14-12-2011
In un testo del ‘64 dal titolo “La fine della filosofia e il compito del pensiero”, Heidegger scrive:
Il titolo, nomina il tentativo di una meditazione che persevera nel domandare, le domande sono cammini verso una risposta, essa dovrebbe consistere nel caso che fosse concessa una trasformazione del pensiero, non in un’asserzione su un qualcosa di già dato /…/ poniamo due domande: uno, in che senso la filosofia nell’epoca presente è giunta alla sua fine? Due, quale compito resta riservato, alla fine della filosofia, al pensiero? Filosofia vuol dire metafisica, questa pensa l’essente nella sua totalità, il mondo, l’uomo, dio, in riferimento all’Essere, in riferimento in quanto ad esso congenere dell’Essere dell’essente /…/ la metafisica pensa l’essente come essente nel modo della rappresentazione in quanto fondazione /…/ che significa parlare della fine della filosofia? Intendiamo troppo facilmente la fine di qualcosa in senso negativo come il semplice cessare, come il venir meno di un processo se non addirittura come decadimento, d’impotenza, al contrario il discorso della fine della filosofia indica il compimento (Vollendung) della metafisica. Tuttavia, compimento non significa perfezione per cui la filosofia con la sua fine dovrebbe aver raggiunto la massima completezza. /…/ Fine significa come compimento il raccoglimento nelle possibilità estreme. /…/ La Scienza è la teoria che ha per oggetto la direzione della possibile pianificazione e organizzazione del lavoro umano, la cibernetica trasforma il linguaggio in uno scambio di informazioni. Ma allora la fine della filosofia, nel senso del diramarsi nelle scienze, è anche già la compiuta realizzazione di tutte le possibilità, in cui il pensiero che si è realizzato come filosofia, è stato posto o c’è per il pensiero oltre l’ultima possibilità così definita, ma c’è una prima possibilità da cui il pensiero filosofico dovette certamente partire ma che proprio in quanto filosofia non fu in grado di esperire e di intraprendere? Se fosse così, allora celato in tutta la storia della filosofia dal suo inizio alla sua fine, potrebbe essere ancora riservato al pensiero un compito che non era accessibile né alla filosofia in quanto metafisica né vieppiù alle scienze che da essa derivano. /…/ Quale compito resta ancora riservato al pensiero alla fine delle filosofia?
A questo proposito incomincia a parlare della alètheia”, dell’alètheia come il disvelarsi di qualche cosa, a - alfa privativa, lètheia, nascondimento, alètheia letteralmente è “il non nascondimento” poi è stato tradotto con “verità” ma Heidegger pone delle obiezioni al fatto che alètheia sia traducibile con verità, perché per noi “verità” ha un’altra accezione. La questione dell’alètheia la connette a ciò che indica la “Lichtung” che sarebbe l’illuminazione, qualcosa che illumina, lui immagina che l’Essere non sia qualcosa di già dato, come voleva la metafisica, qualcosa di stabile, di identico a sé, ma qualche cosa che si mostra nell’attimo in cui qualche cosa si illumina e si illumina qualche cosa al momento in cui si dà in un progetto, l’esserci, in quanto progetto gettato, questa gettatezza, l’essere gettato sempre, progettare qualcosa, nel volere fare qualcosa, nel volere modificare qualche cosa, lì appare l’Essere, che ovviamente in accezione totalmente, almeno apparentemente differente, da quella della metafisica. La questione che a noi interessa è l’idea che lui ha della “Lichtung”, di questo rischiararsi, di questo illuminarsi di qualche cosa che viene alla luce, dall’ombra in cui si trova viene alla luce, compare l’Essere. Per lui questo Essere nel momento in cui compare anche scompare, perché se comparisse una volta per tutte si tradurrebbe nell’Essere metafisico che è lì, lo vediamo e lo manipoliamo. Questo apparire delle cose sembra alludere al momento in cui un qualche cosa incomincia a esistere, l’esistenza in effetti è connessa con l’Essere, è perché qualcosa incomincia ad apparire, cioè l’Essere per Heidegger, si manifesta in qualche modo: l’ente ha un fondamento perché l’Essere si presenta. Ente è qualunque cosa, io sono un ente, lei è un ente, il tavolo è un ente, ente è il participio presente di Essere, ente o essente, ecco quindi a un certo punto qualche cosa appare, si illumina, cioè letteralmente si manifesta. Ciò che noi abbiamo detto recentemente intorno al linguaggio, ha a che fare o evoca qualche cosa di simile, in effetti è nel momento in cui, dicevamo, di qualche cosa si incomincia a dire, è possibile dirne perché qualche cosa è stato nominato e nominandolo inserito all’interno di una combinatoria, questo qualche cosa viene alla luce effettivamente, esiste, questo libro c’è perché esiste qualche cosa che è un libro, come se mi si fosse manifestato a un certo punto e solo ad un certo punto come libro. Questo manifestarsi, questo venire alla luce è ciò che opera il linguaggio letteralmente. Questo tavolo, questo libro, in assenza di linguaggio letteralmente non ci sono, non ci sono perché non c’è qualche cosa come un libro da vedere, non c’è qualche cosa come questo tavolo da vedere, e quindi non lo vedo e quindi non c’è. Ovviamente non dipende dall’Essere di cui parla Heidegger, perché non seguiamo tutte le sue fantasie più o meno elucubrate intorno all’Essere, però mi aveva incuriosito il modo in cui pone la questione, come se a un certo punto, per via di qualche cosa, le cose incominciassero a esistere, da quel momento, come stiamo dicendo in cui il linguaggio si instaura, da quel momento, le cose incominciano a esistere cioè vengono alla luce …
Intervento: però poi non è che scompaiono?
No, non scompaiono …
Intervento: non scompaiono perché incominciano ad allacciarsi, a connettersi con altre parole …
L’Essere si manifesta nel momento in cui scompare, ma per ricomparire, non è che scompare del tutto perché se no non ci sarebbe più niente. Ciascuna volta in cui si dà un progetto, lì c’è qualcosa dell’Essere che interviene. Heidegger insiste sulla alètheia per dire che è qualche cosa che è intervenuto negli umani a un certo punto, ma l’hanno mancato, non l’hanno inteso, infatti dice:
L’alètheia è certamente nominata all’inizio della filosofia ma essa non viene in seguito, dalla filosofia, pensata espressamente come tale.
Sta dicendo che i greci hanno nominato questa cosa “alètheia”, e cioè il venire alla luce di qualche cosa per qualche motivo ma non hanno inteso perché, da Aristotele, ma già prima, poi lo dirà anche altrove, già Omero quando parla dell’alètheia non ne parla nei termini in cui ne parla Heidegger e cioè come il “non nascondimento” di qualche cosa, qualche cosa che cessa di non esistere ed esiste a un certo punto, già in Omero è intesa come orthotes, cioè come correttezza dell’enunciato, un enunciato protocollare. Non è stata intesa, come dire che non si intende da parte degli umani, ma non soltanto per quanto riguarda la loro storia, la storia del loro pensiero, ma l’umano nascendo si trova già preso in un ambito dove non c’è già più, non c’è l’alètheia, c’è l’orthotes, c’è l’adeguamento, per cui manca l’origine delle cose, manca ciò che ha dato l’avvio, ciò che ha fatto esistere le cose letteralmente, e ciò che le fa esistere è il linguaggio. Ribadisce la questione dicendo:
Ma questo provoca la domanda “da cosa dipende che per l’esperienza il linguaggio naturale dell’uomo l’alètheia, la non ascosità, la disvelatezza appaia solo come giustezza, esattezza e attendibilità cui si può prestar fede? Dipende dal fatto che il soggiorno ex-statico dell’apertura della presenza è rivolto solo a ciò che è presente e alla quotidiana presentazione di ciò che è presente come semplicemente presente.
Ma accade per caso? Si chiede:
Accade per una trascuratezza del pensiero umano, oppure accade perché il nascondersi, l’ascosità e aggiunge:
non come l’ombra appartiene alla luce ma come il cuore dell’alètheia?
La domanda che si pone è: come è accaduto che all’origine gli umani non si siano accorti della questione centrale, che lui in questo saggio vuole riprendere dicendo che la domanda fondamentale della filosofia che lui ha riproposta già con “Essere e Tempo”, cioè il ritorno alla questione fondamentale, cioè l’Essere, che la filosofia aveva abbandonato per un certo periodo di tempo: “tornare all’Essere” all’Essere come ciò che è il fondamento, il grund di qualunque ente. Questa domanda ha comportato negli umani una sorta di non intendimento anzi dice che forse proprio perché non hanno pensato ciò che era da pensare hanno potuto pensare tutto ciò che hanno pensato, e cioè hanno potuto costruire la metafisica, e in effetti se dall’origine fosse stato possibile considerare che, usiamo il termine di Heidegger, l’alètheia, questo non nascondimento, questo svelamento delle cose, non è altro che l’apparire delle cose in quanto prese all’interno del linguaggio, della combinatoria che le fa esistere, di sicuro le cose sarebbero andate in modo differente, non sarebbe a quel punto stato possibile pensare ciò che gli umani hanno pensato, non avendo pensato ciò che era da pensare …
Intervento: sì però se lui pone come grund l’Essere e quindi questa cosa che doveva essere presente per poter pensare tutte le cose che invece non hanno pensato, lui non “parlando” del linguaggio che cosa poteva essere questo Essere?
Heidegger pone la questione del linguaggio, non la pone nei termini in cui l’abbiamo posta noi, ma come qualche cosa entro il cui ambito l’Essere si manifesta, l’uomo, dice, è il pastore dell’Essere, e altrove che il linguaggio è la dimora dell’Essere, che è ancora problematico, perché il linguaggio non è la dimora dell’Essere, il linguaggio lo fabbrica l’Essere. Non dice mai che l’Essere è il linguaggio, non lo può dire, per lui anche il linguaggio, cioè questo ambito entro cui gli umani esistono, comunque deve la sua esistenza all’Essere e senza l’Essere il linguaggio non potrebbe esistere, senza cioè questo momento in cui qualche cosa si manifesta. C’è ancora molto di mistico in tutto ciò, perché il fatto che debba manifestarsi a questa maniera l’Essere lo dice lui, nel tentativo estremo di uscire dalla metafisica si è dovuto inventare una nozione di Essere totalmente differente quindi non più come qualche cosa di stabile ma come qualche cosa che appare, che si manifesta come un’illuminazione. A questo riguardo fa l’esempio della radura che viene illuminata da un raggio di luce, ecco lì c’è l’Essere, lì compare qualche cosa, lì qualche cosa accade, qualche cosa esiste …
Intervento: mi fa venire in mente ciò di cui parlava Sandro, di Platone e del mito della caverna, è molto differente questa cosa oppure è molto più elaborata la questione?
No, lui si pone in modo differente, nel senso che nel mito della caverna per Platone l’Essere è ciò cui si deve giungere attraverso un cammino, infatti gli umani sono nella caverna, c’è il fuoco dietro, proietta le ombre, poi uno riesce a uscire e vede la luce e questa luce è quella che da la realtà delle cose, quella che consente alle apparenze di essere, perché gli enti, cioè le cose, per Platone sono soltanto delle ombre, dei profili, delle immagini “Eidos”, ma queste ombre esistono in quanto tali, questi enti esistono in quanto tali, perché c’è un Idea da qualche parte che è nell’ultrasensibile, che le garantisce, è quello il Grund, è quello l’Essere, nell’iperuranio, lì ci sono le Idee e ciò che gli umani esperiscono nel quotidiano sono dei fantasmi, letteralmente, di queste Idee, e possono riconoscere queste cose perché c’è una rimemorazione di queste idee eccetera. Ognuno ha avuto le sue fantasie, però rimane il fatto che prima che si instauri il linguaggio le cose non ci sono, c’è nulla, letteralmente il nulla è ciò che è fuori dal linguaggio. A un certo punto le cose esistono, e cioè da un certo punto in poi appartengono al linguaggio e da quel momento esistono, da quel momento ci sono, da quel momento sono visibili, letteralmente visibili: questo libro non lo vedo se non sono nel linguaggio, perché non c’è nessuna cosa come questo libro da vedere e quindi non lo vedo, quindi non c’è.
Questa posizione di Heidegger mi aveva evocato le ultime cose che andiamo dicendo, cioè il fatto che qualche cosa incominci ad apparire e a esistere nel momento in cui questa cosa diventa parte della combinatoria, della catena di relazioni che la fa esistere, altrimenti non c’è niente, non c’è assolutamente niente. Questo potrebbe avere, forse, qualche utilità nel senso di appoggiarsi a un pensatore come Heidegger per illustrare qualche cosa, però solo fino a un certo punto, non è che la cosa ci sollevi più di tanto. Certo, perché le cose esistano quando vengono inserite all’interno del linguaggio occorre anche un altro elemento, e cioè occorre che quell’elemento sia individuato da una definizione per poterlo usare: per poterlo usare occorre che il significante “mare” abbia un riferimento, nel momento in cui si nomina si dà anche la definizione che può essere ostensiva per esempio o può essere definitoria attraverso altre cose, altre parole, però c’è la definizione per cui si sa che “mare” ha un certo uso, non è che “mare” sia quella cosa ma lo uso in questo modo, ha questo utilizzo, se non ci fosse questo utilizzo non esisterebbe il linguaggio perché ciascun elemento non avrebbe nessun modo per essere usato, semplicemente. Per questo dicevo che un dizionario è come un libretto delle istruzioni, mostra come si usano i termini, è soltanto quando so come si usa un termine che posso agganciarlo a una serie di altre cose. È perché so che cosa vuole dire la parola “mare”, so qual è il suo uso che posso agganciarla a una serie di fantasie di ogni sorta.
Intervento: sì però “mare” questa parola può avere anche utilizzi che non sono quelli che si trovano su un vocabolario nel senso che dipende dal parlare della persona, io posso indicare, posso pensare delle cose che si agganciano nel mio discorso perché “mare” per esempio “la se me mare” “è mia madre”, pensando mi ritrovo ad andare in direzioni che nulla hanno ha che fare con “il mare: la distesa salata eccetera”…
Però se interviene il significante “mare”, e questo è connesso al significante “madre”, detto in dialetto veneto, allora c’è un riconoscimento e cioè che questo significante “mare” ha un uso nel dialetto veneto che è differente dal significante “mare” della lingua italiana, occorre quindi conoscere entrambe le cose per saperle distinguere, a questo punto sa intanto che la parola “mare” significa quello che significa, cioè una distesa di acqua salata eccetera, e quindi è colta dalla sorpresa in questo caso della sinonimia, e allora ecco che magari segue questo altro significante “mare” in quest’altra accezione, che è quello di “madre” detta in veneto, ma per potere compiere tutte queste operazioni occorre che già siano date delle indicazioni precise sull’utilizzo di questi termini, se no non si aggancia niente …
Intervento: il vocabolario si potrebbe pensarlo come una macchina pensante? Come istruzioni fornite a una macchina?
Dentro al PC ci sono quelle informazioni, anche, ma non solo …
Intervento: il vocabolario potrebbe essere la struttura del linguaggio che funziona …
Delle informazioni certo, e queste informazioni sono parte delle informazioni che vengono fornite sia all’umano che alla macchina ovviamente, anche l’umano è fornito di queste informazioni certo, non tutte, una piccola parte, e gli servono per potere parlare cioè per usare una serie di cose, per agganciarle tra loro e costruire discorsi, costruire tutto quello che costruisce, occorre però avere anche degli strumenti in più, non basta avere tutte queste informazioni contenute nel dizionario, perché lei può inserirle tutte dentro alla macchina e tutte queste informazioni stanno lì e non succede niente, occorre avere la possibilità di connettere delle parole e quindi delle proposizioni con altre parole in un certo modo, questo certo modo è quello stabilito dalla logica attraverso i connettivi, per cui sa che se c’è una “e” questo vuole dire che è una congiunzione che unisce un elemento con un altro …
Intervento: comunque lì dentro ci sono le congiunzioni, ci sono i connettivi …
Sì, ma nessuno gli dice come si usano, mancano le istruzioni fondamentali, quelle che dicono che quando c’è “questo” devi fare “quest’altro”. Quando ci sono tutte le istruzioni e le informazioni e le procedure per eseguirle allora è possibile eseguirle, cioè costruire parole e discorsi. Come per le macchine, occorre un dispositivo che consenta il passaggio di energia elettrica in base a certi connettivi, ci vogliono dei circuiti logici, che all’interno degli umani sono già predisposti e sono i circuiti neurali, che funzionano esattamente alla stessa maniera, infatti è da lì che hanno preso il via Turing e gli altri, e allora sì, funziona tutto quanto e questa è stata un’altra questione importante, l’avere inteso come si impara il linguaggio, perché è sempre stato un grosso problema. Lo stesso Wittgenstein si chiedeva “come si insegna a parlare?” perché sembrava che ci fosse a un certo punto un salto che non si riusciva mai a compiere, e cioè quello che consente alla persona, alla quale si insegna a parlare, di intendere quello che sta succedendo mentre io glielo insegno. Agostino, che anche Wittgenstein cita nelle Ricerche Filosofiche, diceva che si insegna ostensivamente, mostro che “questo è un libro”, ma perché questo gesto abbia un efficacia occorre che l’altra persona sappia quello che gli sto dicendo, sappia cosa vuole dire questo gesto, sappia a che cosa si sta riferendo, per cui questo modo di pensare si riferisce sempre a persone che comunque sono già nel linguaggio e allora sì, se per esempio voglio dire a un inglese che non sa assolutamente nulla di italiano “bianco” dico “ciò che tu chiami “white” è come questo foglio, che è bianco”, allora mi capisce, ma perché è già nel linguaggio, se no non si riesce a intendere come avviene questo fatto per cui un’informazione, come questa che dice “questo è il bianco” passi a un’altra persona che deve già avere un’idea di che cosa sto facendo quando glielo mostro, se no è come dire a una farfalla “bianco” la farfalla continua a svolazzare. Questo è stato compiuto, per cui adesso si sa come si insegna il linguaggio perché è esattamente lo stesso modo in cui si costruisce il pensiero in una macchina, che di per sé è assolutamente niente, un pezzo di ferro: com’è che un pezzo di ferro diventa una macchina pensante? Occorrono dei circuiti logici, occorreva l’algebra booleana e cioè trasformare in zero e uno i concetti di vero e di falso, e questo ha reso il compito semplice, è soltanto un calcolo, a quel punto bisognava mettere dei fili, questa è l’idea geniale, fili elettrici, per esempio la congiunzione: due fili elettrici, quand’è che è vera la congiunzione? Quando sono veri entrambi gli elementi, quindi se passa corrente da tutti e due allora ne faccio passare una terza e il relais si apre, se soltanto una è vera si blocca, il relais si ferma e il transistor non fa passare corrente e quindi dice: falso. A questo punto c’era tutto, c’era l’idea di Turing di costruire un nastro potenzialmente infinito di memoria, una testina capace di muoversi a seconda delle istruzioni, che scrive oppure cancella, gli si dà un’istruzione e lei esegue, c’era già tutto, i computer, come abbiamo già detto, sono delle macchine di Turing universali, a quel punto era fatto il computer, tutto ciò che era stato fatto dopo è stato un perfezionamento, sempre più veloce, sempre più piccolo, ma il principio è rimasto esattamente sempre lo stesso. Allo stesso modo un umano impara a parlare: gli si immettono le informazioni e le procedure per utilizzarle, e a questo punto incomincia a connettere cose, poi quello che accade dopo è di una complessità inimmaginabile chiaramente, una rete di relazioni, e lì c’è tutto il lavoro di Freud che ha incominciato a interrogarsi su che cosa combinano tutte queste relazioni fra, loro almeno parzialmente si è interrogato su questo, forse la questione è molto più complessa di quanto Freud avesse immaginato, in ogni caso è stato un avvio.
È chiaro cosa è l’alètheia? È il non nascondimento, il manifestarsi di qualche cosa che viene alla luce, niente altro che questo, qualcosa che incomincia a esistere da quel momento, è cioè ciò che fa il linguaggio quando qualcosa viene nominata e inserita all’interno di una combinatoria di altri elementi, allora quella cosa incomincia a esistere, e incomincia a esistere anche la nozione di esistenza.