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14 dicembre 2016

 

Seminario del 10 e 12 marzo 1965 in casa Boss. A pag. 99 dice: Al termine del precedente seminario abbiamo sollevato la questione di che cosa significhi che qualcosa si nel tempo. Una cosa è nel tempo nel medesimo modo di noi uomini esistenti? Cioè, questo posacenere è nel tempo come lo sono io? Potrebbe apparire una domanda bizzarra. La risposta è: no, non è la stessa cosa. Vediamo se Heidegger ci dice anche perché. La questione circa lo “essere-nel-tempo” fu ammessa in via preliminare. Tuttavia, è facile vedere che non la possiamo discutere finché non sia divenuto chiaro che cosa sia il tempo, … e siamo sempre daccapo… finché non risulti chiaro che cosa di volta in volta voglia dire “essere” nel caso della cosa e nel caso dell’uomo esistente. (pag. 100) Vale a dire, essere nel tempo per il posacenere e essere nel tempo per me. La questione circa lo “essere-nel-tempo” è sì una questione stimolante, epperò essa è anche posta troppo presto. La questione è stimolante proprio per la scienza della natura, tanto più che dal sorgere della teoria della relatività di Einstein si è consolidata l’opinione che attraverso la teoria fisica sarebbe stata scossa la dottrina, finora valida, della filosofia circa il tempo. Cionondimeno, questa opinione molto diffusa è un errore fondamentale. Nella teoria della relatività, in quanto teoria della relatività propria della fisica, non si tratta della trattazione di che cosa sia il tempo, bensì unicamente di come il tempo, nel senso della successione della serie di ora, possa venire misurato; … infatti, Einstein non ha affatto detto che cosa sia il tempo, ha semplicemente posto delle condizioni per una differente misurazione del tempo … se si dia una misurazione assoluta del tempo, o se ogni misurazione debba essere necessariamente una misurazione relativa, vale a dire condizionata. In generale, la questione propria della teoria della relatività non potrebbe venire trattata, se fin dal principio il tempo non fosse presupposto in quanto successione della serie di ora. Qui Heidegger fa valere la voce della filosofia, tutto ciò che la fisica contemporanea ha fatto è potuto essere muovendo dalla posizione che il tempo sia questa successione di ora, di istanti. Se la dottrina del tempo, valida a partire da Aristotele, venisse invalidata, in tal caso con ciò sarebbe esclusa la possibilità di una fisica. È ovvio, la fisica è fondata sulla misurabilità del tempo, del tempo quindi come successione di stati, successione di ora, se si leva questo si leva di sotto alla fisica il terreno, quindi crolla tutto, non ha più nulla su cui lavorare, nulla da utilizzare come metro per le proprie operazioni. Che nel suo orizzonte della misurazione del tempo la fisica conosca non solo processi irreversibili, bensì reversibili, che la direzione del tempo sia invertibile, con ciò la fisica testimonia proprio che per essa il tempo non è altro che la successione della serie di ora. Cioè, manovra con questa serie di ora, tenendola però sempre fissa, ferma, come condizione e base per la propria operabilità. Epperò ciò in modo così deciso, che in questa successione perfino il senso della direzione possa diventare indifferente. L’opinione dominante, secondo cui la fisica avrebbe fatto decadere la dottrina tradizionale della metafisica circa il tempo, si accompagna l’altra, oggi particolarmente udita spesso, secondo cui la filosofia verrebbe zoppicando dietro alle scienze della natura. Rispetto a ciò si deve dire che l’odierna scienza della natura, a differenza di ricercatori del rango di Galilei e di Newton, ha abbandonato la vivente meditazione filosofica e non sa più nulla di ciò che i grandi pensatori hanno pensato circa il tempo. Ricordate, l’abbiamo letta, la famosa frase di Heidegger che dice che la scienza non pensa. A questi appartiene, per esempio, anche Hegel, del quale si racconta che egli non avrebbe capito gran che delle scienze della natura. Laddove la fisica giudichi la metafisica, la qual cos è già in sé un controsenso, in tal caso si deve esigere da essa che prima ri-pensi i pensieri metafisici, per esempio quelli circa il tempo, il che certo essa può fare solo se è pronta a riandare, oltre le supposizioni che, in quanto fisica, le stanno a fondamento, verso ciò che, in quanto accettazione, permane normativo in quanto ambito, permanendo ininterrottamente anche qualora il fisico non ne prenda cognizione alcuna. (pagg. 100-101) Cioè, ciò che permane è la domanda, della quale domanda la fisica, e la scienza naturale in generale, non si pone minimamente. Tuttavia, che oggi manchi una autocritica, intesa in un senso rigoroso, della scienza moderna, non è un caso, non riposa su di una negligenza e indolenza dei singoli ricercatori. È un accecamento, determinato dal destino dell’epoca presente. Potremmo aggiungere: della tecnica. Da ciò risulta anche che la filosofia stessa, nella misura in cui ci sia ancora, non se ne venga zoppicando dietro alle scienze, bensì dietro alla sua propria tradizione e non sia più in grado di porre in questione il pensiero stesso in un colloquio che questiona circa la cosa del pensiero. Questa è l’accusa che Heidegger ha sempre rivolto alla filosofia, cioè di essere una metafisica, cioè di avere scambiato l’essere per l’ente. Perché dico ora questo? Affinché vediamo più chiaramente quanto oggi sia diventato ovunque difficile far parlare i fenomeni stessi, in luogo di correre dietro all’informazione… È la fenomenologia di Husserl, che è stato il maestro di Heidegger, ricordate Husserl: andare alle cose stesse. Lasciare parlare i fenomeni, dopo tutto ciò che Heidegger ha posto come λήθεια è in un certo modo lasciar parlare la cosa stessa, lasciar parlare il fenomeno, lasciare che ciò che si mostra, cioè ciò che esce dal nascondimento, attraverso il logos possa dirsi, manifestarsi, perché finché non si dice non si manifesta. … correre dietro l’informazione, la cui peculiarità consiste nel fatto che essa ci preclude da cima a fondo proprio l’accesso alla forma, alla figura, al proprio dell’essere dell’ente. (pag. 101) Ci sta dicendo che l’informazione è ciò che nega l’accesso all’essere dell’ente, perché l’informazione mostra qualche cosa come se fosse un ente, e qui lo dice chiaramente, senza l’essere, cioè senza quel progetto che fa esistere quell’ente in quanto ente. Questo è ciò che fa l’informazione, ci sta dicendo Heidegger: ci mostra un ente senza l’essere, cioè senza il progetto all’interno del quale questo ente è, quindi, lo mostra come la verità assoluta, come un qualche cosa che è quello che è per virtù propria, si immagina l’informazione come innocente, cioè non si porti appresso nulla più di quanto informa, senza tenere conto che informando dà una forma, letteralmente. Alla pagina successiva, pag. 102: Riguardo alla tradizione del concetto di tempo, restano da osservare tre cose. Primo: il tempo è un susseguirsi della sequenza di ora puntuali. Secondo: il tempo non è senza psiche, animus, coscienza, spirito, soggetto. Terzo: il tempo, riguardo al suo essere, viene determinato a partire dalla comprensione dell’essere nel senso della presenza. Abbiamo intenzionalmente menzionato solo di passaggio queste determinazioni normative per ogni pensiero circa il tempo. Invece di trattarle approfonditamente e nelle loro modificazioni storiche da Platone a Nietzsche, abbiamo intrapreso un’altra via, per farci un’idea di che cosa sia il tempo e del modo in cui qualcosa come il tempo si dia. Siamo partiti dall’esperienza quotidiana del tempo, da ciò a cui, ci rivolgiamo attraverso le locuzioni “avere tempo”, “non avere tempo”, “prendersi tempo”, “impiegare tempo”, “sacrificare tempo”, “sciupare tempo”. In tutto ciò si tratta in certo modo di una specie di commercio con il tempo. Un po’ come se si potesse economizzarlo, gestirlo. Un tale commercio è manifestamente possibile solo per il fatto che noi in generale abbiamo già il tempo, che esso ci è concesso, per impiegarlo in questo o quel modo. Anche quando e proprio quando non abbiamo tempo, siamo incalzati dal tempo concessoci. Siamo riguardati dal tempo. Il tempo ci concerne. Abbiamo preso di mira i fenomeni dello “avere tempo”, “non avere tempo”, per esperire come e con quali caratteri vi si mostri il tempo. Il tempo è tempo per qualcosa. Il tempo è di volta in volta il tempo in-cui accade questa e quella cosa. Perciò il tempo è accennativo a qualcosa… accennativo, cioè è per qualcosa, accenna a qualcosa, indica qualcosa … è datato secondo qualcosa e con ciò insieme dimensionato, non è il punto isolato di un’ora. Nel primo punto diceva che il tempo è un susseguirsi di ora, però, ci sta dicendo che questo “ora” non esiste di per sé, in quanto tale, da solo, cioè non è un oggetto metafisico. Inoltre, il tempo è noto a chiunque, è accessibile agli uomini nell’essere-con e nell’essere-l’uno-per-l’altro, esso è pubblico. Il tempo che noi abbiamo, ci si mostra con questi caratteri. (pag. 103) Il tempo è pubblico, rimanda a ciò che diceva Wittgenstein, e cioè che il linguaggio è pubblico, non esiste un linguaggio privato, è sempre pubblico, è sempre necessariamente rivolto a qualcosa o a qualcuno. Il linguaggio privato non esiste perché è un linguaggio parlato da una sola persona non si rivolge propriamente neppure a se stessa, quindi non c’è a quel punto linguaggio. Dice che il tempo è pubblico, cioè è tale se esiste all’interno di un sistema di relazioni, dopo tutto sta dicendo questo. È una questione che ci rinvia anche a de Saussure: ciascun elemento è quello che è in quanto è preso in una relazione differenziale con tutti gli altri elementi, ma esiste perché esiste nella relazione, fuori da questa relazione non esiste niente di tutto ciò. Il tempo è la stessa cosa. Dalla sequenza degli ora, ne viene di volta in volta catturato uno. (pag. 105) Potremmo fare di nuovo una connessione con de Saussure, la langue e la parole. La langue è l’insieme della possibilità di tutte le esecuzioni di una lingua, la parole è la singola esecuzione della langue, l’esecuzione di qualche cosa è la parola, dove non è più trascendente ma è immanente. Questa constatazione coglie lo stato delle cose? Stiamo a vedere. Se dico: “ora non ho tempo”, sono qui riferito al tempo in quanto susseguirsi di ora puntuali? Nient’affatto. In tale dire-ora, noi prendiamo lo ora dal tempo, che abbiamo o non abbiamo. Con lo ora, al tempo, che noi abbiamo o non abbiamo, viene rivolta la parola. Ci riferiamo al tempo che abbiamo o non abbiamo, tempo inteso come lo ora… lo ora, cosiddetto, non viene desunto da una sequenza di ora rappresentata per sé, da un mero susseguirsi. Per tutta l’ulteriore riflessione è importante tenere in vista questo stato di cose. Lo ora, abitualmente detto nella lettura dell’orologio e anche altrimenti, non è un momento della serie di ora, bensì è affine al tempo, che noi abbiamo , nel modo in cui lo abbiamo. Conosciamo già i caratteri di questo tempo: esso è accennativo, datato, dimensionato e pubblico. Cioè, è un tempo per. Conformemente a ciò, anche lo ora detto nomina questi caratteri e solo essi, senza che noi, nel dire-ora, badiamo espressamente ad essi. Cioè, non ci preoccupiamo della cosa, cionondimeno questo tempo è sempre un tempo accennativo, un tempo per qualcosa. Siamo a pag. 107. Scegliamo un caso che ci renda subito un po’ più chiaro il vero stato di cose. Ho angoscia. Vivo nell’angoscia di qualcosa di minaccioso, di cui non so dire che cosa sia. Mi angoscio, o ancora più precisamente, poiché non sono io che mi procuro l’angoscia, bensì in quanto è essa che pervade me, diciamo: mi viene angoscia, mi angoscia. Come sta la cosa con l‘avere in tale avere angoscia? L’avere stesso e proprio questo è angosciato. L’angoscia dimora proprio in questo avere. L’avere è il trovarsi-situato-emotivamente nell’angoscia. Che cosa desumiamo da questa delucidazione provvisoria riguardo al nominato avere angoscia? Nulla di meno che questo, che in questo caso l’avere non è un rapporto indifferente con ciò che abbiamo, bensì che l’avuto qui nominato, l’angoscia, non è affatto l’avuto, bensì propriamente l’avere stesso. Non si dà un’angoscia che si possa avere, bensì si dà un avere in quanto trovarsi-situato-emotivamente in questo o quel modo, la quale situazione emotiva si chiama qui angoscia. Come dire che questa angoscia che io provo la provo in quanto io suppongo che ci sia un avere l’angoscia da parte di qualcuno, in questo caso a parte mia. Heidegger pone l’accento non tanto sull’angoscia ma sull’avere, che dice è il trovarsi-situato-emotivamente nell’angoscia. Qui è discutibile, però per il momento va bene così. L’angoscia si trova solo nell’ambito del trovarsi-situato-emotivamente, ha il tratto fondamentale della situazione-emotiva, che può essere interpretata in quanto essere-, di volta in volta, -in-una-tonalità-affettiva. Però, dice più avanti a pag. 107: Il nostro tema conduttore è il tempo e innanzitutto l’avere tempo. Prontamente e con un certo diritto diremo che ciò che venne notato circa l’avere angoscia non si può trasporre all’avere tempo; giacché il tempo non è una tonalità-affettiva, né un essere-in-una-tonalità-affettiva come l’angoscia. Dire che un uomo sia temporalmente intonato-affettivamente sembra essere senza senso. Ci sta dicendo che il tempo non è una situazione affettiva, non è una questione psichica. Senza il parlante non c’è tempo, però dice che non è una questione affettiva. Ora, neanche noi pensiamo semplicemente a trasporre all’avere tempo ciò che è stato provvisoriamente notato circa l’avere angoscia, a prescindere completamente dal fatto che un tale procedere, come già accennato, contravverrebbe alla regola fondamentale dell’interpretazione fenomenologica. (pag. 108) Lui sta dicendo che vuole capire che cosa è il tempo a partire dalla fenomenologia, cioè dal tempo come fenomeno, dal tempo in quanto ciò che appare, ciò che si manifesta, ciò che si mostra, e non come un fenomeno psichico o emotivo. Si dice generalmente che il tempo è soggettivo. Ecco, a lui questo aspetto non interessa, a lui interessa come si dà al parlante il tempo, come si mostra, e ha già detto che si mostra come tempo per qualcosa, come in quanto accennatività. La regola esige di rendere visibile ogni fenomeno espressamente nel suo elemento peculiare. Cioè, il tempo in quanto tempo, non in quanto effetto di qualcos’altro, ecc. non è possibile, perciò, in quanto il modo di dire dell’avere angoscia e avere tempo è il medesimo e in quanto sia l’angoscia che il tempo concernono noi uomini, dalla delucidazione dell’un fenomeno trarre conclusioni sulla costituzione dell’altro. Dice che sono due cose totalmente differenti, non si può parlare in nessun modo del tempo come di qualcosa di psichico, questa è la questione. Nella fenomenologia non vengono tratte conclusioni, né sono consentite mediazioni dialettiche. Si tratta solo di tenere aperto lo sguardo del pensiero sul fenomeno. Questa, potremmo dire, è la definizione di Heidegger della fenomenologia. Ve la rileggo: tenere aperto lo sguardo del pensiero sul fenomeno. Lo sguardo del pensiero, che è un altro modo per dire: lasciare aperta la domanda. Prescindendo da questa fondamentale considerazione metodica, si potrebbe inoltre fare valere che l’angoscia non ci assale ovunque e sempre, allo stesso modo in cui il tempo ci concerne costantemente e inevitabilmente. Andiamo alla pag. 109. Se ho tempo per qualcosa e lo dico, in tal caso, nel detto avere, il tempo stesso non è reso oggetto e non è affatto considerato tale. Quando dico che ho tempo non considero questo tempo, di cui dico di avere, come oggetto. Piuttosto , restiamo rivolti a ciò per cui noi abbiamo il tempo. Come dire, il tempo scivola sotto il per dell’avere tempo. Nondimeno, l’osservazione che il tempo venga in primo piano, ha qualcosa a suo favore, tuttavia in un senso del tutto diverso, per così dire, opposto. Perché qui il tempo sarebbe messo in secondo piano, è un tempo per, quindi è ciò per cui è per che importa e pertanto è in secondo piano. Invece, lui dice, c’è un modo in cui è in primo piano, ed è questo: Nell’avere-tempo per qualcosa sono rivolto al per-cui, a ciò che è da fare, a ciò che è imminente. Sono in attesa di esso, epperò lo sono in modo tale che, in uno con ciò, permango ancora presso ciò che mi è direttamente presente, ciò a cui presentemente-attendo, laddove inoltre, espressamente inteso o non, nel contempo serbo ciò che poco fa e precedentemente mi occupava. (pagg. 109-110) Sì, dice, il temo è sempre per qualcosa, ciò nondimeno quando penso di avere tempo per fare qualche cosa, questo tempo per fare qualche cosa, dice Heidegger, è come se tenesse conto di ciò che lo precede, e cioè di ciò che sto facendo in questo momento, e ciò che sto facendo in questo momento è ciò che annuncia ciò che sto per fare, quando avrò tempo, per esempio. Il tempo, che ho in questo caso, lo ho in modo che sono essente-in-attesa-di, essente-in-presenza-di, serbante. Quindi, c’è un tempo che è assolutamente presente, in primo piano. Questo triplice modo in cui io sono è l’avere il tempo per questa o quella cosa. Questo avere, cioè l’essere-in-attesa-di, di essere-in-presenza-di, serbare, è l’elemento temporale autentico. L’essere sempre in attesa di qualcosa, l’essere in vista di qualcosa, l’essere in presenza di qualcosa che penso adesso ma che deve arrivare. L’avere, nell’avere-tempo, non è un rapporto indifferente con il tempo in quanto oggetto. Cioè, ci sono io, il soggetto, e lì c’è il tempo, ce l’ho oppure non ce l’ho. No, dice, non funziona così. È piuttosto l’elemento temporale, in quanto in esso si temporalizza ciò che chiamiamo il soggiornare dell’uomo. Quindi, sta dicendo “l’elemento temporale, in quanto si temporalizza”, è lì che soggiorna l’uomo. Cosa vuol dire che l’elemento temporale si temporalizza? Che l’essere in attesa di qualche cosa tiene conto, e questa è una questione sempre presente in Heidegger, della temporalità, cioè dell’essere presente del qui e adesso, ma con tutto ciò che questo comporta, non è un qui e adesso avulso da qualsiasi altra cosa, è un qui e adesso che è determinato da una infinità di altri elementi che sono intervenuti e che intervengono o che immagino interverranno. Questo è caratterizzato dal fatto che in esso, cooriginariamente, ma non nella stessa misura, si dà ciò che viene verso di noi, ciò che è presente e ciò che è già passato. Questo triplice temporalizzarsi del soggiornare produce sempre un tempo per qualcosa, ha da assegnare un tale tempo, da assegnare il poi, lo ora, il prima, con cui noi facciamo i conti con il tempo. Dice che questi fenomeni sono difficili da scorgere… Tuttavia, Loro capiscono anche perché viene premessa la breve interpretazione dell’avere angoscia, nell’intenzione, cioè, di allentare lo sguardo fisso al tempo in quanto serie di ora e di renderlo libero per riuscire a comprendere che come nell’avere angoscia l’angoscia risiede nell’avere, così anche nell’avere tempo, invero non nell’identico modo, ma in un certo modo simile, il tempo si svolge nell’avere, nel senso della temporalizzazione essente-in-attesa-di, essente-in-presenza-di, serbante. Questa connessione fra il tempo e l’angoscia, l’avere, dice che ciò che è simile è l’avere, è questo avere o non avere che caratterizza il tempo, perché questo avere o non avere è sempre un avere per qualche cosa. In modo differente l’angoscia, l’avere un’angoscia è sempre preso in una temporalizzazione, cioè in un qualche cosa che sta accadendo qui e adesso rispetto al mio progetto. La temporalizzazione è tenere conto che qualunque cosa accada è quella che è per via che accade qui e adesso, per questo essere è tempo. L’essere è il momento in cui qualcosa accade, il momento in cui il progetto sta facendo qualche cosa. Poco dopo a pag 111. Ci prendiamo e ci lasciamo tempo in quanto nell’essere-in-attesa-di lo serbiamo, ne siamo in-presenza e attraverso ciò lo teniamo a disposizione in quanto quello di volta in volta attuale. Questo è il modo con cui generalmente si parla del tempo, cioè lo lasciamo, lo prendiamo, ti lascio tempo, mi prendo tempo. Il tempo, di volta in volta disponibile e disposto per qualcosa, si forma in quanto tale nell’essere-in-attesa-di, serbare, essere-in-presenza-di. Ciò, nella sua triplice unità, costituisce la temporalizzazione del tempo, che noi abbiamo e non abbiamo. Qui resta ancora del tutto oscuro in che modo sia da determinare l’unità di questo elemento triplice della temporalizzazione. Cioè, la temporalizzazione è la compresenza di questi tre momenti, e cioè: l’essere-in-attesa-di, il serbare, l’essere-in-presenza-di, futuro, passato, presente. Essere in attesa di qualcosa, del futuro, ciò che attendo è ciò che deve arrivare; il serbare, il passato; l’essere-in-presenza-di, il presente, ciò che sta accadendo adesso. Questi sono i tre momenti che caratterizzano il tempo da sempre, però, in Heidegger questi momenti sono posti in modo fenomenologico, e cioè mostrando in che il tempo, questa che chiamiamo tempo, ci appare, in che diciamo di averlo o di non averlo. In questo modo lui temporalizza il tempo, cioè, prende questa nozione di tempo, che è abbastanza ardua da trattare, e la temporalizza, cioè, la dispone all’interno del progetto. In questo progetto io posso essere in attesa, posso serbare qualche cosa, posso essere in presenza di qualcosa qui e adesso, modi di mostrare il tempo in quanto fenomeno, cioè nel modo in cui si mostra, in cui appare. Quindi, non come concetto o come qualche cosa di psichico, nulla di tutto ciò Ricordate bene la fenomenologia: ciò che appare, ciò che si manifesta, quindi lasciare la domanda sempre aperta a ciò che mi si mostra, perché ciò che mi si mostra mi si mostra se c’è la domanda, soltanto se c’è domanda qualcosa mi si mostra, nel logos, ovviamente. Quindi, lasciare aperta la domanda significa consentire alle cose di apparire così come sono. E come sono? Beh, sono esattamente così come il mio progetto, il progetto in cui mi trovo, le fa essere, è l’essere che rende l’ente quello che è, cioè il progetto rende ciascuna volta l’ente quello che è, che è nel senso che mi si mostra, non che è per conto suo, perché per conto suo non esiste, è quello che è all’interno del mio progetto, dell’essere, per questo è necessario che ci sia l’essere perché ci sia l’ente. Come dire, in altri termini, che l’ente, al di fuori del progetto, al di fuori di me, al di fuori della parola, è niente, è non ente. Passiamo adesso al Seminario dell’11 e 14 maggio 1965 in casa Boss. La questione del tempo, del tempo per qualcosa, in che modo ci interessa? Anche il tempo, così come lo sta ponendo Heidegger, cioè come un tempo per qualcosa, cioè il tempo esiste solo in quanto tempo per qualcosa, ci interroga ulteriormente intorno alla questione della volontà di potenza. Lo dirà tra poco in modo molto esplicito, se il tempo è sempre per qualcosa è un tempo per modificare qualcosa, cioè un tempo per intervenire su qualcosa, è un tempo per…, questo lo sto dicendo io, non lo dice Heidegger in modo così esplicito, è un tempo per gestire le cose. Lo diceva prima a proposito della gestibilità, infatti si dice l’avere tempo o non l’avere tempo, è sempre una questione di possesso, quindi di volontà di potenza. Il che ci porta, facendo uno strappo abbastanza vistoso, a pensare che senza volontà di potenza il tempo non esisterebbe, non avrebbe nessun motivo di esistere, perché non ci sarebbe da avere o non avere nulla, non saprei cosa farmene, perché il tempo non sarebbe più per qualcosa e quindi sarebbe niente. A pag. 124. La scienza diventa cieca per ciò che essa deve necessariamente presupporre… come dire che la scienza, almeno quella avvertita, si rende conto che è fondata su niente e, quindi, gira la testa dall’altra parte, per dirla in modo spiccio… cieca per ciò che, nella cui genesi, essa desidererebbe, a modo suo, spiegare. Piacerebbe alla scienza sapere ciò con cui ha a che fare, ciò che presuppone continuamente. Tuttavia, questa cecità per il fenomeno non domina solo nelle scienza, essa domina anche nell’atteggiamento non-scientifico. La cecità di cui sta parlando qui Heidegger è una cecità particolare perché è la cecità della metafisica di fronte all’essere, che continua a considerare l’ente in quanto qualcosa di avulso dall’essere, cioè da ciò che essere l’ente che è, dal progetto in cui è inserito, quindi dal parlante che pone questa cosa. Dice “cecità per il fenomeno”, in effetti lui dice di prestare attenzione al fenomeno, la scienza non lo fa, ciò che si mostra per la scienza è qualche cosa che si mostra di per sé al di fuori del progetto, in quanto tale, senza domandarsi minimamente che cosa si sta mostrando di fatto, questa è la cecità della scienza per Heidegger, cecità che invece, per Heidegger, non ha la fenomenologia perché la fenomenologia è aperta a questo venire incontro dell’ente, venire incontro che avviene nella domanda circa l’ente, circa l’essere dell’ente, cioè un domandare intorno al mio progetto, un domandare intorno a ciò che fa essere una certa cosa quella che è, in quanto è funzionale al mio progetto. E noi sappiamo che il mio progetto è la volontà di potenza, ciascun ente è quello che è all’interno della volontà di potenza, fuori dalla volontà di potenza l’ente non c’è, questa è un po’ tirata ma è possibile dedurla. Per esempio: andiamo a passeggiare nel bosco e vediamo sulla strada qualcosa che si muove; lo sentiamo perfino frusciare e lo percepiamo come qualcosa di vivo. Guardando più precisamente, risulta che ci siamo ingannati,; infatti, un colpo di vento appena percettibile ha mosso delle foglie che si trovavano per terra. Non era, dunque, niente di vivo. Ma, già affinché noi possiamo ingannarci nell’assunzione che ciò sia qualcosa di vivo, nel contenuto di ciò circa cui ci inganniamo dobbiamo anticipatamente avere scorto qualcosa come l’esser-vivo, qualcosa come l’essenza di un che di vivente. Attraverso questo rinvio solo una cosa deve diventare chiara: che non è indifferente se noi prestiamo attenzione ai fenomeni o no. Prestare attenzione al fenomeno, qualcosa fa rumore e io penso a qualcosa di vivo, quindi devo già presupporre l’esistenza di un qualche cosa di vivo. Cosa vuol dire qui Heidegger dicendo di prestare attenzione al fenomeno? Prestare attenzione al fatto che rispetto a questo rumore c’è una mia presupposizione che qualcosa esista e che questo qualcosa sia una certa cosa. La scienza cosa direbbe? Chiaramente, non si curerebbe minimamente di tutto ciò, cioè del fatto che per potere ingannarmi devo aver già presupposto l’esistenza di qualcosa di vivo, ma come mia presupposizione, la scienza invece considererebbe tutto ciò solamente come un errore, quindi cancellerebbe tutto. Questa è la cecità della scienza di cui parla Heidegger. Perfino se lo sguardo nei fenomeni della presentificazione e del ricordo non apporta nulla per la spiegazione e l’accertamento di ciò a cui l’indagine fisiologica ha mirato, nondimeno, lo sguardo fenomenologico resta un, anzi, perfino, il contributo fondamentale. L’attenzione fenomenologica, l’attenzione al fenomeno, mantiene aperta la domanda circa ciò che si sta mostrando e circa ciò che è la condizione perché qualche cosa si mostri, cosa che nella scienza non c’è. Appagandosi inusualmente, la ricerca esatta, di solito così esigente, si accontenta, in tutti questi casi, di concetti popolari pescati a piacimento. Tuttavia, questa strana assenza di bisogno, nella ricerca scientifica, riguardo al necessarissimo contributo che deve essere prestato per essa, non è un caso. Essa è fondata nella storia dell’uomo europeo degli ultimi tre secoli. Questa assenza di bisogno è la conseguenza della pretesa di un nuovo tipo di ide di scienza. Se teniamo conto di ciò, anche solo approssimativamente, allora le questioni, intorno alle quali ci affatichiamo in tutte queste ore di seminario, acquistano un peso che non può essere affatto sopravvalutato. (pagg. 124-125) Forse è sbagliato, doveva essere “che non può essere affatto sottovalutato”. Qui è chiaro che l’obiezione che Heidegger rivolge alla scienza è fondamentale. Che la scienza stessa, almeno quella più avvertita, sa, e cioè che non si interroga minimamente sul fenomeno, su ciò che appare, ma sulla misurabilità di qualcosa che si presume stia apparendo. Dico che si presume che stia apparendo perché se non so cosa sta apparendo posso solo presumere che stia apparendo qualche cosa. A pag. 130. Facciamo, ora, un salto al problema del corpo. Innanzitutto, due asserzioni di Nietzsche. In Der Wille zur Macht, il frammento 659 (scritto nel 1865) suona: “il corpo è un pensiero più meraviglioso della vecchia anima”. Buttiamo via l’anima e prendiamo il corpo. Il Nr. 489 (scritto nel 1886) suona: “Il fenomeno del corpo è il fenomeno più ricco, più chiaro, più comprensibile: da anteporre metodicamente, senza stabilire qualcosa circa il suo significato ultimo”. La prima proposizione contiene una verità. Invece, non può risultare giusto ciò che la seconda proposizione afferma, e cioè che il corpo sarebbe qualcosa di più comprensibile e più chiaro. Per Heidegger non è affatto così, è vero il contrario, dice. Perciò, nel paragrafo 23 di Sein und Zeit cit. (pag. 108), su “La spazialità dell’essere-nel-mondo” sta scritto: “Così come i suoi disallontanamenti, l’esserci include costantemente anche queste direzioni (in basso, in alto, a destra, a sinistra, davanti e di dietro). La spazializzazione dell’esserci nella sua ‘corporeità’, che racchiude in sé una propria problematica, che qui non è possibile trattare, è insieme peculiarmente caratterizzata secondo queste direzioni”. Cioè, l’essere-nel-mondo tiene conto necessariamente di questa spazialità, davanti, dietro, sopra, ecc. L’esserci dell’uomo è in sé spaziale nel senso del concedere-spazio… qui c’è questo verbo concedere, concedere spazio, non è che si trova nello spazio ma nel concedere-spazio… allo spazio e della spazializzazione dell’esserci nella sua corporeità. Sta dicendo che questo esserci dell’uomo è spaziale, nel senso che concede allo spazio di essere spazio, apre un orizzonte in cui lo spazio può farsi spazio. Quindi, l’esserci non è spaziale in quanto è corporeo, perché il corpo prende uno spazio, bensì la corporeità è possibile solo in quanto l’esserci è spaziale nel senso di concedente spazio. Il che non è nient’altro che ciò che Heidegger dice continuamente, che lo spazio non è altro che l’aprirsi di qualcosa perché si concede a questo aprirsi di aprirsi, come dire che esiste un orizzonte, il progetto, che consente allo spazio di esistere. Detta ancora in altri termini, lo spazio non esiste prima del parlante, occorre il parlante il quale all’interno di un progetto, all’interno del suo pensiero, lui dice “concede allo spazio di essere”, cioè concede l’idea di spazio, produce l’idea di spazio. Poi qui fa un discorso su alcune questioni considerate psichiche, sempre nell’ambito della misurabilità, dell’esattezza della scienza. Per esempio, dice che il lutto non è misurabile scientificamente, così come le lacrime, la misurazione delle lacrime non danno la quantità del dolore. Certo, la scienza può misurare le lacrime ma, badate bene, a quel punto non sono più lacrime, dice Heidegger, e questo è molto fine, non sono più lacrime ma un liquido che scende dal condotto lacrimale, è tutt’altra cosa, posso pesarlo, posso coglierne le proprietà chimiche, tutto quello che voglio, ma quelle non sono più le lacrime, le lacrime sono quelle che io vedo, sono, cioè, il fenomeno, e questo è un altro modo per dire che la scienza non vede il fenomeno, non lo vede. Per la medicina il corpo è un oggetto metafisico, da manipolare, ecc., ma non vede il corpo come ciò che sta muovendosi all’interno di un progetto che gli appartiene. Quindi, cosa nota da sempre, tutti i vari pezzetti del corpo messi assieme non fanno il corpo, così come tutte le proprietà fisico-chimiche delle lacrime non sono le lacrime. È una cosa che diciamo da tanto tempo, facendo un esempio anche più semplice: descrivendo questo posacenere, dicendo che cos’è questo posacenere, io continuo a dire ciò che questo posacenere non è, e cioè peso, composizione chimica, colore, durezza, ecc., tutte queste cose posso dire che appartengono al posacenere ma non sono il posacenere. Quindi, ciò che fa la scienza è che per dire che cos’è una certa cosa deve dire ciò che quella cosa non è, però di questo la scienza non se ne occupa minimamente, bypassa tutta la storia e si condanna alla cecità, dice Heidegger, è cieca di fronte al fenomeno, non coglie il fenomeno per quello che è realmente, per come appare, ma come appare al parlante, cioè preso all’interno della parola, quindi del linguaggio, e qualunque elemento, tolto da tutto questo, è niente, è ingannevole, ingannevole perché non è quella cosa lì che io credo che sia. Da qui tutta una serie di abbagli ininterrotti. Intervento: Quindi, il corpo è tenuto insieme dalla parola? Esattamente, proprio così. Infatti, a pag. 137 dice: Il corpo inanimato termina con la pelle. Heidegger distingue tra corpo come fenomeno, quindi ciò che è colto in quanto apertura dal corpo-inanimato, che è quello della scienza e della medicina. Quando siamo qui, siamo sempre in relazione con qualcosa. Siamo qui, cioè, relazionati con tutto ciò che determina questo “qui”. Si potrebbe dire, dunque, che siamo sempre oltre il corpo-inanimato. Perché se il mio corpo è inanimato e termina con la mia pelle e l’essere qui è relativo, è connesso con tutte queste cose che mi attorniano, è chiaro che il mio corpo non finisce dove finisce la mia pelle. Soltanto, questa constatazione è solo apparentemente esatta. Essa, infatti, non coglie il fenomeno. Giacché non posso determinare il fenomeno del corpo in relazione al corpo-inanimato. Sta dicendo che sono due cose totalmente differenti, che non c’entrano niente. Infatti, dice, La differenza dei confini di corpo-inanimato e corpo consisterebbe, conseguentemente, in ciò, che il confine del corpo sarebbe spostato fuori oltre il confine del corpo-inanimato, cosicché la differenza dei confini sarebbe una differenza quantitativa. 8PAG. 137) Cioè, dice, il mio corpo non finisce dove finisce il corpo-inanimato, perché il mio corpo è quello che è in relazione a tutto ciò che è il qui e adesso in cui mi trovo. Infatti, dice poco dopo a pag. 138: Lo esser-corpo del corpo si determina a partire dal modo del mio essere. Quindi, del progetto. Questo è ciò che determina il mio corpo. Lo esser-corpo del corpo è quindi un modo dell’esserci. … Se il corpo in quanto corpo è sempre il mio corpo, allora questo modo d’essere è quello mio, quindi lo esser-corpo è condeterminato dal mio esser uomo nel senso del soggiornare estatico nel mezzo dell’ente levato-nello-slargo. Sta dicendo che il mio corpo è quello che è in quanto mi trovo all’interno del mondo per cui sono quello che sono. Vi ricordate la questione dell’arte che mostra il mondo in cui l’ente è presente ed è quello che è, è la stessa cosa.