14 dicembre 2022
L’inizio della filosofia occidentale di M. Heidegger
C’è una questione che emerge dalla lettura di questo testo, uno dei testi più belli che abbia mai letto. Qui Parmenide, come ci racconta Heidegger, si trova di fronte a una questione notevole, si chiede dell’essere e del non-essere, e dice del non-essere che non è conoscibile, non è esprimibile, non è dicibile, ecc., ma ciò nondimeno ne sta parlando. Di questo Parmenide non tiene conto, non lo avverte neppure Heidegger, e cioè di questa sorta di “contraddizione”, per cui continua a dire che non si può parlare di qualcosa di cui, invece, sta parlando. È come dire che per potere affrontare la questione del non-essere Parmenide è costretto a porlo come essere, come qualcosa che è; infatti, ne sta parlando e se sta parlando parla di qualcosa – λέγειν τί, il dire è dire qualcosa – quindi è, quindi è essere; dunque, è costretto a porre il non-essere come essere. E dell’essere che cosa ci dice? Abbiamo visto i vari σήματα, gli aspetti dell’essere, ma gli aspetti principali dell’essere sono che l’essere non ha origine, quindi, non c’è un prima e un dopo l’essere, ma il tempo dell’essere è il presente, è sempre un ora, mai un prima o un dopo; l’essere è un tutto, un tutto che non ha parti, perché se avesse parti sarebbe scomponibile, sarebbe fatto di altre cose, mentre non è scomponibile e non si può aggiungere o togliere qualcosa all’essere, perché è tutto. Ma se non ha parti, se è un tutto, non posso definirlo, delimitarlo, determinarlo, quindi, non posso conoscerlo, e se non posso conoscere l’essere è un problema, perché a questo punto, sì, certo, ne sto parlando ovviamente, ma parlandone dico qualche cosa che non può essere l’essere, non lo è e non può esserlo, perché lo sto determinando, sto cogliendone degli aspetti, che non sono l’essere, sono altro che io dico rispetto all’essere. E che cos’è l’altro rispetto all’essere? Il non-essere. Dunque, parlando dell’essere io parlo del non-essere; mentre prima dicevamo che parlando del non-essere parlo dell’essere, qui stiamo dicendo che parlando dell’essere parliamo del non-essere. Non potremmo, dunque, né parlare di una cosa né dell’altra, però ne parliamo. Cos’è che ci consente di farlo? Ecco le tre vie: l’essere, il non-essere e ciò che credo che sia, il δοξάζειν. È la δόξα che mi consente di parlare, il credere che le cose siano. Il fatto è che non sono, o meglio, sono in quanto non sono, e viceversa. Ma ciò che mi consente di parlare è la δόξα, è l’opinione, è il credere che sia o il credere di sapere. Si potrebbe porre qui una questione rispetto a Parmenide. Lui parla della prima via, quella che la dea ‘Aλήθεια suggerisce fortemente e caldamente di seguire, mentre sconsiglia di seguire le altre due, ma naturalmente dopo aver detto a Parmenide che deve conoscerle bene tutte e tre, non solo la prima. Verrebbe però da pensare che, in effetti, non è né l’essere né il non-essere ma che sia la δόξα l’avvio: ciò da cui si parte è la chiacchiera. All’essere e al non-essere ci arriviamo, ma partiamo dalla δόξα, da ciò che crediamo, che pensiamo, supponiamo, immaginiamo, crediamo che sia. Da lì partiamo, non abbiamo altro.
Intervento: Come dire che il fondamento è retorico.
Sì, esattamente. D’altra parte, sappiamo che la logica è fondata sull’analogia, che è una figura retorica. Ora, il non-essere potremmo dire in questo senso che co-appartiene all’essere, perché non può darsi non-essere senza essere, perché io ponendolo, parlandone, pensandolo, lo pongo necessariamente come essere. Anche dicendo che il non-essere non è, sto dicendo del non-essere che è qualcosa, in questo caso che non è, ma se è qualcosa, è. Quindi, essere e non-essere si compenetrano, sono due momenti dello stesso, direbbe Hegel. Ma il parlarne è δόξα, è opinione, è chiacchiera, è il credere che le cose stiano in un certo modo, un credere di sapere. In fondo, si potrebbe quasi dire che la δόξα è tutto ciò di cui possiamo disporre, perché, sì, l’essere e il non-essere sono questioni, sono riflessioni che noi facciamo a partire dalla δόξα, da lì partiamo. Partendo dalla δόξα possiamo considerare come funzioni il linguaggio e, allora, lì ci interroghiamo sull’essere e il non-essere, cioè sul linguaggio e il non-linguaggio. Il non-linguaggio non c’è? Sì e no. Non c’è perché non posso uscire dal linguaggio, ma anche questo già mi dice che il non-linguaggio c’è, perché ne sto parlando; quindi, dicendo del non-linguaggio, dico il linguaggio. Ma dicendo del linguaggio, non potendo determinarlo, definirlo, fermarlo, bloccarlo, dico anche il non-linguaggio, perché questo linguaggio rimane comunque non determinabile, non definibile, non delimitabile. Ecco perché linguaggio e non-linguaggio, o essere e non-essere, per usare i termini di Parmenide, si coappartengono; e il dirne è la δόξα, attraverso la quale io parlo, conosco, ecc. Ed è a partire dalla δόξα che io posso considerare che per dire qualche cosa, per conoscere qualche cosa, o questa cosa si fa conoscere da sé, attraverso il procedimento immanente, mi si offre da sé; ma anche in questo caso, anche se si offrisse da sé, per potere coglierla, per potere vederla, per poterla prendere in considerazione, devo essere nel linguaggio, sennò non mi si offre niente. E, quindi, vengo a sapere che per dire che qualche cosa è devo dire ciò che non è, non ho altro modo, e questa è la δόξα, il parlare comune. Ma la cosa importante è che questa cosa non dice da sé che cos’è, devo dirlo io: io dico che cos’è quella cosa, la cosa non dice niente. Ma cosa comporta questo? Comporta che è il mio dire che fa dire che cos’è quella cosa, senza questo mio dire non c’è nessuna cosa. È interessante quello che dicevano già i pitagorici, quando parlavano dei numeri: l’uno è l’εἶδος, l’immagine; il due è tutto ciò che quell’immagine non è, quindi, tutto ciò che mi consente di distinguere quell’immagine rispetto a tutto il resto, ché se non potessi distinguere quell’immagine, non si stagliasse rispetto alle altre, o, come direbbe Anassimandro, non fosse in disaccordo con tutte le altre, io non la vedrei nemmeno. C’è poi il tre, che è la co-appartenenza di questi due elementi, dell’immagine e di ciò che l’immagine non è, essere e non-essere, uno e molti. Quindi, c’è il quattro, che sono io che penso quelle cose, perché senza me che le penso, che le dico, non ci sono. Ecco, quindi, l’importanza di ciò che Heidegger chiama l’esserci, e cioè l’uomo, che non è altro che il mondo di cui è fatto, ma senza di lui, senza il dire, non c’è nessun mondo, non c’è niente. Queste considerazioni, che sorgono naturalmente dalla lettura di Heidegger, ci mostrano che Parmenide era andato molto avanti nel pensiero, anche se lui immaginava questa verità, che lui definisce come “una ben rotonda sfera”, ben delineata, tutta uguale a se stessa. Da dove viene questa necessità di definirla, di pensarla in quel modo? Dalla δόξα. È la δόξα che impone di determinare le cose, ma a questo punto si potrebbe però fare una sorta di equazione: δόξα = volontà di potenza. La δόξα è ciò da cui si parte, ma si parte per fare cosa? Per dire, certo, e dire non è altro che determinare gli enti. Ecco perché dico che δόξα è uguale a volontà di potenza. Si chiacchiera, si parla per questo, lo abbiamo detto varie volte: per determinare gli enti, per dominarli. E, allora, la questione si fa ancora più interessante, perché a questo punto sorge in modo evidente quanto si parta sempre e necessariamente dalla volontà di potenza, cioè dal volere dominare l’ente, e volere dominare l’ente è volere dire come stanno le cose. Si parla sempre per dire come stanno le cose; nessuno ci fa caso, nessuno lo nota, ma si parla sempre per questo, per dire come stanno le cose, cioè per dominare l’ente. Uno potrebbe dire “ma una volta che l’hai dominato, cosa te ne fai?”. Niente, certo, se non fosse che subito dopo c’è un altro ente da dominare, e quell’ente stesso, che credo di aver dominato, può mostrare che invece non l’ho dominato affatto, e allora ecco che mi do da fare per trovare altri sistemi per dominarlo. Siccome è questo ciò di cui gli umani si occupano e che a loro importa davvero, questo fa intendere anche l’enorme successo della tecnologia. La tecnologia fa questo: continua a offrire enti da dominare, producendone una quantità smisurata, ma sottopone sempre un altro ente da dominare, in una successione che non finisce mai.
Intervento: La tecnologia fornisce l’illusione di aumentare la propria potenza.
Certo, un superpotenziamento continuo. Ha detto bene, è un’illusione, perché l’unico compito, potremmo dire, del superpotenziamento è continuare a superpotenziarsi, senza arrivare mai da nessuna parte, non c’è il punto di arrivo. Il punto di arresto, lo aveva inteso bene Nietzsche, è immediatamente il depotenziamento, per cui deve esserci un superpotenziamento continuo, ininterrotto. La δόξα, il credere di sapere, il δοξάζειν. Il credere di sapere è il credere di sapere l’ente, quindi, di poterlo dominare. Siamo a pag. 200. Qui continua su questa questione del “donde”, del da dove viene l’essere. È importante perché deve mostrare che non può venire da nessuna parte, e qualunque parte io mostri come il “donde” dell’essere non è sostenibile. Perché non è sostenibile? Con il funzionamento del linguaggio si intende molto bene e rapidamente, perché qualunque “donde” rispetto al linguaggio sarebbe un fuori del linguaggio, che, come sappiamo, non c’è e quindi non ha origine, nel senso che non è possibile un fuori del linguaggio, sarebbe come stabilire un luogo del non-essere. … se c’è essere, allora esso c’è in modo assolutamente permanente. Sennonché nemmeno questa tesi è fondata in termini compiuti, nel senso che la possibilità di una provenienza dell’essere non è ancora esclusa in modo assoluto. Rimane infatti pur sempre una seconda possibilità per un donde. Anche se non si tratta del nulla, è pur sempre qualcosa che può comunque corrispondere al “donde”, sempre supposto che quest’ultimo non possa essere l’essere stesso; e questo qualcosa è il πη έόν, l’ente che è “in qualche modo”, ovvero il sembiante, ciò che ha la parvenza dell’essere eppure non è essere. Che sappiamo bene essere la δόξα, il credere che sia. Come stanno dunque le cose con questa seconda possibilità di un donde per l’essere? Ovvero con la sua origine dalla parvenza? Essa va parimenti rifiutata. Per quale via? Richiamandosi alla “forza dell’affidamento”. Affidamento si fa però soltanto sulla svelatezza, e quest’ultima è la svelatezza dell’essere. La svelatezza in greco è l’ἀλήθεια. Abbiamo quindi di nuovo a che fare – come nella prima prova dimostrativa – con un appello alla percezione dell’essere, ci si richiama cioè alla tesi originaria, sicché ci ritroviamo di nuovo in un circolo. Cioè, per dire ciò che non è l’essere devo sapere che cos’è l’essere. Quindi, esclude anche la parvenza, perché dalla parvenza non può che sorgere un’altra parvenza, non può sorgere qualcosa che sia l’essere. Una provenienza dell’essere a partire da lì non è possibile. La parvenza infatti, così come ogni mutamento, è in sé dominata dal “non”, e il “non” (tutto ciò che ha carattere di “non”) non può mai provenire dal nullo (ciò significa, qui, da ciò che è dominato dal “non”). La parvenza in quanto donde non basta per una provenienza dell’essere. Oltre a questa seconda possibilità di un donde non ce n’è in nessun caso un’altra. Se quindi l’essere non può trovare un donde da nessun punto di vista, allora esso è necessariamente senza-provenienza – ά-γένητον –, sempre posto che vi sia, in genere, essere. A pag. 204. La cognizione ci dice: l’essere è senza un “non”. Per l’essere non v’è nessun venire a patti con il non e il nullo, come se ad esempio la parvenza – che purtuttavia non è semplicemente nulla – potesse comunque esser ammessa in quanto essere. In tutta la sua durezza e unicità l’essere si chiude a tutto ciò che ha carattere di “non”. La questione interessante, cui accennavo prima, è che escludendo il “non”, l’essere esclude anche la possibilità di conoscenza, di essere conosciuto lui stesso; quindi, di che cosa stiamo parlando? Se ne parliamo, vuol dire che questo “non” non solo non è escluso ma è implicito, perché parliamo di essere e non parliamo di altro, ma per definirlo dobbiamo definirlo in quanto altro rispetto all’essere, cioè, rispetto a ciò che essere non è, e ciò che l’essere non è, appunto, il non-essere. A pag. 205. Ricordiamo il frammento 4, versi 3 e 5, in cui si dice: la prima via è quella dell’essere, la seconda è quella del nulla. Adesso si dice: o l’“essere” oppure il “non”, ovvero: o l’una via o l’altra. All’apparenza non abbiamo fatto alcun passo avanti. Eppure non dobbiamo trascurare il fatto che accogliendo le dimostrazioni dei σήματα abbiamo ottenuto un’esplicita spiegazione dell’essenza dell’essere, benché solo negativa e basata sulla determinazione essenziale positiva già pre-supposta. È quello che vi dicevo prima: per parlare dell’essere mi trovo a parlare di ciò che l’essere non è, perché se ne parlo dico delle cose, ad esempio i σήματα, gli aspetti, che non sono l’essere, per cui se non sono l’essere sono non-essere. Adesso introduce la questione della temporalità in Parmenide, che è solo il presente, non può esserci né passato né futuro, è tutto qui presente. Se ci pensiamo bene, questa è una prerogativa del linguaggio: il linguaggio è ciò che è sempre presente, non è mai passato e non è mai futuro. Posso dire che è passato? Sì, certo, ma quando lo dico? Nel presente. Posso parlare di futuro, ma in che modo ne parlo? Nel presente. Quindi, il linguaggio è presente, è la presenza. A pag. 206. Posto che l’essere sia soltanto in passato, dunque che l’essenza dell’essere consista nell’ “essere-stato”, allora non c’è alcun “è”, e lo stesso avviene se l’essenza dell’essere consiste nel “sarà”, poiché anche in tal caso non c’è un “è”. L’essere non perviene quindi mai all’ “è”. Esso manterrebbe un “non” e assumerebbe in sé anche già un “non”. Perché se sarà vuol dire che non è, se fu vuol dire ancora che non è. Noi però diciamo “è” dove c’è ente, poiché questo “è” dice l’essere. Solo là dove c’è “è” c’è essere. Nel presente. Se quindi l’essere ci fosse stato anzitutto al solo scopo che l’essere un giorno divenisse tale, allora l’“è” non sarebbe in assoluto mai ciò che dice – dunque ci sarebbe solo non-essere. Se l’essere è in attesa di diventare qualcosa, non è in questo momento essere, non è presente. Se, invece, l’essere è essere, allora esso è necessariamente senza passato e senza futuro, senza relazione con il passato e con il futuro. Questo ci richiama a ciò che dicevo prima: l’essere è senza passato e senza futuro, cioè, non ha relazione con nulla. È qui che c’è il non-essere, perché se è in relazione con nulla, nonostante abbia detto prima che essere è essere in relazione, ma se fosse in relazione con nulla allora non sarebbe conoscibile, non potrei dirne nulla, perché qualunque cosa ne dica è già messo in relazione con ciò che ne sto dicendo. Se l’“è” intende l’essere, allora l’essere deve avere necessariamente una relazione con il presente e solo con esso. Questo è quanto si dice infatti senza possibilità di equivoco in 8,5. Se mai l’essere deve avere una relazione con il tempo, allora solo con il presente. A pag. 207. Infatti, essere senza-passato e senza-futuro non significa ancora essere senza-tempo; anzi il presente è talmente tempo che solo e anzitutto a partire da esso il passato e il futuro sono soliti essere intesi: il primo è il “non più ora”, il secondo il “non ancora ora”. È in questo modo che il tempo viene concepito a partire dal νῦν (presente) – fino al giorno d’oggi; qui il νῦν vale appunto come il fenomeno fondamentale del tempo. Questa è la temporalità per Parmenide: il tempo è solo il presente. E proprio nella relazione con il νῦν (presente) l’essere è ὀμοῦ παν (continuo, che non ha soluzione di continuità): tutto ciò che costituisce l’essere e che gli appartiene sta comunque in relazione con il νῦν. L’essere è sempre e in ogni caso presente. Parlare qui di atemporalità o di eternità dell’essere è tanto puramente arbitrario quanto superficiale. In effetti, non è dell’eternità che parla Parmenide, non è questa la questione, esclude semplicemente il passato e il futuro, c’è solo il presente. Il presente in senso greco antico è ciò che si mostra, è il fenomeno, è ciò che appare. Lo abbiamo detto altre volte che per il greco antico l’essere è ciò che appare così come appare. La discussione dell’essere in riferimento al tempo non ha fornito solo aspetti negativi – senza-passato, senza-futuro – ma anche qualcosa di positivo: l’essere sta in relazione con il presente, e solo con esso. Chiamiamo questa constatazione la tesi temporale di Parmenide sull’essere. Ma è dimostrata? Così domandiamo di nuovo. O è semplicemente ipotizzata? Infatti, se si dice che l’essere non può avere alcuna relazione con il passato e con il futuro, altrimenti non sarebbe essere, allora si è già per l’appunto presupposto che “essere” significhi “presente”. Ma stiamo pur certi che non si tratta affatto di una mera, tacita presupposizione, dato che al contrario è proprio tale presupposizione che la dimostrazione deve far emergere. Parmenide non ha nulla da nascondere. A pag. 208. …la tesi originaria afferma che l’essere sta in una relazione necessaria con il percepire… Ricordate il famoso frammento 5: essere e pensare sono lo stesso. …la tesi temporale afferma che l’essere sta in una relazione necessaria con il presente. Queste due tesi dicono lo stesso o qualcosa di diverso? Se dicono lo stesso, allora il percepire e il presente sono lo stesso – ma come dobbiamo intendere questo fatto? Se dicono qualcosa di diverso, allora il percepire e il presente si coappartengono comunque in qualche modo – ma in che modo? Inoltre, la tesi essenziale afferma: l’essere è assolutamente senza “non”. La tesi temporale afferma: l’essere è solo con il presente. Resta quindi da domandare: l’essere è senza-non perché è con il presente, oppure è con il presente perché è senza-non? Oppure entrambe le domande sono mal poste? Come va concepita – o addirittura fondata – la connessione interna tra la non-nullità e il presente, anzi come vanno in genere concettualmente comprese o addirittura fondate la tesi originaria, la tesi essenziale e la tesi temporale? Questa questione dell’essere come presenza, che qui viene articolata da Parmenide e ancor di più da Heidegger, a noi dice qualcosa di molto interessante, perché ci dice di nuovo ciò che dicevamo già prima, e cioè se l’essere, o il linguaggio, non è altro che presenza, di questa presenza che cosa ne so? È lo stesso problema che poi si presenterà con Gentile rispetto al pensiero pensante e al pensiero pensato: il pensiero pensante non lo posso cogliere come pensiero pensante, posso coglierlo solo come pensiero pensato.
Intervento: Quindi, anche l’essere non posso coglierlo…
Sì, esattamente. È proprio lì che volevo arrivare. L’essere, così come il linguaggio, se è presenza, di fatto, non è mai in atto, non posso mai dire che è in atto, posso sempre soltanto dire che è agito ma non in atto. Che sia in atto è un’idea, ma, di fatto, non lo posso né mostrare né meno ancora dimostrare. Qui interviene nuovamente la questione della δόξα, più propriamente, del δοξάζειν, del credere di sapere. Credo di avere delimitato l’atto, ma, di fatto, non ho delimitato l’atto, ho delimitato l’agito, ciò che ho fatto, non posso fare diversamente. A pag. 209. Sappiamo che nascita significa sorgere, apparire – tramonto significa scomparire; “sorgere”, cioè anzitutto entrare nel presente, “scomparire”, cioè uscire fuori da esso. Entrambe le cose sono, ciascuna in modo diverso, non-presente. Quindi, non c’è sorgere e non c’è scomparire. Tutto ciò viene espresso da Parmenide con il termine γένεσις. Per lui è questo sorgere, questo apparire. La priorità oggettiva sta però nel tempo, nel senso che l’essere è senza nascita e senza tramonto – senza provenienza e senza futuro: solo presente. Solo quest’ultimo è la condizione per la possibilità del “senza” γένεσις e ὃλεθρος (scomparire) – non viceversa. La tesi temporale ha la priorità. Questo è interessante, però ci pone il problema di cui dicevamo prima, il problema del presente. Per dirla così in termini molto banali, molto semplici: del presente che cosa ne so? Se pongo il presente in questo modo, cioè come esclusione di passato e di futuro, quindi come l’atto, del presente che cosa ne so? Quindi, dell’essere, che cosa ne so? Niente. Quindi, penso all’essere, alla realtà, penso al non-essere, perché penso ciò che l’essere non è già più. L’essere, il presente, il linguaggio: a questo punto questi tre termini si intrecciano tra loro. Penso a qualcosa che non è già più quello, quindi, non penso quello: se quello è essere, ciò che sto pensando è non-essere rispetto a quello. È un altro modo per dire come essere e non-essere, linguaggio e non-linguaggio, si compenetrino continuamente, incessantemente e inesorabilmente, non c’è l’uno senza l’altro. A pag. 209 c’è l’ultima parte: L’impossibilità dell’assenza nell’essere. L’essere non può mancare di nulla, è tutto. È quello che per Severino è il concreto, il tutto: il tutto è tutto quando tutti gli astratti partecipano del concreto e, quando quel giorno arriverà, allora il tutto sarà Tutto. Con i versi 22-25 la discussione passa alla dimostrazione del primo e dell’ultimo σήμα positivo: οὖλον (tutto) e συνεχές (il continuo, ciò che non ha parti). Dal punto di vista formale tale dimostrazione si presenta nuovamente come un rinvio ad aspetti distintivi già indagati: διαίρεσις significa precisamente separare, dividere, scomporre in pezzi. Difatti, se nell’essere vi fosse un divergere e separarsi l’uno dall’altro, ovvero – il che è lo stesso – un differenziarsi l’uno dall’altro in rapporto all’altro, cioè allontanandosi l’uno dall’altro, esso assumerebbe completamente il carattere del “non”, il che non si addice all’essere;… Non sarebbe essere se ci fossero parti delimitabili, determinabili, scomponibili: non sono più il tutto, non sono più l’essere. Potremmo dirla con Anassimandro: se c’è la discordia non c’è essere, perché c’è delimitazione, scomposizione in parti. Per delimitare questo io devo separarlo da altre cose, che non sono questo, mentre l’essere è il tutto, non può essere scomposto in parti. …se infatti si desse una simile scomposizione, allora anche le parti scomposte sarebbero ancora essere, però la parte non è il tutto, e la totalità appartiene solo all’essere. Se infatti l’essere fosse composto di pezzi sarebbe in linea di principio sempre possibile aggiungere un nuovo pezzo; allora però sarebbe impossibile quella conchiusa coesione che caratterizza l’essere nella sua essenza, verrebbe cioè escluso il συνεχές. Capite che qui si pone la questione del linguaggio in modo interessante. Il linguaggio è scomponibile in pezzi o è un tutto non scomponibile? La risposta a questa domanda dovrebbe sorgervi immediatamente: ovviamente non è scomponibile, non posso separare un pezzo dal linguaggio. Lo aveva inteso bene de Saussure: un significante è quello che è per via di una relazione differenziale con tutti gli altri; se non ci sono tutti gli altri, non c’è nemmeno lui. Quindi, non posso isolare un termine dal linguaggio, come fa la linguistica, per sezionarlo, esaminarlo al microscopio, non lo posso fare, perché non è più quello ma un’altra cosa, inserita in un altro gioco. L’essere, posto in questi termini, è esattamente come il linguaggio, non può essere scomposto in pezzi, perché se un pezzo è fuori dall’essere allora non è più essere, è non-essere. Ciascun elemento, preso per quello che è, sarebbe creduto essere fuori dal linguaggio, cosa che non può accadere, perché se lo tolgo dal linguaggio tolgo anche lui. A pag. 210 c’è un brano che vi leggerò due volte e capirete perché. In ciò che è c’è solo assolutamente essere, all’essere non può avvicinarsi nient’altro che essere, e solo in quanto essere esso riempie ogni vicinanza e lontananza. Il fatto di distogliere o sguardo da ciò che ha il carattere del “non” nel senso della separatezza – in base a uno sguardo gettato sull’essere – viene fondato qui sulla visione dell’essere in quanto pura pienezza e del puro dominio dell’essere su qualsiasi vicinanza e lontananza. Che cosa ci offre in definitiva la prospettiva di questa visione positiva? Tutto è puramente riempito, non v’è nessun vuoto, nessun “via”, cioè nessuna assenza nell’essere in quanto tale: v’è solo presenza. Nella vicinanza dell’essere non v’è nient’altro che l’essere stesso, nessuna lontananza è possibile per sé, poiché al di là e via da ogni vicinanza e lontananza l’essere è tanto più lì, totalmente presente. Esso è quindi per l’appunto coesione elementare nel presente. Adesso lo rileggo sostituendo la parola “essere” con la parola “linguaggio”. In ciò che è c’è solo assolutamente linguaggio, al linguaggio non può avvicinarsi nient’altro che linguaggio, e solo in quanto linguaggio esso riempie ogni vicinanza e lontananza. Il fatto di distogliere o sguardo da ciò che ha il carattere del “non” nel senso della separatezza – in base a uno sguardo gettato sull’essere – viene fondato qui sulla visione del linguaggio in quanto pura pienezza e del puro dominio del linguaggio su qualsiasi vicinanza e lontananza. Che cosa ci offre in definitiva la prospettiva di questa visione positiva? Tutto è puramente riempito, non v’è nessun vuoto, nessun “via”, cioè nessuna assenza nel linguaggio in quanto tale: v’è solo presenza. Nella vicinanza del linguaggio non v’è nient’altro che il linguaggio stesso, nessuna lontananza è possibile per sé, poiché al di là e via da ogni vicinanza e lontananza il linguaggio è tanto più lì, totalmente presente. Io posso pensare di uscire dal linguaggio, di allontanarmi, ma sono sempre lì, perché ovviamente lo faccio parlando. Esso è quindi per l’appunto coesione elementare nel presente. Ovviamente, la questione non è che si tratta semplicemente di sostituire la parola essere con la parola linguaggio, ma ho fatto questo giusto per farvi intendere come Parmenide era giunto in modo straordinariamente vicino alla questione del linguaggio, perché se, come abbiamo appena fatto, sostituiamo la parola essere con la parola linguaggio, ne dà una descrizione perfetta. Ciò che Parmenide sta dicendo qui è che non c’è uscita dal linguaggio, perché non posso staccare un pezzo dal linguaggio e metterlo fuori del linguaggio, sarebbe comunque sempre linguaggio, perché continuerà a considerare questo pezzo staccato, a pensarlo, quindi, a dirne. A pag. 211. “Senza inizio e senza fine” non significa che l’essere perdura, ma che si pone al di fuori della durata, giacché quest’ultima va sempre “da-a”. All’essere invece manca in assoluto ogni “da”, “da prima”, “a dopo”. Ciò nondimeno, se l’essere è al tempo stesso, per l’appunto, presente e presenza, allora ciò deve significare qualcosa di diverso da un accadere continuativo che noi, per così dire, misuriamo con l’orologio. Ogni “da-a” significa “da prima a dopo”, nel senso che il prima è un non-più-ora e il dopo è il non-ancora-ora. Ogni “da-a” … si muove nell’ambito dell’ora passeggero, che in sé, cioè in ogni istante, è necessariamente un altro, e in sé non si arresta mai a un limite, ma è per essenza il senza-limiti del mero sempre-avanti e via-così: il senza-fine. La questione temporale in Parmenide è la questione della presenza, lui muove da questa idea che non c’è un prima e un dopo rispetto all’essere. Possiamo pensare la stessa cosa anche rispetto al linguaggio. Se noi pensiamo a un prima o a un dopo del linguaggio, non facciamo nient’altro che mettere in atto il linguaggio, quindi, siamo sempre nel presente. A pag. 212. Di nuovo si dice: l’essenza dell’essere non viene trovata e raccattata qua e là in un qualsiasi ente, ma scaturisce da una disposizione originaria che è legge a se stessa: legame, lega. Legame, lega, ma qui è il λέγειν, il λόγος. Quindi, non viene raccattata qua e là negli enti, è nel λόγος, è nel linguaggio, è lì che c’è l’essenza dell’essere, cioè ciò che l’essere necessariamente è. Ora, affronta L’essere come l’Uno che esclude ogni Altro. L’essere è l’Uno, con l’esclusione di ogni Altro. Ciò significa che l’essere non è solo contrapposto all’altro, ma si pone al di fuori e al di là di ogni diversità e alterità. Difatti non si dice semplicemente “l’essere è ταὐτον, stesso”, bensì “rimanente esso stesso nello stesso”. Rimane in se stesso, l’essere permane e si trattiene in tale stessità. In quanto in sé tenentesi presente a partire da se stesso, l’essere è unità unificante. Unità unificante: è esattamente ciò che attribuiamo al linguaggio. Potremmo dire che il linguaggio è Uno, è Uno in quanto unifica tutto, non c’è qualcosa che rimanga fuori, non c’è, e se lo pensassi sarebbe già dentro il linguaggio; in qualunque modo lo pensi, lo immagini, lo congetturi, è già all’interno del linguaggio. È in questo senso che non c’è il fuori-linguaggio. A pag. 214. Capitolo β, L’incompibilità dell’essere rettamente intesa. L’essere non può venire compiuto perché è già compiuto. Chi lo compirebbe e come? A questo punto Parmenide accenna nuovamente alla specificità delle unità menzionate: esse vengono mantenute unite dalla forza possente secondo il decreto dello ούκ άτελεύτητον, che, provenendo dall’essenza dell’essere, erige la barriera intorno a tale essenza, disponendo così la connessione. Perciò l’essere è ούκ άτελεύτητον, non-incompibile. Viene così fondato l’ultimo σήμα: l’άτελεστον (senza fine, senza finalità). L’essere è senza compimento. Ma com’è possibile? Sopra, nell’elenco, si dice: l’essere è άτελεστον. Adesso invece facendo riferimento all’unitarietà dell’essere si dice: esso è ούκ άτελεύτητον, cioè esattamente l’opposto, ovvero non-incompibile. Ma ciò significa: compibile. Delucidando l’άτελεστον ci siamo richiamati al verso 8,32 (che va ora analizzato), ma l’abbiamo fatto – così almeno adesso sembra – a torto. Si deve dire, all’opposto: qui all’essere viene attribuita una compibilità, dunque nell’elenco dei σήματα non ci poteva stare “l’essere è incompibile”. In base al passo ora considerato l’essere è “compibile”. Che cosa dobbiamo pensare? Che esso può essere prima o poi portato a compimento, ma è dapprima incompiuto? In base a tutto ciò che si è deto finora risulta subito chiaro che all’essere non si può attribuire una compibilità, ma altrettanto poco una in-compibilità. Tuttavia nel testo vengono enunciate entrambe le cose. Come risolve il problema? Lo vedremo mercoledì prossimo.