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14 novembre 2018

 

La struttura originaria di E. Severino

 

Severino lavora utilizzando una logica particolare, che non è quella aristotelica ma quella hegeliana, cioè la logica dialettica. Forse alcuni di voi sanno che la logica hegeliana è stata utilizzata recentemente da alcuni logici per costruire le cosiddette logiche polivalenti, e cioè le logiche che non hanno come valori solo il vero/falso ma hanno altri valori. Tuttavia, anche in questi casi non è che il principio di non contraddizione scompaia, scompare dialetticamente, come superamento, ma non scompare riferito ai termini. Un termine, anche nella logica polivalente, non può essere quello che è e anche il suo contrario, mentre in ambito discorsivo, sì, è possibile infatti che all’interno di un discorso di più persone ci siano due persone che si contraddicono. Questo non rende falsa la conversazione, semplicemente accoglie entrambe le posizioni, ma questo è un altro discorso. Infatti, Hegel non era un negatore del principio di non contraddizione. La sua operazione era di fare notare che ciascun elemento, cosa che riprende anche Severino, per potere essere quello che è deve mantenere presente il suo contrario, cioè la sua contrapposizione, la sua antitesi. Ma questa opposizione non viene cancellata, eliminata, come avviene nella logica aristotelica: tertium non datur, cioè dei due uno, per cui se uno risulta vero e l’altro falso, quello falso deve essere eliminato. Per Hegel no. Ciò che per la logica aristotelica è il falso per Hegel è l’antitesi, ciò che viene conservato, mantenuto. È come se Hegel si accorgesse che anche dagli errori, cioè dal falso, viene fuori ciò che per gli umani, in definitiva, è la verità e che non c’è nulla che vada necessariamente eliminato. Questione che poi prenderà una piega differente con i pensatori contemporanei, come Heidegger, quando parla del mondo, della storicità di ciascuno. In questa storicità c’è tutto, anche gli errori fatti. Una persona è quello che è, in questo momento, in seguito a tutto ciò che ha fatto, di bene e di male; tutto il cammino che ha percorso ha determinato ciò che quella persona è in questo momento. Tutto questo appena per dire che la logica di Severino nelle sue argomentazioni è una logica dialettica e non aristotelica. È in questa prospettiva che si interroga sulla questione del significato, su cui si sono interrogati in molti, da sempre, sin da Aristotele nel Peri Hermeneias. Per Severino la questione si pone in modo radicale: che cosa si costituisce come significato originario? È un qualche cosa che per lui costituisce il fine corsa, oltre il quale non si può più andare. Io posso ovviamente dire di una qualunque cosa una serie di significati, e sappiamo che ciascuno di questi significati rinvia ad altri significati, e così via all’infinito. Per Severino questo è un problema, perché a questo punto giustamente pensa che non ci sarebbe più la possibilità di stabilire alcunché, se c’è questo rinvio infinito. Lui la chiama analisi infinita del significato ma non è altro che un rinvio infinito (Peirce la chiamava semiosi infinita). Come posso dire qualcosa che abbia un senso se ogni termine che utilizzo per dire questa cosa comporta una analisi infinita? La comporta, non è detto che sia presente; infatti, su questo lui gioca. Dunque, qual è per lui il significato originario, quello oltre il quale non si può andare, il fine corsa? L’essere. L’essere non in quanto qualche cosa ma essere in quanto significato semplice, cioè un qualche cosa di cui posso dire tutto quello che mi pare ma a un certo punto arriverò, togliendo tutte le varie determinazioni, a dire che è, e lì mi fermo, non posso andare oltre, ho raggiunto il fine corsa. Però, si chiede Severino, ma questo “è” è qualcosa, ha delle determinazioni e, infatti, ne dico qualche cosa; quindi, è come se non fosse mai un significato semplice, perché comunque ci sono delle determinazioni che concorrono a farmi dire questo “è”, perché se dico “è” già immagino delle cose. E allora, ecco che parla dell’essere formale, della forma che ha l’essere nella proposizione. A pag. 264 Paragrafo 5, Esclusione concreta dell’analisi infinita del significato originario. Infatti, questa analisi infinita devo toglierla per potere stabilire l’essere. L’essere formale è quel significato, appartenente all’insieme dei significati effettualmente semplici, relativamente al quale è anche immediatamente autocontraddittorio progettare un prolungamento dell’analisi del suo contenuto semantico. L’essere è quel significato del quale non possiamo progettare un’analisi infinita dei termini che lo compongono. Non lo possiamo fare perché, se lo facessimo, ci troveremmo di fronte a un’autocontraddizione, cioè l’essere non è più significato semplice, non è più quello che è ma è queste altre cose, e cioè le sue varie determinazioni. Ci troviamo quindi, in una contraddizione, perché l’essere è qualcosa che non è, ma è altro. Esso, infatti, nel suo esser distinto dalle determinazioni che costituiscono la posizione materiale dell’essere, è quell’assolutamente semplice di cui parla lo Hegel. È l’assolutamente semplice, non è composto da altre cose. Se quello di “essere” fosse un significato complesso, i momenti di questo significato o sarebbero o non sarebbero… Nel primo caso il momento conterrebbe già ciò che dovrebbe risultare dalla sintesi con gli altri momenti… Se già contenesse l’essere tra i vari elementi, l’essere sarebbe già presente e, quindi, non si distinguerebbe più, questa cosa sarebbe già l’essere; anche se complessa comunque è l’essere. …nel secondo caso la sintesi – la complessità – non sussisterebbe: appunto perché sarebbe sintesi di nulla. Per questo lato si ottiene dunque la determinazione concreta del limite dell’analisi del significato originario… È questo che a lui interessa: stabilire il limite. Dobbiamo trovare un qualche cosa che ci faccia da limite, oltre il quale non si può andare, perché se possiamo andare oltre allora questo significato di essere è autocontraddittorio, non è più quello ma diventa una serie di altre cose. …poiché l’essere formale è appunto questo limite. Questo significato è il limite, perché? Perché se non lo fosse allora sarebbe autocontraddittorio. Se fosse autocontraddittorio non sarebbe ciò che è, e se non fosse ciò che è sarebbe niente, non sarebbe nemmeno un limite. Si afferma allora che, per questo lato, è intrinsecamente contraddittorio che il concreto non incominci il toglimento dei concetti astratti dell’astratto col toglimento dell’astrattezza dell’essere formale;… L’essere si presenta come concreto, come ciò che appare. Questa è la definizione di essere della fenomenologia: ciò che appare immediatamente così come appare. Ciò che devo togliere sono tutti gli aspetti astratti, tutte le astrazioni, che io posso rilevare come momenti di questo concreto, che poi non sono altro che delle determinazioni possibili dell’essere, devo toglierle tutte per arrivare all’essere puro. Il problema che Severino incontra è trovare un qualche cosa che gli consenta di arrivare a questo essere puro (essere formale) togliendo tutte le sue determinazioni, tutte le cose che posso astrarre dall’essere, e quindi tutti i suoi significati astratti. Il concreto è questo tutto che mi appare; gli astratti sono gli elementi che concorrono a questo concreto. È chiaro che il cominciamento non precede logicamente il processo totale del toglimento dell’astratto, ma, pur essendogli cooriginario, ne costituisce, appunto, il limite, oltre il quale si annulla ogni apertura semantico-posizionale. Questo toglimento non è un qualche cosa che precede il momento in cui l’essere c’è, ma questo toglimento ci mostra il punto oltre il quale non è più possibile… lui dice si annulla ogni apertura semantico-posizionale, cioè si annulla ogni possibilità di significare altro. Si dice dunque che è intrinsecamente contraddittorio che tale oltrepassamento non incominci come oltrepassamento di quell’orizzonte posizionale in cui non è posto altro che il significato “essere”;… È autocontraddittorio immaginare che questo oltrepassamento di tutte le determinazioni, di tutte le astrazioni, non concluda con l’essere, perché se concludesse con qualche altra cosa allora questa operazione ci mostrerebbe che l’essere non è più un significato puro ma rimane vincolato ad altri significati, rimanendo sempre all’interno di quel problema filosofico antico dell’uno e dei molti, perché l’essere è uno ma è nello stesso tempo molti, perché i significati che diamo di essere sono molti. Ecco, quindi, il suo problema: stabilire che l’essere è significato puro a condizione di togliere la possibilità della sua autocontraddittorietà, cioè, l’essere deve essere incontraddittorio. Paragrafo 6. Ma mentre per lo Hegel l’essere formale esaurisce il piano iniziale, o l’iniziale (il cominciamento, il limite dell’analisi) non consiste in altro che nel puro essere… L’essere formale per Hegel è il puro essere. Il puro essere significa che non dipende da altro che da sé. …l’essere formale è invece soltanto un momento del piano iniziale: l’altro momento è quella pluralità di momenti che è costituita dall’insieme dei significati effettualmente semplici – ossia dall’insieme di quei significati cui si è attualmente arrestata l’analisi. Qui Severino dice che per Hegel l’essere è il significato puro. Severino, invece, riconosce il fatto che questo essere comunque è debitore di altre cose, di significati semplici, che sono quelli in cui si arresta l’analisi. Questi significati semplici, su cui l’analisi si arresta, costituiscono l’essere. Però, badate bene, sono significati che si arrestano, si trovano in un punto oltre il quale non possiamo andare, ed è per questo che lui li accosta all’essere. Si badi che questo secondo momento del piano iniziale non è la sintesi dei significati effettualmente semplici (poiché la sintesi è già una complessità semantica che rinvia ai significati semplici); ma è la pluralità dei significati effettualmente semplici nel loro rispettivo sussistere come significati distinti dagli altri, e che valgono come significati semplici appunto in quanto sono considerati in questo loro essere reciprocamente distinti. Severino fa qui un’operazione discutibile, perché tutto ciò che lui fa si regge sull’idea che questi significati, di cui è fatto il significato originario, non siano una sintesi dei vari significati che si oppongono fra loro. Sono distinti ma cooriginari, come dire che tutti questi significati non fanno altro che dire “essere”. Sembra difficile ma in realtà non lo è. Sta ripetendo esattamente quello che diceva, molte pagine addietro, quando parlava della sua famosa formula, (A=B)=(B=A). La prima parentesi, che racchiude A è B, comprende due termini che non sono una sintesi di A e di B, cioè questi due elementi non sono il soggetto e il predicato ma sono elementi che sono la stessa cosa; sono, sì, distinti ma dicono la stessa cosa. Infatti, lui faceva l’esempio dell’essere che non è non essere, dove l’essere e il non essere non sono il soggetto e il predicato che in quanto tali sarebbero due cose diverse - ci ritroveremmo di nuovo a dire che una cosa è ciò che non è, perché il soggetto non è il predicato, e viceversa - ma questi due elementi, pur essendo distinti, dicono lo stesso, cioè dicono l’essere. Dire “essere” o “non non essere”, dice Severino, è esattamente la stessa cosa e, quindi, non si oppongono. Quindi, non c’è opposizione ma c’è l’affermazione dell’identico, della stessa cosa. È questo il modo che Severino utilizza per risolvere questa e buona parte delle altre aporie con cui si scontra; il procedimento è sempre lo stesso. Supponiamo che io dica che l’essere è sostanza, per cui l’essere è il soggetto e sostanza il predicato. Ma il soggetto non è il predicato; quindi, per dire che cos’è l’essere dico qualcosa che l’essere non è. Sto, quindi, affermando una contraddizione, sto dicendo che l’essere è ciò che non è. Ma se io ponessi, cosa che lui non fa, l’essere=sostanza e poi dicessi che sostanza=essere, cioè che sono la stessa cosa, allora non c’è più contraddizione perché l’uno non è più il soggetto e l’altro il predicato ma c’è un’identità, dicono la stessa cosa. Questo schema Severino lo ripete sempre ed è il modo con cui lui risolve le aporie. Per dirla in termini più spicci, ci sta dicendo che tutti i problemi logici, e non solo, perché poi diventano problemi sociali, politici, procedono dal fatto che non si tiene conto che ciò che appare è quello che appare e che la relazione tra gli elementi di ciò che mi appare, che lui chiama il concreto, precede gli elementi di cui questo concreto è fatto, e cioè gli astratti o, per usare i termini di Severino, il concetto astratto dell’astratto. Il concreto precede questi altri elementi isolati, ed è questo l’unico modo, per Severino, per evitare lo scontro con la contraddizione infernale che annulla ogni conclusione, se si rivela autocontraddittoria. Per Heidegger è un grosso problema perché se una certa affermazione o conclusione risulta essere autocontraddittoria non è utilizzabile dal discorso, cioè non so che farmene; non la posso utilizzare per costruire da lì altre cose; in questo senso è inutilizzabile. Vedete che tutto questo libro non è altro che la ricerca della struttura originaria, cioè quella che si mostra incontraddittoria e sulla quale è possibile costruire un modo di pensare che sia esente da contraddizione. Questa è l’idea, poi che ci riesca oppure no, questo lo vedremo man mano. Quindi, per ogni elemento che lui pone come originario deve mettere in atto questo meccanismo, e cioè deve affermare quell’elemento come incontraddittorio, ma perché sia incontraddittorio deve togliere ciò che lo nega: deve prima porlo e poi toglierlo. Solo in questo modo può stabilire la incontraddittorietà di ciò che lui chiama originario. Il fatto che sia incontraddittorio gli consente di prendere quella conclusione, quel concetto, come utilizzabile, perché se lui stesso lo rileva come inutilizzabile, è chiaro che non può avvalersene per procedere nella sua costruzione teorica. Se questa cosa è ma anche non è, che cosa mene faccio? Questo già Aristotele lo sapeva: tertium non datur, o l’uno o l’altro. L’analisi del significato originario si arresta dunque, o è limitata da una pluralità di significati semplici. L’importante è che si arresti, che si limiti questa analisi, non può esserci un’analisi infinita del significato originario: sarebbe una contraddizione. Uno di questi significati – l’essere formale – appare come ciò in relazione al quale è immediatamente autocontraddittorio il progetto di un’analisi del suo contenuto semantico;… Questa cosa è, cosa vuol dire? Devo fare un’analisi del contenuto semantico di questo “è”. Ecco, se io inizio a fare questa operazione, mi trovo immediatamente preso in una contraddizione, perché sono costretto a dire “è” e qualcosa che di fatto non è. …gli altri significati semplici sono presenti come ciò di cui non è immediatamente presente l’analisi. Ci sono potenzialmente, diceva prima. Pertanto questi significati non valgono come limite dell’analisi in quanto tali; ma in quanto non è presente la loro analisi; mentre l’essere formale vale come limite sia in quanto tale, sia in quanto non è di fatto presente l’analisi. Perché non può essere presente? Perché se è presente l’essere diventa autocontraddittorio. Quindi, non deve essere presente l’analisi. Pur tuttavia, lui parla di significato; infatti, lo chiama originario. Il fine corsa, tolti tutti i vari ammennicoli, ciò che rimane è che quella cosa è. Ma questo giungere all’essere puro, come diceva Hegel, non è un qualche cosa che è dedotto da una serie di altre considerazioni ma è un qualche cosa che risulta da un processo di toglimento di quello che Severino chiama i concetti astratti dell’astratto, cioè di tutte quelle determinazioni che si immaginano essere valenti per sé. Qual è la finezza qui di Severino? Dire che tutti quei significati che permangono – lui si rende che non possiamo togliere tutto, per cui non resta più niente, neanche l’essere – questi significati sono l’essere stesso, sono identici all’essere, esattamente come nella formula di cui dicevamo prima. Non sono un’altra cosa, sono l’essere perché, lungo questi toglimenti si giunge, di fatto, al concreto, si ha di fronte il concreto, l’apparire di ciò che appare così come appare, e non altro. È chiaro che occorre accogliere questa modalità di pensiero di Severino, e cioè accogliere il fatto che questa differenza che lui pone fra elementi, fra loro distinti ma appartenenti a un’unità, che quindi dicono la stessa cosa, come “essere” e “non non essere”. Quindi, la differenza fra questo e, invece, il porre due elementi, l’uno come soggetto e l’altro come predicato. Questo è lo schema che si ripete sempre. Anche in quest’ultimo caso: questi significati sono cooriginari, lo diceva prima, all’essere ma, appunto, in quanto sono essere anch’essi, sono la stessa cosa, non sono un’altra cosa rispetto all’essere. È per questo che non c’è contraddizione. Se ponessi il significato semplice “essere” e questi altri significati come sintesi di un qualche cosa, ecco che sarebbero un’altra cosa, cioè sarebbero dei predicati rispetto a un soggetto, quindi, non sarebbero la stessa cosa, e ci troveremmo di fronte alla contraddizione. Se, invece, li pongo tutti come “essere”, allora non c’è più contraddizione. Bisogna accogliere questo, ovviamente. Se non lo si accoglie allora è inutile leggere questo libro. Paragrafo 7, pag. 267. … la distinzione… Quando lui parla di distinzione parla sempre di apparire. …la distinzione tra la posizione dell’“essere” e la posizione di uno qualsiasi dei significati effettualmente semplici non equivale al concetto astratto delle due posizioni, ma si fonda sulla constatazione che il porre l’“essere” si distingue formalmente dalla posizione delle sue determinazioni. Tutto gioca su questi termini: “distinzione” e “sintesi”. La sintesi, come già diceva Hegel, è fra la tesi e l’antitesi, tra una posizione e una contrapposizione. Severino, però, non cerca questo, anzi, lo fugge in questo momento specifico, perché lui vuole che questi elementi, per quanto distinti… Infatti, dice …la distinzione tra la posizione dell’“essere” e la posizione di uno qualsiasi dei significati effettualmente semplici non equivale al concetto astratto delle due posizioni, cioè, rientrano nel concreto, sono come nella proposizione “questa lampada che è sul tavolo”: questa proposizione non è la somma, la sintesi della lampada e del tavolo. Se io astraggo gli elementi, questi elementi non sono più “questa lampada che è sul tavolo”; se io astraggo la lampada posso, sì, manipolarla, farne quello che voglio, ma non è più “questa lampada che è sul tavolo”. È andata perduta quella unità del fenomeno, quella che Severino chiama F-immediatezza, l’immediatezza del fenomeno. Quindi, non equivale al concetto astratto degli altri significati: rispetto al significato “essere”, tutti i vari significati di cui è fatto non posso astrarli dal concreto che è l’essere. Paragrafo 8, Significati complessi e posizione dell’essere. Qui Severino si trova ovviamente costretto a parlare di significati complessi, non ci sono solo i significati semplici. “Questa lampada che è sul tavolo” è un significato complesso. Però, lui dovrà ricondurre i significati complessi a dei significati semplici, sempre per evitare il grosso problema dell’uno e dei molti. Adesso vedremo come. I significati effettualmente semplici, cui si arresta l’analisi del significato originario, sono. Ossia, di essi si predica immediatamente l’“essere” (= essere formale), così come si predica di ogni altra determinazione immediatamente nota. Ciò che si predica immediatamente di una qualunque cosa è che è. Ma quei significati non sono effettualmente semplici in quanto vengano assunti, rispettivamente, come la sintesi tra la determinatezza semantica (per la quale ognuno di essi si differenzia dagli altri) e l’essere di questa determinatezza; ma in quanto quest’ultima viene assunta come distinta dal suo essere: è appunto in quanto così distinta, che essa vale come un significato effettualmente semplice – la cui posizione è pertanto coiniziale alla posizione del significato essere. Sta dicendo che questi significati, che non sono effettualmente semplici… Perché dice che non sono semplici? Perché vengono assunti come una sintesi. Se vengono assunti come una sintesi, allora non sono semplici ma sono significati che sono in relazione con altri significati diversi. Osserviamo ora che i significati complessi – ossia quei significati che, anche considerati come distinti dal loro essere, valgono, a differenza dei significati effettualmente semplici, come complessità semantiche – non possono essere coiniziali al significato, non solo qualora siano rispettivamente assunti come sintesi tra la loro determinatezza e l’essere di questa (il che accade anche per i significati effettualmente semplici), ma anche in quanto la determinazione del significato complesso sia assunta come distinta dal suo essere. Questi significati complessi, a differenza dei significati semplici, valgono all’interno di una sintesi. Questa sintesi è tra la loro determinatezza e il loro essere, cioè sono cose che sono determinate, mentre il significato semplice “essere” non è la sintesi del significato “essere” e le sue determinazioni, anche se ci sono dei significati, perché non poteva non ammettere dei significati, ma questi significati semplici, che ci sono a fianco del significato “essere”, sono sempre “essere”. Invece, la sintesi, come dice la parola stessa, mette insieme delle posizioni differenti, dove c’è l’essere e la determinatezza, mentre l’essere non è determinato; per Hegel è il vuoto, l’indeterminato. Se infatti questa determinatezza non è coiniziale ai significati effettualmente semplici cui si arresta l’analisi della determinatezza complessa, e se questi significati sono coiniziali al significato “essere”, segue che la determinatezza in questione non può essere coiniziale a questo significato. A lui interessa dire che questa determinatezza non può essere coiniziale, cioè, non può porsi allo stesso modo di come si pone l’essere. L’essere, cioè, l’inizio, il cominciamento, si parte da lì. Questi significati complessi comportano una sintesi fra il loro essere e la loro determinazione. Qual è la differenza? Perché nel significato semplice di “essere” si arresta l’analisi della determinatezza complessa; cosa che non accade, invece, con i significati complessi. A pag. 268. …la posizione del significato (l’apparire del significato) esige qui che sia posta la determinazione in cui consiste il significato stesso, e porre questa determinazione specifica significa porre l’essere in qualche modo l’altro o gli altri momenti, da parte di uno dei momenti del significato complesso, significa cioè porre ognuno di questi momenti come un esser-altro… Questo è il significato complesso: l’essere è la sintesi di essere e delle sue determinazioni. Ma se io determino l’essere, ciò con cui determino l’essere non è più l’essere, non sono coiniziali, non sono soltanto distinti, perché questa è una determinazione, mi dice che cos’è l’essere ma se mi dice che cos’è l’essere allora ciò che mi dice essere l’essere non è l’essere, è un’altra cosa. Si sa che se il significato “essere” non è posto nel campo semantico costituito dal significato complesso in questione, non è posta nemmeno la determinazione, e pertanto non è posto nemmeno il significato complesso. In altri termini, ogni complessità semantica di questo tipo è una struttura apofantica (apofansi = affermazione, enunciazione), nel senso che se m' e m" sono i momenti del complesso, l’insieme m' m" equivale, concretamente concepito, alla relazione predicazionale (predicazionale = uno è l’altro, predico di m' di essere m") tra m' e m", e cioè equivale all’affermazione: m' e m". Esemplificando: “questa estensione rossa” è un significato complesso, i cui momenti sono (ad un’analisi sommaria) questa estensione e il colore rosso di questa estensione. Questi moment costituiscono una sintesi tale per cui l’uno dei due – essendo determinato dall’altro… Questa estensione è determinata dall’essere rossa, mentre i significati semplici, che intervenivano rispetto all’essere, non determinavano l’essere, erano cooriginari. Questi momenti costituiscono una sintesi tale per cui l’uno dei due – essendo determinato dall’altro – è in qualche modo l’altro. Sì che tale sintesi può essere espressa con questi due giudizi: “Questa estensione è rossa”, “Questo rosso è così esteso”. Tutto questo, come sappiamo, costituisce per Severino un problema, perché questa cosa è non questa cosa. “Questa estensione è rossa”: l’estensione è una cosa e il rosso un’altra, l’una è il soggetto e l’altra il predicato. D’altra parte, ognuno dei due momenti non è immediatamente l’altro, come se i due fossero formalmente il medesimo: … Come l’essere e il non non essere. …essi si distinguono formalmente nel senso che il colore di questa estensione, e questo essere esteso non è il suo essere colorato. Mentre l’essere è il non non essere. Vedete che c’è una differenza. Ma pure ognuno dei due è l’altro, mediante un superamento del proprio immediato determinarsi… Qui usa il termine superamento, in Hegel Aufhebung. …onde da un lato questa determinazione immediata è conservata come un distinto rispetto a ciò in cui il superamento si risolve… Da una parte rimangono due distinti che però si risolvono nel loro superamento. …e d’altra parte il superato e questo esito del superamento sono fatti essere insieme. Paragrafo 9, Aporia: la complessità semantica come contraddizione. Qui enuncia un’aporia, e cioè che una cosa è altro da sé. Sono due problemi che lui affronta: l’uno è la contraddizione e l’altro il divenire, che sono i due aspetti della stessa faccia, la follia dell’Occidente, come la chiama Severino, e cioè che le cose divengano, escano dal nulla e ritornino nel nulla. Riprendendo lo spunto qui sopra accennato, è ora da considerare un’aporia di importanza notevole. Se un certo tipo di significato complesso è una struttura apofantica (ndr. un’affermazione) nella quale ogni momento del complesso è in certo modo gli altri momenti, ogni complessità semantica di questo tipo, i cui momenti siano differenti gli uni dagli altri, sarà una negazione del principio di non contraddizione. Io nego il principio di non contraddizione affermando che questo tavolo non sia un tavolo. Perché lo nego? Perché affermo apofanticamente, cioè con un giudizio… Affermare che questa estensione è rossa, significherà infatti affermare che questa estensione è non questa estensione… Perché questa estensione è rossa, è un’altra roba. Aporia antichissima, come è noto, che già Platone discuteva (Sofista, 251 sg.) ma che da Platone fu piuttosto evitata che risolta. Ché infatti egli si limita a mostrare le conseguenze inaccettabili che ne derivano, ma non mostra in che modo essa vada risolta. È certamente vero che l’aporia nega ogni χοινωνία (ndr. comunanza) delle idee, e che quindi non si potrà nemmeno predicare di essa l’“essere” di alcuna determinazione – stante che, se una determinazione si distingue formalmente dall’“essere”, predicare di essa l’“essere” significherà affermare che essa è “altro da sé”:… Necessariamente ogni affermazione sarà autocontraddittoria. Quando io dico che questo è quell’altro mi sto autocontraddicendo: o è questo o è quell’altro.  …ma ciò che resta sempre da mostrare è il vizio logico per il quale si produce l’aporia. In generale: se un discorso aporetico mostra la necessità della negazione dell’immediato o d’un aspetto di questo, non è sufficiente togliere l’aporia adducendo come motivo del toglimento il fatto stesso che essa è negazione dell’immediato, Se mi neghi l’immediato io non te lo accolgo, perché io non posso negare l’immediato.  …ma si deve mostrare in che modo tale negazione dell’immediato non sussista come necessaria, e cioè si deve mostrare il vizio logico che la fa apparire come necessaria. Questo è il problema. Aristotele aveva tentato di eliminare la difficoltà introducendo la distinzione di sostanza ed accidente: nulla impedisce che qualcosa (sostanza, o accidente in funzione di sostrato di un altro accidente) possa essere anche altro, oltre ciò che esso è; ma questa alterità non è negazione della sostanza – ossia non è un’altra determinazione sostanziale - ma è l’ambito delle determinazioni accidentali della sostanza. Severino dice che Aristotele tenta di risolvere il problema ma non lo risolve alla radice, perché ciò che comporta alla radice la contraddizione è il fatto che si neghi la sostanza e non le sue varie determinazioni. Sarebbe come negare l’essere e non le sue determinazioni. Io dico che l’essere non è, questa è un’aporia, anche perché, per potere dire che l’essere non è, occorre che l’essere sia.