uno-che-è, gli attribuiamo una determinazione e, quindi, questo Uno non è più identico a sé. L’Uno non è identico all’Uno-che-è (244b): Platone distingue l’uno e l’essere, mostrando che sono due nozioni differenti… Occorre ricordare che invece Aristotele non distingue l’uno e l’essere, per lui sono la stessa cosa. …infatti, dimostra che l’Uno in senso proprio e primario trascende l’Uno-che-è, perché l’Uno-che-è non permane in modo proprio (bensì passivo, per partecipazione)… Dell’essere, in questo caso. …nella forma di realtà non soggetta a molteplicità e uni-forme; al contrario, l’Uno in senso primario trascende ogni aggiunta, perché qualsiasi cosa si aggiunga, diminuirebbe la sua ineffabile unità.
Intervento: Se qualcosa si aggiunge non è più completo...
E, soprattutto, si corrompe. Se poi ci riferiamo alle cose quotidiane, è il motivo per cui non si accetta, non si tollera che qualcuno abbia un’idea differente e che, soprattutto, la esponga, perché esponendo un’idea differente mina la mia idea aggiungendo delle cose e questa mia idea non è più uno, diventa qualche cosa di mutevole, di transeunte; mentre la mia idea, perché possa rimanere quella che è, identica sé, deve eliminare tutti i molti, cioè, qualunque altra cosa che possa corromperla. Per questo non posso neanche accogliere qualunque cosa l’altro dica, non lo posso accogliere, devo rigettarlo a priori e assolutamente, perché non corrompa la mia idea. Questo capitolo, fra le altre cose, dimostra in modo straordinario la completa somiglianza fra le dottrine platoniche e la Teologia trasmessa dagli Oracoli: è infatti a tutti noto che “Padre”, Potenza” e “Intelletto” sono termini che appartengono a questi ultimi e che, come vedremo, stanno anche a indicare le tre Triadi intelligibili di cui abbiamo discusso finora. Giusto per dire come anche la teologia cristiana, in effetti, debba moltissimo agli oracoli caldaici, ha preso a piene mani dagli oracoli. Siccome erano oracoli, dicevano il vero, naturalmente. Insegnamento del Parmenide intorno agli Intelligibili, “seguendo, anche in questo caso, le divine ispirazioni del nostro Maestro: è proprio insieme a questo uomo divino che abbiamo partecipato all’estasi bacchica intorno alla dottrina del Parmenide, che rivela questi sentieri sacri “che ci elevano” alla ineffabile iniziazione ai Misteri “risvegliandoci dal sonno nel quale siamo a tutti gli effetti immersi.” L’idea di svegliarsi. Questa parola inglese woke, entrata nell’uso corrente, sta appunto per l’essere risvegliati da qualche cosa, per esempio dal sonno dogmatico, come diceva Kant. C’è sempre la necessità di svegliarsi da qualche cosa, come se prima non ci si accorgesse della verità. Come dire: se si aprono gli occhi allora si vede (la caverna di Platone). Il che contrasta, in effetti, con ciò che diceva prima, quando dice che bisogna accostarsi a queste cose tenendo gli occhi chiusi.
Libro quarto. Meraviglia nei confronti di coloro che hanno ignorato questo ordinamento divino e “non riescono a figurarsi la fonte della perfezione in tutta la sua interezza”, “quelli delle entelechie”, ossia gli aristotelici: mostrano solo attaccamento per le parvenze delle entità realmente perfette, si occupano quindi solo delle parvenze e ignorano la perfezione separata dalle sostanze. In pratica: l’anima sarebbe l’entelechia inseparabile dal corpo - dunque, secondo loro, la perfezione risiederebbe in questa connessione, a loro dire, inscindibile> entelecheia = entelés + (syn)echein, perfetto + connettere insieme. Il tutto senza accorgersi che l’interezza della perfezione e la sua fonte sono ben al di sopra di corpi e sostanze. Viene da chiedersi, in base a che cosa si sarebbero dovuti accorgere di una cosa del genere. …altri (probabilmente Anassagora) considerano fonte di ogni perfezione l’anima, ma non riescono a figurarsi la perfezione che preesiste nell’Eternità - infatti, prendono le mosse dalla vita dell’anima, che si svolge nel tempo e ha la sua perfezione nei periodi ciclici, senza capire che la Vita complessiva è molto anteriore a quella divisa. Cioè, la vita dell’Uno. Senza capire, cioè, che i molti vengono dall’Uno, che è molto prima dei molti. …quelli che sono risaliti fino all’Intelletto (probabilmente Aristotele, con il “Pensiero di pensiero”) hanno supposto che la primissima perfezione fosse intellettiva - l’Intelletto è sì attività e perfezione intellettiva, ma è venuto a sussistere in base alla primissima perfezione divina ed attraverso essa solamente può convertirsi verso il Principio. È quindi necessario che tale Principio di conversione preesista all’ordinamento intellettivo… Questo è quindi necessario dovrebbe seguire a ciò che ha detto prima, ma non segue affatto. …e che “il Principio a capo di tutta la perfezione” sia ulteriore per semplicità rispetto a tutte le realtà rese perfette: per questo Platone, prima di tutti gli Dei Intellettivi ha posto la volta sub-celeste, “l’ordinamento che converte tutti i generi divini successivi e li rende perfetti”. Cioè, ciò che unifica, l’unificatore universale. Per il fatto che la primissima Causa è l’Uno... Qui è già diventato un fatto. Certo, lo era per Plotino, in parte anche per Platone, però, la cosa che è interessante qui è l’assoluta assenza di domande. Il fatto che la primissima causa è l’Uno: perché? Chi l’ha detto che è un fatto? Questa totale assenza di domande è la condizione per potere affermare tutte queste cose. Ecco la necessità dell’ineffabile: se è ineffabile, se è indicibile, come faccio a interrogarlo? Non so cosa interrogare. Per il fatto che la primissima Causa è l’Uno, è garante di unità, e per il fatto di essere il Bene, fa sussistere le entità a sé simili prima di quelle dissimili- ed è così che tutte le cose sono in diretta continuità le une con le altre. Questo Uno è il Bene e, quindi, fa sussistere prima le entità a sé simili, cioè quelle più vicine al Bene. Come lo sappia non si sa, per somiglianza, si suppone a questo punto. … tutto ciò che procede, viene a sussistere in base alla somiglianza con ciò che lo ha generato, tutto ciò che si converte, compie la sua conversione in base alla somiglianza e rendendosi simile ai propri Principi. Qui la somiglianza è posta come principio fondante. Che poi la somiglianza, per Proclo e per neoplatonici in generale, non è altro che il volere tornare all’Uno, perché l’Uno è il Bene; ciascun ente tende al Bene e, quindi, qualunque ente vuole tornare all’Uno. Non c’è un’altra spiegazione.
Intervento: Con il principio di somiglianza nulla sfugge.
No, certo, perché a questo punto queste cose vanno insieme perché si somigliano. La somiglianza è posta come ipostasi, ma la somiglianza non è altro che l’induzione, l’analogia. Ora, l’analogia avrebbe potuto creare un problema. Lui, a un certo punto, parla della divina analogia, deve divinizzarla, perché per lui l’analogia è quel processo logico che consente di unificare e, unificando, di avvicinarsi all’Uno. Naturalmente, c’è un problema, che è quello che ha posto Aristotele, e cioè che questa unificazione dei molti non toglie i molti, perché questo uno, che è unificato, se è unificato vuole dire che ha fatto dei molti uno, ma questi molti devono esserci perché ci sia l’uno, sennò non c’è neanche l’uno. Però, tutta la questione dell’analogia viene posta come se fosse qualcosa di divino, in quanto tendendo a unificare avvicina all’uno. L’analogia si considera divina, cioè, veritiera. È per questo che all’inizio lui era molto preoccupato che ci fosse un salto, cioè, che non ci fosse continuità perché, se c’è il salto quest’altra cosa non è più simile, è un’altra cosa, si perde la somiglianza. … è simile e dissimile rispetto a se stesso > si congiunge ai Principi e se ne separa, delimitando i limiti della propria processione - è simile e dissimile rispetto agli altri > li riunisce, li separa da sé e li riconverte verso di sé. Parmenide, quindi, dimostra esattamente tali proprietà e come esse discendano in continuità dalla Monade Demiurgica e dai segni distintivi lì presenti: “l’identico e il diverso” appartengono infatti alla Monade Demiurgica e sono principi causali della somiglianza e dissomiglianza presenti in questo livello sovrano/assimilatore. Il simile e il dissimile, dice qui, si congiunge ai principi e, poi, se ne separa. Ma la cosa importante è che tanto l’identico quanto il diverso, alla fine, appartengono alla monade demiurgica, cioè all’Uno. Duplice processione di ciascuno degli esseri che procedono: una “sovrannaturale ed inconoscibile ai più, l’altra manifesta e nota a tutti”. Esempio riguardo al ‘simile’: è facile comprendere che il simile procede a partire dall’identità e infatti mostra in modo evidente il rapporto che ha con la sua causa; al contrario, è difficile comprendere che il simile viene a sussistere anche a partire dalla differenza e che abbia lì la sua prima comparsa. Cosa che lui non può tollerare, e cioè che il simile venga dal dissimile. Allo stesso modo, la dissomiglianza ha il suo principio manifesto nella differenza, ma ha l’identità come principio “difficile da comprendere” (le realtà inconoscibili ai più, “manifeste solo per mezzo della scienza e dell’intelletto”) - quelle che sempre precedono le realtà note ed evidenti, perché “anche presso gli stessi Dei l’ineffabile precede il dicibile e il modo nascosto e inconoscibile della loro sussistenza precede quel che è conoscibile nella loro processione”. Qui ha detto l’essenza della teologia platonica. Cioè, anche presso gli stessi Dei l’ineffabile precede il dicibile. Tutto è fondato sull’ineffabile, su ciò che non può essere detto. Ora, tutto il cristianesimo che è seguito ha mantenuto chiaramente questa struttura e ha costruito tutta la teologia sull’ineffabile, su ciò che non può essere detto. Che cosa interessa a noi in tutto ciò? Ciò che si è mantenuto e ha determinato un modo di pensare. Ciò che a noi interessa è in che modo tutto ciò abbia determinato e continui a determinare il pensiero, perché ogni volta che si pensa a qualcosa, questo qualcosa che si pensa è il prodotto di una unificazione. E questa unificazione è ciò a cui si tende, ma, non solo, l’idea platonica di Bene assoluto non è altro che l’Uno che ha eliminati molti. È questo il Bene assoluto, è questo ciò che si deve cercare. Ed è per questo che, come dicevo prima, quando uno ha la sua idea, questa idea funziona come l’uno che ha eliminato i molti e, quindi, chiunque voglia tornare a inserire i molti, cioè, contaminare, a minacciare questo uno, diventa immediatamente un nemico. L’idea è l’uno, l’uno che non partecipa dei molti. Questa idea, in effetti viene sostenuta, ma, ponendola come uno, diventa anche ineffabile, indicibile, diventa qualche cosa che c’è - perché io sto pensando questo e sto dicendo la verità - riferito a una verità che, però, non può essere detta, perché se la dico intervengono i molti immediatamente. Dirla significa determinarla. Ora, tutto ciò ha fornito le basi del pensiero cristiano, anche perché Proclo ha tentato di dare una forma al pensiero di Plotino che fosse più facilmente accettabile dal pensiero greco. Che ci sia riuscito oppure no, questo è un altro discorso, però, ha posto le basi del cristianesimo. Ho dato come titolo a quest’anno di corso proprio questo, l’ineffabile, cioè l’impronta del neoplatonismo e l’invenzione dell’ineffabile. L’ineffabile è un’invenzione. L’ineffabile è quella cosa che Aristotele chiamava l’universale, che è un’invenzione, non esiste di per sé, esiste in quanto è costruito dai molti, ma è un’astrazione inventata, che non c’è di fatto. E l’ineffabile è esattamente questo, è l’universale identico a sé, inamovibile. L’universale, però, è stato costruito dai molti. Per aggirare questo problema Plotino fa sorgere l’universale, l’Uno, ex nihilo. L’Uno c’è sempre stato, anzi, preesiste l’eternità. Non si sa bene cosa significhi, ma tutto questo per cancellare definitivamente questa idea, che era di Aristotele, che loro conoscevano, e cioè che l’universale, quindi l’uno, è prodotto dai molti, non precede i molti, ma è simultaneo. L’entelechia è la simultaneità di dynamis e energheia, che si coappartengono, come direbbe Heidegger. Non possiamo dire che c’è prima l’uno e poi l’altro, non c’è prima l’uno e poi molti, così come non c’è prima i molti e poi l’uno, ma si appartengono, sono simultanei. Mentre la ricerca, dicevamo prima, la ricerca dentro di sé e della verità in sé è qualche cosa che viene prima, che c’è sempre stata e che viene prima di tutto, dall’inizio dei tempi. Quindi, c’è e può essere reperita, anche se non si trova mai, naturalmente, perché è un’invenzione, non c’è propriamente, non è un ente di natura. La necessità è di cancellare l’eventualità che questo uno possa essere, come aveva detto Aristotele, il risultato di molti, non che venga dopo i molti, ma viene simultaneamente ai molti, se ci sono i molti c’è l’uno e viceversa.
Intervento: Il famoso esercito.
Esattamente. L’esercito è uno, si, certo, ma se gli togliamo i soldati scompare anche l’esercito.
Intervento: Viene da chiedersi qual è lo scopo di tutto ciò? È un po’ come la ricerca di se stesso: ciò che si vuole ottenere è come una sorta di pacificazione.
La pacificazione è l’eliminazione del nemico, cioè dei molti.
Intervento: Quello che impedisce la ricerca di se stesso è tutta una serie di nemici, le fantasie, che impediscono, appunto, questa pacificazione, la cosiddetta guarigione.
Per questo ogni guerra, da sempre, è l’ultima guerra, perché con questa guerra elimineremo i molti e ci sarà la pace perenne.
Intervento: Perché, in effetti, c’è da chiedersi anche cosa spinge uno come Proclo a cercare questo, qual è l’obiettivo. L’obiettivo è l’ordine, l’eliminazione delle contraddizioni. Già ponendole come un qualcosa di umano…
Sì, sono gli umani che si contraddicono, Dio non può contraddirsi.
Intervento: Come immaginare che un mondo senza contraddizioni non è possibile qui, ma dall’altra parte c’è.
Certo, perché Dio non può contraddirsi, naturalmente. Quindi, le contraddizioni, si, le ha inventate lui, le ha create lui - per quale motivo non si sa bene -, però, avendole create lui, sono al di sotto di lui, lui è al di sopra di ogni contraddizione. Che, poi, la Bibbia sia piena di contraddizioni, questo è un altro discorso. Per gli ebrei, la Bibbia, il Pentateuco, i primi 5 libri della Bibbia, sono la parola di Dio. Da qui la necessità della dell’ermeneutica, dell’interpretazione, perché si contraddice continuamente, ma Dio non può contraddirsi; quindi, se ha detto questa cosa che contrasta con quell’altra, vuole dire che ha detto, sì, questa cosa, ma voleva dire quest’altra cosa. In questo modo la contraddizione scompare.