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15 gennaio 1998

Iniziamo ponendoci una questione antica e cioè se esista qualche cosa prima della conoscenza o fuori della conoscenza. È una questione su cui il pensiero degli umani si è soffermato spesso. In definitiva, è una domanda fondamentalmente religiosa che chiede se esiste dio oppure no. La questione è riconducibile ad una considerazione molto banale, cioè “deve esserci pur qualcosa”. Ci troviamo così ad avere tra le mani una questione molto difficile da trattare: “Da dove vengono le cose?”. È una domanda fondamentale della filosofia, vale a dire: “perché esiste qualcosa anziché nulla?”. Posta così sembra una domanda quasi inutile, insensata e invece per Heidegger e per molti altri prima di lui ha avuto una certa portata, in quanto è una variante della domanda riguardante il perché delle cose e la loro provenienza: sono due aspetti della stessa questione. Partiamo dunque da questo. Intanto occorre, prima di rispondere, iniziare a riflettere su che cosa chieda esattamente questa domanda e se mai stia chiedendo qualcosa. Essenzialmente, chiede qual è il punto da cui occorre partire. Se io, come Heidegger, affermo o mi chiedo “perché qualcosa anziché nulla?” do già per acquisito che esista qualcosa e quindi do già per scontate una quantità notevole di cose. Si potrebbe porla anche in un altro modo, chiedendoci prima di tutto che cosa consente di porre questa domanda e poi, stabilito questo, all’interno di ciò che consente di porre questa domanda: “Che senso ha?”. Perché l’unico senso che può trarsi da questa domanda lo possiamo trarre unicamente da ciò che ci consente di farne, visto che è il ciò stesso che ci consente anche di parlare di senso. Il quesito posto in merito alla provenienza delle cose esiste da sempre, almeno da quando c’è traccia del pensiero; in definitiva, immagina che necessariamente debba esserci un punto di partenza e che cioè ci sia una prima parola. In seguito, questo pensiero è stato fatto proprio dalla religione: “In principio era il verbo”, Dio creava le cose pronunciandole. Si cerca quindi di trovare l’elemento che da solo può garantire non soltanto di sé e di tutto ciò che ne segue, ma anche dell’esistenza delle cose. Questo elemento però non può essere cercato all’interno di questa struttura particolare che è il linguaggio ma fuori da esso, perché se fosse all’interno allora ci si porrebbe nuovamente la questione: “da dove viene il linguaggio?”. Ma visto che chiede dov’è che si trova l’elemento fuori dalla parola, abbiamo considerato che, posta in questi termini, la domanda non porta da nessuna parte perché ci sbarra l’accesso, ci impedisce di uscire dal linguaggio. In qualche modo questa domanda permane, ci si continua a chiedere da dove provengono le cose che diciamo, da dove vengono i pensieri, le parole. Certo, la risposta potrebbe essere: dal linguaggio, ma in quale modo lo fa? In un certo senso abbiamo già risposto a questa domanda considerando il linguaggio una struttura, intendendo come struttura un insieme di elementi tali per cui non si dà un elemento che sia isolato dagli altri, che non sia in connessione con gli altri. Però, se ciascun elemento, in quanto elemento linguistico e non potrebbe essere altrimenti, è necessariamente connesso a ciascun altro elemento, allora a questo punto, ciascuna parola che io mi trovo a dire è ovviamente connessa ad altre parole in quanto anch’essa si trova all’interno di una struttura linguistica. Perché una parola sia tale occorre che ci sia qualcuno per cui lo è oppure no? La parola, quindi, è tale se qualcuno la ascolta. In altri termini, intendo che vi sia almeno uno per cui la parola sia tale. È chiaro che in prima istanza è qualcuno che la dice questa parola, per il quale questa parola è tale; senza questo ritorno, senza questo ascolto, potrebbe essere difficile stabilire che sia una parola. Qui si apre una questione che potrebbe riservarci delle notevoli sorprese e che potremmo indicare con la questione relativa all’interlocutore, all’interlocuzione o all’ascolto e cioè alla necessità dell’ascolto. In questa accezione, l’ascolto non può non essere; se non fosse, la parola cesserebbe di esistere, cesserebbe di essere quello che è.

Ma che cosa comporta l’ascolto? A questo punto sorgono almeno tre domande. La prima: io dico qualcosa, ma ciò che ascolto è ciò che ho detto oppure no? Infatti, non è così automatico che sia la stessa cosa. La seconda: con quale criterio potrò rispondere a questa domanda? La terza: chi mi garantirà del criterio che sto utilizzando? Questo è il minimo di domande che occorre porsi prima di affrontare una qualunque questione. Penso che per rispondere correttamente alla prima domanda mi occorra un criterio d’identità. Quale potrei utilizzare? Potrei scegliere fra alcuni. Potrei, ad esempio come ha fatto de Saussure, scegliere un criterio fonetico ma a questo punto mi troverei ad avere degli ulteriori problemi, perché non posso trovare un ulteriore criterio che mi garantisca che lo stesso suono è stato utilizzato in entrambe i casi e quindi la parola è già diversa. Ma se io stabilisco che è lo stessa, chi potrà negarlo? Nessuno, quindi se io utilizzo un criterio (il mio) al posto di un altro, nessuno potrà negare che è falso. Si potrebbe dire che quest’ultimo criterio è meno valido del primo, considerato che il primo, tutto sommato, non ha nessuna garanzia e non ha nessuna garanzia neanche il secondo, perciò sono ad armi pari. Allora, torno alla prima domanda aggiungendo però un elemento e cioè chiedendomi ulteriormente che cosa sto chiedendo chiedendomi questo e perché mi chiedo una cosa del genere? Perché dovrebbe essere importante stabilire che la parola che ascolto è esattamente quella che ho detta? Se ci riflettete bene, in effetti, potrebbe anche non essere una cosa determinante a meno che all’interno del discorso cosiddetto occidentale io non mi trovi costretto invece ad affermare una cosa del genere, costretto perché, affermando il contrario tolgo ogni possibilità di potere affermare in modo decisivo e stabile alcunché. Se ciascuna volta che dico una cosa, questa mi ritorna differente, rispetto ad una struttura cosiffatta come quella del discorso occidentale che esige che a ciascun elemento corrisponda necessariamente un significato, allora tutto ciò che tiene in piedi il discorso occidentale, potrebbe vacillare, questo aldilà di regole utilizzate per la “comunicazione”. Rimane che, prendendo la cosa in termini molto precisi, non c’è modo in effetti di stabilire o di provare che ciò che ascolto sia esattamente ciò che ho detto. Il fatto di non poter provare una cosa del genere, provoca indubbiamente degli effetti. Il primo fra questi è la necessità, se voglio che sia così, di doverci credere e quindi un atto di fede. Poi, in definitiva, ciascuno sa in qualche modo, o comunque ne riscontra gli effetti, che non è esattamente così e cioè che ciò che ascolta non è esattamente ciò che ha detto. Io dico una parola, una qualunque, ma che cosa avviene dicendo questa parola? Avviene una produzione, una produzione se non altro sonora, perché produco un suono, ma non uno qualunque; è un suono che ha degli effetti particolari in quanto è riconosciuto come elemento di una struttura linguistica e quindi immediatamente si aggancia ad altri elementi. È possibile allora che io dica una parola senza che questa si agganci ad altri elementi? Parrebbe di no, perché se questo fosse possibile, allora in quel caso avrei pronunciato un elemento sganciato dalla catena linguistica; isolato. Però, a questo punto, se quest’elemento è sganciato dalla catena linguistica, risulta arduo considerarlo un elemento linguistico; in questo caso, sarebbe nulla e quindi non avrei detto nulla. Se dico qualcosa, allora questo qualcosa è un elemento linguistico, che a sua volta è connesso ad altri elementi linguistici, quindi non posso dirlo senza che sia agganciato ad altri elementi linguistici. In questo senso, pronunciando questa parola, immediatamente ciò che ascolto è una connessione di elementi (quanti e quali non ha nessuna importanza), ma ascolto una connessione cioè ciò che mi ritorna è una connessione, un insieme di elementi agganciati fra loro (come non ci interessa perché per la logica questo è del tutto irrilevante).

Torniamo così alla domanda iniziale che chiedeva se ciò che ascolto è esattamente ciò che dico. A questo punto, la questione che dobbiamo porci è se questa domanda ha un senso oppure no. C’è l’eventualità che la risposta più appropriata sia la seconda e cioè no, non ha nessun senso. Non ha un senso in quanto non c’è un utilizzo possibile di questa domanda e non c’è, sempre in ambito prettamente logico, ovviamente, un utilizzo possibile perché non c’è nessuna risposta. Ciascuna risposta risulta assolutamente arbitraria. Posso soltanto dire che ciò che ascolto necessariamente è connesso con altri elementi. Questo è possibile, ma dire che sia lo stesso oppure no è una di quella domande che, a questo punto, non ha nessun senso. Non ha nessun senso perché non c’è la possibilità di stabilire un criterio che a questo punto sia assoluto, perché deve rispondere a questo requisito, altrimenti uno vale l’altro. E allora a questo punto inincominciamo a constatare, se consideriamo la questione in un ambito prettamente logico, che alcune domande non hanno un senso, cioè non sono utilizzabili in nessun modo; letteralmente, non hanno una direzione, non vanno da nessuna parte, è come un cartello stradale bianco, è inutilizzabile, non dice niente.

Dunque, abbiamo visto che alcune domande hanno questa prerogativa, di essere dei nonsensi logicamente e sottolineo sempre logicamente, perché retoricamente è tutto un altro discorso, retoricamente hanno un senso ma logicamente no.

Qual è l’intoppo in cui si cade con estrema facilità? È la sovrapposizione tra ciò che è logico e ciò che è retorico. E’ una sovrapposizione che ha degli effetti nefandi, per quanto riguarda la possibilità di proseguire l’elaborazione. Perché accade per lo più che tutto ciò che si afferma di assolutamente arbitrario si cerchi, sovrapponendolo alla logica, di renderlo assolutamente necessario? Tutta la disquisizione ad esempio intorno all’essere, tanto per dire uno dei temi più cari ai filosofi, muove dalla considerazione che l’essere, o chi per esso, necessariamente sia e che cioè la proposizione che afferma, per esempio, che “l’essere” è sia una proposizione necessaria. Nessuno di costoro, come abbiamo detto in altre occasioni sarebbe disposto ad ammettere che una proposizione come questa è assolutamente arbitraria del pari di quella che afferma che qualunque cosa è, e che cioè logicamente una proposizione come questa non ha nessun senso, non significa assolutamente niente né il suo contrario ovviamente. Se si scambiano però le due cose, ecco che allora ci si scervella per cercare di trovare una ulteriore proposizione a conferma della prima. Come dire, una perdita di tempo che è stata colossale e rischia di esserlo ancora, è quella di cercare delle proposizioni che diano una necessità logica ad affermazioni retoriche. È uno sforzo immane oltre che inutile, perché non potranno mai, rimarranno delle proposizioni arbitrarie e quindi necessariamente confutabili e in ogni caso sempre negabili. Eppure, da 2500 anni, l’operazione straordinaria è stata questa, cioè cercare di stabilire come necessario ciò che necessario non è, in nessun modo né potrebbe stabilirsi mai per nessun motivo.

Da qui il pensiero filosofico, dalle origini ai giorni nostri. Possiamo salvare Gorgia, forse Zenone, Protagora, Aristotele in parte. Poi, per quanto riguarda ciò che ne è seguito, si dovrebbero leggere i filosofi, dalle origini fino ai giorni nostri, per constatare e considerare come si siano dati un d’affare formidabile, inventando delle costruzioni straordinarie, per poi provare, in definitiva, sempre l’esistenza di dio, sotto varie forme, varie guise, e cioè giustificare una proposizione che affermi che esiste qualcosa fuori dal linguaggio. Ciascuna volta è lì che va a parare. Ora si tratta di riflettere sul perché mai gli umani abbiano perso così tanto tempo dietro ad una cosa del genere, senza considerare immediatamente che tutto ciò non conduce da nessuna parte (come già Gorgia fece). Però qui si aprirebbe tutta una grande parentesi intorno alla questione religiosa, perché un discorso che tenti questa sovrapposizione è, per definizione, un discorso religioso. Sovrapposizione tra la logica e la retorica, cioè dare un senso, e quindi un carattere di necessità, a qualcosa che non può averlo, per definizione. Ma quando dico “per definizione” mi riferisco a regole linguistiche, che non sono secondarie visto che sono le stesse che ci permettono di fare quella considerazioni. Quindi, siamo legati al linguaggio o siamo liberi? Ma libertà da che cosa esattamente, perché se si pone la questione come una libertà dal linguaggio ci si pone in una posizione che è autocontraddittoria e quindi non va da nessuna parte. La libertà di linguaggio si può intendere in vari modi, come libertà di poter disporre del linguaggio, e qui dovremmo intendere che cosa sia il disporre del linguaggio; o libertà di essere nel linguaggio oppure no, anche questo è un modo di porre la questione, ma posta in questi termini, nell’un caso, la libertà di poter disporre del linguaggio, questo possiamo provare che è possibile e possiamo provare che è impossibile, abbastanza facilmente; libertà di essere nel linguaggio direi che è pleonastico, non potresti non esserlo. Un po’ come l’idea di padroneggiare il linguaggio, io posso provare che padroneggio il linguaggio, per esempio, dicendo che tra poco dirò una certa cosa e poi dicendola. Possiamo provare invece che non è possibile padroneggiare il linguaggio, per esempio considerando una questione come quella precedente e cioè che chiede di provare che ciò che ascolto è esattamente ciò che dico (e abbiamo visto che non è possibile provarlo). Non avendo la certezza di compiere questa operazione, chiaramente non hai la certezza di padroneggiare il linguaggio. Ecco, tutte queste questioni che abbiamo posto, in buona parte filosofiche, hanno questo tale carattere di arbitrarietà, per cui ci si trova nella felice posizione di poter rispondere in moltissimi modi, tutti altrettanto legittimi, com’era il quesito già medievale soprattutto, se si dà il libero arbitrio, oppure no. Come salvare la questione del libero arbitrio, pur sapendo che (già Agostino e altri ancora prima di lui si ponevano) se dio sa tutto, allora sa anche il futuro e allora di conseguenza l’uomo non è libero. A questo è possibile rispondere in molto modi ma a questo punto dobbiamo chiederci che cosa intendiamo con libero arbitrio, perché la risposta a questa domanda deciderà del fatto che il libero arbitrio sia oppure non sia, ed io posso stabilire una definizione di libero arbitrio tale per cui, in nessun modo, potranno stabilirsene mai altre, perché è l’unica possibile al mondo? No, rimane che posso porre il libero arbitrio in modi differenti e modi differenti hanno risposte differenti. In effetti, poi è il sistema che si utilizza, da parte di tutti i filosofi, lo stesso Agostino, utilizzano un certo numero di éscamotage ed altri simili li utilizza Tommaso, Anselmo, etc.

Escamotage, e cioè, basta considerare il libero arbitrio in un certo modo, ecco che allora questo può giustificare l’esistenza del libero arbitrio. Viene da domandarsi se, ciascuna dottrina filosofica utilizza o ha utilizzato questo criterio, più o meno in buona fede, anche se quelli più interessanti sono quelli che lo hanno utilizzato in mala fede mentendo spudoratamente sapendo di mentire. Mentire sapendo di mentire: anche questo può riconquistare una sorta di dignità. Quando parlo di dignità, intendo dire che un elemento può ancora riservare qualche interesse anziché assolutamente nessuno. Intanto devo precisare cosa intendo per mentire. Se intendo utilizzare un termine che mi consenta di mentire e mentendo sapendo già di mentire, sapendo benissimo che all’interno di queste regole il termine che ci si aspetta sarebbe un altro e cioè che l’interlocutore se ne aspetta un altro, io appositamente non dico quell’altro, sapendo di mentire. Ma, sapendo di mentire è l’accezione che ho indicata e cioè che rispetto ad una struttura, quindi ad un insieme di regole linguistiche e non,(nel senso che non soltanto logiche, ma retoriche, etc.. ), si è convenuto che una cosa è quella che sappiamo che sia e negando queste io mento sapendo di mentire. Ma questo nell’ambito di un gioco particolarissimo perché se ci attenessimo unicamente alla logica di cui si diceva prima, allora il discorso è diverso, perché di fronte a questa domanda, non ci sarebbe nessuna risposta. Una domanda è un non senso; non c’è nessun rinvio, perché dovrebbe cominciare a far porre domande intorno a qualunque termine che viene utilizzato, per questo non è praticabile, la logica così, nell’accezione che stiamo man mano fornendo. E, in effetti, senza la retorica non si parlerebbe; la retorica è il modo, come lei stessa si è definita, in cui si dicono le cose, qualunque esso sia. In ogni caso le cose si dicono in un modo, di questo si occupa la retorica, di tutto ciò che si dice, in definitiva, non delle condizioni che rendono possibile il dire, perché di questo se ne occupa la logica.

Potremmo porci la questione: che cos’è lo scopo? La maggior parte delle cose che intervengono nel quotidiano hanno la prerogativa di intervenire come quegli elementi linguistici che di per sé non hanno un senso proprio ma lo acquistano impropriamente all’interno del contesto in cui sono inseriti. In effetti, la più parte degli elementi che intervengono nel corso di una giornata hanno questa prerogativa, cioè quella di essere quasi prestabiliti e vengono utilizzati proprio per questo motivo, per la loro facilità d’uso, per la loro brevità. Si dicono cose già stabilite, cioè associate ad alcune situazioni che si ripetono e difficilmente si riflette su ciò che facilmente si dice. C’è una sorta di semplificazione, proprio simile a un’accezione matematica quando si semplifica e si tolgono degli elementi che sono superflui e quindi si stabilisce che quando si ha a che fare con una certa situazione, fatta in un certo modo, gli si associa un certo termine o la si definisce in una qualche maniera precisa. Però, quelli che si usano sono dei criteri abbastanza universali, validi per tutti. In ogni caso, questa considerazione che viene fatta al pari di qualunque altra, segue ad un elemento che è essenziale che ci sia per potere fare questa considerazione, e già il fatto che esista è una considerazione possibile e cioè che una considerazione possa farsi (quale sia non ha nessuna importanza). E perché una considerazione possa farsi, c’è l’eventualità che sia necessaria la parola, altrimenti con cosa faccio questa considerazione? In questo senso dico che non è pensabile fuori dal linguaggio, anche se interviene con una sorta di automatismo, come per altro buona parte delle cose che avvengono nel quotidiano e nessuno compie operazioni logiche particolari o chissà quali elucubrazioni, quando ad esempio si accorge che si accende la spia della benzina e comincia a guardare se c’è un distributore aperto. È una sorta di automatismo, perché sa che quella spia che si accende vuole significare un certo numero di cose: che si deve fare benzina, perché se non si fa si rimane a secco, se si rimane a secco si ferma l’automobile, ecc… E non potrà essere diverso perché ha un uso e avendo un uso, cioè servendo a qualcosa, viene proseguita, così come certi modi di dire, certe frasi idiomatiche, avendo un uso si mantengono; così, allo stesso modo questo si scontra poi, ad esempio, in ambito psicanalitico, una paura, una fobia, si mantiene se ha un uso altrimenti no. Perché, ad esempio, una paura che si ha da bambini cessa poi di esistere e ad un certo punto si dissolve? Se questa paura ad un certo punto si aggancia a qualche cosa che è funzionale, cioè serve per altre cose, allora questa paura si mantiene. E la struttura è la stessa di un modo di dire, di un modo di pensare. Questo è un modo di pensare: avere paura di una certa cosa che non esiste più, è un modo di pensare, quindi un modo di dire, che ha una funzione e se ha una funzione si mantiene, permane e così automaticamente quando si accende la spia della benzina si cerca un distributore aperto. Questo automatismo ha una funzione e finché continua ad avere una funzione si continuerà ad avere questo automatismo. Ora, finché serve ovviamente, poi se all’improvviso si troverà un sistema per il quale non si deve più fare il pieno di benzina, allora si cesserebbe immediatamente di guardare la spia della benzina. Non è un’abitudine, perché se non è funzionale a nulla, cessa immediatamente l’abitudine, si perde nel giro di un istante, se invece continua ad essere funzionale a qualche cosa d’altro, ecco che allora si mantiene, perché c’è una connessione. Se questa connessione si perdesse, cesserebbe anche l’abitudine o meglio l’automatismo che si è creato, non avrebbe più alcun senso.

Si può parlare anche di scopo, cioè se io dico qualche cosa, la dico per qualche motivo. Per scopo, in linea generale, può intendersi in un modo tale per cui questa finalità, questo scopo non può non esserci. Proviamo ad indicare che cosa possa essere uno scopo: il senso quindi, la direzione. Ora, ciascun elemento è connesso con un altro elemento; questa connessione comporta che ci sia necessariamente una direzione che non sai qual è, quindi retoricamente non è utilizzabile, però logicamente sai che necessariamente c’è e quindi come mi sono trovato tempo fa a considerare, scrivendo le cose intorno alla sofistica, un unico scopo che possa attribuirsi al linguaggio è quello di riprodurre se stesso, cioè di proseguire. Difficile trovarne un altro quindi, possiamo dire, in questa accezione, che uno scopo esiste, non può non esserci, dal momento che ciascun elemento necessariamente rinvia ad un altro, quindi questo è il suo scopo, visto che non può non farlo; quindi non solo c’è uno scopo, ma anche necessario. Lo scopo di un elemento qual è? Quello di rinviare ad un altro. In questo senso sì che si può dire che nulla è privo di uno scopo, certo in questa accezione. Poi è chiaro che nell’ambito retorico, quest’aspetto dell’intenzione è fondamentale, perché dall’intenzione che hai dipende, come ad esempio sosteneva Austin, la riuscita di un enunciato, la sua felicità, come diceva lui. Perché se io ho intenzione di andare da Torino a Milano, e quando lo dico è questa la mia intenzione, allora il mio enunciato è felice. Se invece io dico che vado a Milano, mentre non ho nessuna intenzione di farlo, ecco che allora il mio enunciato è infelice. E quindi l’intenzione è fondamentale in tutta la linguistica, ma soprattutto nella filosofia del linguaggio perché l’intenzione è quella che può dare un senso a tutta una proposizione. Dall’intenzione di una persona si può intendere il senso di ciò che sta dicendo, lo scopo per cui sta parlando. Occorre distinguere, perché quando si parla e si intende parlare di termini molto precisi, molto rigorosi, è chiaro che, come fanno poi i logici e sono costretti a farlo, sono costretti a farlo, ciascuna volta dicono esattamente ciò che intendono effettivamente con quel termine perché altrimenti si può intendere una qualunque cosa, così come si è fatto prima per lo scopo: se si intende in una certa accezione, allora ha un certo senso, altrimenti ne ha un altro.

Può accadere ovviamente, ad esempio che un depresso dica: “la vita non ha più uno scopo”. Qui la nozione di scopo interviene in un’altra accezione, ancora molto diversa e quindi occorre precisare. È importante comunque considerare ogni elemento di un discorso, sempre connesso ad un altro, che rinvia ad un altro, che fa parte di una struttura. E questa è stata una della migliori trovate di de Saussure, la nozione di struttura che intende come insieme di elementi da cui non può togliersene uno senza che cambi tutta la situazione.

Il prossimo argomento da trattare è questo aspetto della sovrapposizione tra logica e retorica, nell’accezione che stiamo mano a mano costruendo. È un aspetto non indifferente, tutt’altro che marginale per gli effetti e per ciò che domanda a questo punto, cioè questa sovrapposizione immediatamente domanda qualcosa, domanda ciò che non può ottenere. Domanda l’ultima parola, l’interpretante logico finale di Peirce.