14 ottobre 2020
L’attualismo di G. Gentile
Siamo al Capitolo XIII. L’antinomia storica e la storia eterna. Paragrafo 2. Chiarimenti. Già la lingua che parliamo, le istituzioni che reggono la nostra vita civile, le città che abitiamo, tutti i monumenti dell’arte che ammiriamo, e i libri e gli avanzi tutti della civiltà e le tradizioni religiose e morali, di cui, pur senza uno speciale interesse storico, nutriamo la nostra cultura, ci stringono per mille vincoli a spiriti, che non appartengono al nostro tempo, ma la cui realtà è presente a noi e intelligibile soltanto come realtà spirituale e libera. Paragrafo 3. La storia e i valori dello spirito. In generale, lo spirito storicizzato… C’è un motivo per cui si occupa della storia, ovviamente. Lo spirito, essendo l’atto puro, è fuori del tempo, perché è lui che lo crea; quindi, come si combina con la storicizzazione? /…/ si converte in un’entità naturale; mantenuto nel suo valore spirituale, si sottrae alla storia, e si pone nella sua idealità eterna. La quale non presenta nessuna difficoltà finché l’eterna realtà dello spirito si concepisca come un’ipostasi del contenuto dello spirito, com’è l’idea platonica, che, nella sua trascendenza, si sottrae, per definizione, al contatto del flusso storico. Ma quando si è abbattuta la trascendenza, e la realtà spirituale nella sua stessa eternità si è concepita, non più come qualcosa di fisso, bensì quale processo in atto, allora non si ha più la storia fuori dell’eterno, né l’eterno fuori della storia. La difficoltà consiste appunto in questo concetto del reale che è eterno ed è storico… Questo è il problema. Paragrafo 4. Il platonismo e il protagorismo. Appunto questa difficoltà di concepire l’eternità nella storia, e la storia nell’eternità, trasse Platone a negar valore alla storia e chiudere ogni essere in una realtà trascendente. E trae gli empiristi di tutti i tempi, da Protagora in poi, a negare ogni valore assoluto, che si sollevi al disopra di ogni condizione particolare e contingente. Ma l’antinomia deriva dall’impossibilità di fermarsi o con Platone a un valore trascendente che non sia spirito (negazione della storia), o con Protagora al puro fatto storico dello spirito (negazione del suo valore). Paragrafo 5. Soluzione dell’antinomia. Come si risolve l’antinomia? Essa si risolve, come tutte le atre, riportando la realtà spirituale, il valore e la storia dal pensiero astratto al concreto. La realtà spirituale attualmente conosciuta non è altra cosa dal soggetto che la conosce. Il solo Ariosto che conosciamo, autore del Furioso, non è altro, come abbiamo detto, che lo stesso poema. Come dire che la storia è qui, adesso, nel momento in cui la penso. Paragrafo 6. Il fatto storico astratto e il processo reale. Bisogna astrarre l’Ariosto da questa realtà per avere innanzi un Ariosto condizionato. Astratta che sia, si tornerà poi, o meglio si tenderà a tornare ad introdurre meccanicamente nel processo spirituale a cui appartiene. Si cerca di storicizzarlo. Invano. La realtà è nel processo. Ma questo processo poi, nella sua attualità, dov’è la realtà del poema e la sua valutazione, si porrà esso stesso in ogni momento come condizionato da’ suoi momenti precedenti? Evidentemente no, per la stessa ragione, che tale condizionamento suppone il frazionamento del processo, che è reale nella sua unità; che si pone bensì come molteplicità… Sta dicendo che non posso immaginare l’Ariosto astrattamente come il prodotto di una serie di circostanze, ecc. Il che va bene, ma, di fatto, quando lo penso o leggo la sua opera, diventa un uno, diventa un intero, non è più frazionato, per così dire. Così io posso sempre empiricamente distinguere il mio presente dal mio passato, e porre in questo la condizione di quello: ma, così facendo, astraggo dal vero Me stesso, a cui sono compresenti passato e presente nella dualità che rende intelligibile il rapporto di condizione a condizionato; laddove il suo vero Me, immanente in cotesti due Me temporalmente distinti, è la radice di questa come di ogni altra condizionalità. Ci sono io, che mi rendo conto di che cosa sto facendo, e ci sono io che penso al mio passato, ma sono sempre io. Questo è il ricondurre all’unità. Paragrafo 7. I due concetti della storia. Ci sono, in questa guisa, due modi di concepire la storia. Uno, quello dei relativisti, storicisti e scettici, che non vedono altro che il fatto storico, nella sua molteplicità; … L’altro, il nostro, reso possibile dal sopra esposto concetto della spiritualizzazione dell’Uno, che pone il fatto come atto, e quindi, ponendosi nel tempo, non lascia mai effettivamente nulla dietro di sé. Questo è importante in Gentile. Questo Uno, come dice lui, il porre il fatto come l’atto, significa lasciare nulla dietro di sé, cioè, significa che tutto è sempre presente, anche il passato, che è qui e adesso. Paragrafo 9. Unità della storia eterna e della storia del tempo. L’antinomia pertanto si risolve nel concetto di processo dell’unità, la quale si moltiplica restando una: di una storia, perciò, ideale ed eterna, che non è da confondere con quella del Vico, che ne lascia fuori di sé una che si svolge nel tempo: laddove il nostro eterno è lo stesso tempo considerato nell’attualità dello spirito. In Gentile il tempo non è pensato, come abbiamo già visto, come una linea in cui si susseguono eventi o stati o punti, perché questa nozione di tempo la facciamo preesistere all’atto, mentre, come dice lui, è l’atto che crea il tempo. Ma come lo crea? Questo lo aveva già detto in precedenza: lo crea nella simultaneità di tutti questi punti della linea temporale, dove sono compresenti tutti simultaneamente nell’atto. Paragrafo 11. Circolo di storia della filosofia e filosofia. La storia, comunque, è storia razionalmente ricostruibile. E come? Per Hegel la storia della filosofia ricostruibile sarà, anzi è, certamente, la sua; e così per ognuno, egualmente, la propria. Ebbene, che cosa ciascuno includerà nella sua storia come materia appartenente alla storia della filosofia? Una scelta del materiale è inevitabile; e una scelta richiede un criterio. E il criterio, in questo caso, non potrà essere altro che una nozione della filosofia. Ciascuno costruisce una storia della filosofia in base alla propria filosofia. Ancora: non c’è storia che non disponga con un ordine e una prospettiva i vari materiali; e anche l’ordine e la disposizione conveniente, onde campeggi in rilievo ciò che più importa, e sia respinto nello sfondo via via più remoto quello che ha importanza proporzionatamente minore, implicano una scelta tra vari ordinamenti e disposizioni possibili. E quest’altra scelta richiederà novellamente un criterio; e quindi l’intervento di un modo d’intendere e giudicar la materia, che qui non può esser altro che una filosofia. Donde la conclusione che quella storia della filosofia che deve precedere la filosofia, presuppone tuttavia la filosofia. Ed ecco il circolo. Paragrafo 13. Obbiezione e risposta. La difficoltà che tuttavia s’incontra e incontrerà a veder chiaramente l’identità del processo, in cui la filosofia e storia della filosofia s’identificano, e quindi si differenziano mantenendo sempre la loro identità, proviene dal solito errore di non concepire i due termini nell’attualità del pensiero che li pensa, e presentarli piuttosto astrattamente:… Per Gentile questo è l’errore che fa sempre il pensiero in generale, e non solo la filosofia, lo avevamo già visto in Hegel: mantenere separati i due termini. …ond’è necessario che alla filosofia sia esterna la storia della filosofia, e viceversa, poiché entrambe sono esterne al pensiero, in cui soltanto consiste la loro realtà. La storia della filosofia, invece, a cui bisogna guardare per vedere se essa sia identica con la filosofia, è quella che è per noi storia della filosofia nell’atto del filosofare. È nell’atto del filosofare che interviene la storia della filosofia. Quando qualcuno vuole fare della filosofia, è presente nel suo fare filosofia la storia della filosofia, inesorabilmente. Non se la inventa ex nihilo. In questo atto è presente la storia della filosofia ed è, come dice Gentile, l’unico modo di pensare la storia della filosofia. Si porta appresso non solo la storia della filosofia ma ben altro, tutta la storia della parola, si porta il tutto, l’intero, il linguaggio. I fatti della storia della filosofia sono tutti anelli di una catena, che non si può spezzare, e che, nella sua totalità, è sempre, nel pensiero del filosofo che la ricostruisce, tutto un pensiero, il quale si articola in se stesso e si dimostra, cioè si realizza, diventa se stesso una realtà, nel processo concreto di queste sue articolazioni. I fatti della filosofia nel suo passato, pensateli; e non possono essere che l’atto, l’unico atto della vostra filosofia, che non è nel passato, né in un presente che sarà passato, poiché esso è la vita, la realtà stessa del vostro pensiero, centro d’irradiazione d’ogni tempo, passato o futuro che sia. La storia, dunque, quella appunto che è in tempo, è concreta soltanto nell’atto di chi la pensa come storia eterna. Eterna, torno a dire, non nel senso di un presente infinito, ma eterna in quanto fuori del tempo, in quanto è ciò che costruisce il tempo. Capitolo XIV. L’arte, la religione e la storia. Qui prende in questione queste tre istanze per mostrare, alla fine, che l’arte, come la religione e la storia, non si può considerare come la storia dell’arte, o come la storia della religione, perché dice che se si fa la storia dell’arte non si fa arte, e se c’è arte non c’è storia dell’arte, è già lì. Esattamente come con la filosofia: se faccio filosofia non faccio storia della filosofia, quest’ultima è già nell’atto. Paragrafo 1. Il carattere dell’arte. Nessuna osservazione è forse più atta a introdurre nel concetto dell’arte, in quanto esso si distingue dal concetto della filosofia, di questa: che un sistema filosofico non esclude nulla di pensabile dal campo della propria speculazione; e c’è filosofia in quanto il reale, alla cui intelligenza mira lo spirito, è il reale assoluto, tutto ciò che si può pensare; laddove un’opera d’arte esprime sì anch’essa un mondo, ma un mondo che è il mondo dell’artista; il quale, quando dall’arte ritorna alla vita, sente di passare ad una realtà diversa da quella della sua fantasia. La vita vagheggiata dal poeta è una vita il cui valore consiste appunto nel non inserirsi nella vita a cui mira l’uomo pratico, e che il filosofo tenta di ricostruire logicamente nel suo pensiero: nel non potervisi inserire, perché essa è libera creazione del soggetto che si stacca dal reale, in cui il soggetto stesso si è realizzato e quasi incatenato, e si pone nella sua astratta, immediata soggettività. Quel che il Leopardi dice della sua donna;
Viva mirarti omai
Nulla speme m’avanza;
S’allor non fosse, allor che ignudo e solo
Per novo calle a peregrina stanza
Verrà lo spirto mio. Già sul novello
Aprir di mia giornata incerta e bruna,
Te viatrice in questo arido suolo
Io mi pensai. Ma non è cosa in terra
Che ti somigli; e s’anco pari alcuna
Ti fosse al volto, agli atti, alla favella,
Saria, così conforme, assai men bella.
quella situazione come di sogni, che lo stesso Leopardi rappresenta nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare, è la situazione di ogni poeta e di ogni artista rispetto alla propria donna e, in generale, a ogni creatura della propria fantasia. Vi ho letta la nota 2 tratta dal Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare. “Quale delle due cose”, domanda il Tasso al suo Genio, “stimi che sia più dolce; vedere la donna amata o pensarne? E il Tasso: “Non so. Certo che quando mi era presente, ella mi pareva una donna; lontana mi pareva e mi pare una dea”. Coteste dee, ripiglia l’ironico Genio, “sono così benigne, che quando alcuna vi si accosta, in un tratto ripiegano la loro divinità, si spiccano i raggi d’attorno, e se li pongono in tasca, per non abbagliare il mortale che si fa innanzi”. Né è colpa loro. “Qual cosa del mondo ha pure un’ombra o una millesima parte della perfezione che voi pensate che abbia a essere nelle donne?”. Meglio, molto meglio vederla in sogno colei che si ama. “Anzi ho notizia di uno che quando la donna che egli ama, se gli rappresenta dinanzi in alcun sogno gentile, esso per tutto il giorno seguente, fugge di ritrovarsi con quella e di rivederla; sapendo che ella non potrebbe reggere al paragone dell’immagine che il sonno gliene ha lasciata impressa, e che il vero, cancellandogli dalla mente il falso, priverebbe lui del diletto straordinario che ne ritrae”. Paragrafo 3. L’arte come lirica. In questo senso giustamente dice il Croce, che l’arte è, sempre, essenzialmente, lirica. E in questo senso del pari giustamente era stato detto dal De Sanctis, che l’arte è forma, in cui il contenuto è fuso, assorbito, annullato. L’arte è solo fora, come se il contenuto svanisse di fronte alla forma. In questo senso, ho detto: perché forma è anche la filosofia, come pensiero nella cui attualità è la vita dell’oggetto. Ma l’arte è la forma della soggettività o, come si dice anche, dell’individualità immediata dello spirito: per cui nel Leopardi non va cercato un pensiero filosofico, un concetto del mondo, ma il sentimento del Leopardi, e cioè la sua personalità, il Leopardi stesso che dà vita concreta ed anima a un mondo – che è pure un sistema d’idee. Togliete l’anima del Leopardi al suo mondo, cercate ne’ suoi canti e nelle sue prose anzi che l’espressione del suo sentire, o meglio, il suo sentire, una filosofia da discutere e far valere con argomenti razionali; e avrete distrutto la poesia leopardiana. Qui, però, Severino non era del tutto d’accordo, anzi, poneva Leopardi come suo principale riferimento filosofico; dopo venivano Gentile e Nietzsche, ma il primo era Leopardi. Paragrafo 5. L’individualità dell’opera artistica. L’autocoscienza è coscienza di sé;… L’autocoscienza è il mio sapere di sapere; la coscienza è il mio sapere, ma il sapere di sapere è l’autocoscienza. …ma la coscienza di sé è soltanto un lato della dialettica spirituale che si compie nella sintesi della coscienza di sé (tesi) e della coscienza dell’oggetto come altro da sé (antitesi). Qui c’è Hegel, ovviamente: l’in sé è la coscienza di sé, la tesi, ciò che si pone; la coscienza di sé si contrappone a ciò che pongo. È una cosa che vedremo più avanti. L’arte è coscienza di sé, pura, astratta autocoscienza che si dialettizza bensì (altrimenti non potrebbe realizzarsi), ma in se stessa, e astraendo dall’antitesi in cui si è realizzata; e quindi chiudendosi in un ideale, che è sogno, ma dentro di cui essa vive cibandosi di se medesima, o meglio creando un suo proprio mondo, che creazione soggettiva apparisce anche al pensiero comune che il mondo reale non ritiene creato dallo spirito. Questo è quello che pensano tutti dell’arte: una visione di sogno, che on ha a che fare con la realtà. Paragrafo 6. Storia dell’arte come storia della filosofia. Tale essendo l’arte nella sua nota caratteristica come potenziamento dell’autocoscienza nella sua astratta immediatezza, per cui si stacca dalla coscienza e si ritrae nel sogno della fantasia, è chiaro che una storia dell’arte in quanto arte non è concepibile. … Noi bensì facciamo le storie delle letterature e delle singole arti; e dicemmo nel precedente capitolo che intendere l’Ariosto è intendere il suo linguaggio, e quindi uscire dal suo poema, da lui stesso, come individuo determinato, e retrocedere e profondarsi nella storia della cultura da cui germoglia tutta la sua spiritualità, che suona nella parola parlata dal poeta. Ma quando abbiamo imparato a conoscere quel linguaggio, e possiamo perciò leggere il poema, ci tocca dimenticare tutta la vita attraverso la quale siamo giunti a impararlo. Anzi, con la nostra mentalità acquisita attraverso tanta erudizione e storia, noi dobbiamo dimenticarci nel mondo del poeta, e sognare con lui, traendoci insieme con lui in disparte, fuor della via maestra per cui procede nella storia la realtà spirituale; a quel modo stesso che sognando ci dimentichiamo del mondo e spezziamo tutti i legami che ci tengono avvinti alla realtà degli oggetti, in cui dialetticamente si concreta la nostra vita reale. Così è vero che la storia di una letteratura, o dell’arte di un popolo è possibile; e una delle maggiori opere storiche nostre, dove più palpita la vita della dialettica dello spirito, è la Storia della letteratura italiana del De Sanctis; ma, quando una storia letteraria non sia galleria o museo, in cui ogni opera d’arte, per quanto illuminata dalla vicinanza delle opere affini d’una stessa scuola, d’uno stesso tempo, è quindi, in generale, della stessa, o meglio, di una simile tecnica, non ha nessuna intrinseca relazione con nessuna delle sue compagne; essa non è se non la storia dello spirito nella sua concretezza, da cui l’arte si spicca come fiore dal suolo. Io posso anche fare la storia della letteratura, però, poi, ogni volta che mi accosto a un autore è come se in un certo senso tutta questa storia svanisse e rimane solo l’autore. Talché una storia artistica nelle sue valutazioni estetiche spezza sempre necessariamente il filo storico. E quando rannoda questo filo, cessa di essere pura valutazione estetica e fonde questa valutazione nella dialettica generale della storia, che è posizione del valore unico dello spirito costruttore della storia. Dove insomma si guarda all’arte, non si vede la storia; e dove si guarda alla storia, non si vede l’arte. La stessa cosa, dice Gentile, accade con la religione.
Intervento: Religione come antitesi dell’arte, dice.
Antitesi dell’arte, però, anche il pensiero religioso… lui dice che l’arte mette in primo piano il soggetto, è una cosa soggettuale; mentre nella religione è l’oggetto che è posto in primo piano, l’oggetto nella sua opposizione al soggetto, e ciò che si oppone al soggetto è Dio, l’oggetto trascendente. Però, anche nel caso della religione rimane esattamente lo stesso problema, e cioè il fatto che o si fa la storia della religione oppure si intende che oggetto e soggetto sono lo stesso, e in questo modo la religione si dissolve. Paragrafo 8. Impossibilità di una storia della religione. Orbene, data questa posizione del divino, assoluto, immobile e misterioso, è possibile che lo spirito, dal punto di vista religioso, concepisca una storia, uno svolgimento? Ma lo svolgimento potrà essere del soggetto, che, religiosamente, non ha valore. Né, d’altra parte, è possibile che lo spirito si fissi nella sua mera posizione religiosa, annullando se medesimo come soggetto; giacché lo stesso annullamento non può aver luogo, come osservammo altra volta, se non per affermazione di attività dello spirito. Il quale è portato così dalla stessa sua natura a superare a volta a volta ogni posizione religiosa, riscotendosi nella autonomia, criticano il suo concetto del divino, e procedendo quindi a forme sempre più spirituali di religione. In guisa che nella sua religiosità lo spirito è immobile; e si muove soltanto superando ogni volta il suo momento religioso, e assorbendolo nella filosofia. Paragrafo 9. Storia della religione come storia della filosofia. Di guisa che, una storia dell’arte e una storia della religione, in quanto realmente concepibili, e quindi eseguibili, sono storie della filosofia, e, come tali, anch’esse storie in tempo che si risolvono nella storia ideale, giusta quanto s’è dimostrato della natura propria della storia della filosofia. È lo stesso discorso che Gentile applica. Capitolo XV. La scienza, la vita e la filosofia. Paragrafo 1. Scienza e filosofia. Oltre l’arte e la religione, dalla filosofia si distingue la scienza strictu sensu, in quanto la scienza non è filosofia, pur avendo della filosofia il carattere conoscitivo. Ma essa non ha della filosofia la universalità dell’oggetto; è quindi il carattere critico e sistematico. Ogni scienza ha altre scienze accanto a sé, ed è perciò una scienza particolare; e dove supera i limiti del proprio oggetto particolare, tende a trasformarsi in filosofia. Come scienza particolare, mirante cioè a un oggetto che è esso stesso particolare e può intendersi separatamente dagli altri oggetti, con i quali coesiste, la scienza si fonda su un presupposto naturalistico; poiché la realtà soltanto se si consideri come natura può pensarsi composta di più elementi, tra i quali l’uno o l’altro possa essere assunto ad oggetto di indagine particolare. A base, dunque, del carattere analitico d’ogni scienza sta un’intuizione naturalistica. Donde la tendenza logicamente necessaria della scienza in tutti i tempi verso il meccanismo e il materialismo. Paragrafo 2. Caratteri della scienza. Ancora, ogni scienza presuppone il suo oggetto, e nasce dal ritenere che l’oggetto ci sia innanzi al pensiero, e sia tuttavia da conoscere. Per intendere l’oggetto come creazione del soggetto, la scienza dovrebbe proporsi prima di tutto il problema della posizione del reale in tutta la sua universalità; e allora non sarebbe più scienza, ma filosofia. Presupposto ‘oggetto come un dato che non è da dimostrare, e come un dato naturale, come un fatto, la scienza particolare è necessariamente empirica. Non può infatti concepire la conoscenza se non come rapporto estrinseco dell’oggetto col soggetto; estrinseco alla natura così dell’uno come dell’altro. Questo rapporto sarà la sensazione o altro fatto del conoscere, ma puro fatto, sul quale la mente potrà lavorare con l‘astrazione, la generalizzazione, ecc. La scienza perciò è dommatica. Non dimostra, né può dimostrare questi due fondamentali suoi presupposti: 1° che esista il suo oggetto; 2° che abbia valore quel fatto iniziale e sostanziale del conoscere, che è l’immediato rapporto con l’oggetto, la sensazione. In effetti, questi sono i punti fondamentali della scienza: in nessun modo può dimostrare che esista l’oggetto. E poi, il rapporto tra l’oggetto e il conoscere: come conosco qualche cosa? In che modo il soggetto viene a conoscere l’oggetto? È come se nella scienza ci fosse un salto, che però non impedisce alla scienza di operare. Paragrafo 5. La scienza come naturalismo. Le stesse scienze matematiche, stabiliti che abbiano i loro postulati, con cui si costituisce il mondo della pura quantità, non trattano questa loro postulata realtà altrimenti dalle scienze naturali. Con le quali hanno comune il carattere della particolarità dell’oggetto e della dommaticità delle affermazioni; dommaticità derivante dal concepire l’oggetto stesso per sé stante, nella sua necessità assoluta, di contro al soggetto, il quale dalla sua parte, non può far altro, rispetto ad esso, che presupporlo e analizzarlo. Paragrafo 6. Impossibilità d’una storia della scienza. Ma, oltre che particolare, ogni scienza è, abbiamo detto, empirica e dommatica, perché presuppone al conoscere il conosciuto: appunto come Platone presupponeva allo spirito le idee, che son pure l’oggetto del suo conoscere. Questo è un altro problema della scienza, cioè il presupporre al conoscere il conosciuto, come se il conoscere venisse dopo il conosciuto. Però, se io presuppongo il conosciuto do già per acquisito che ci sia stato un conoscere, e quindi mi trovo in questa situazione in cui è come se il conoscere e il conosciuto rimbalzassero l’un l’altro continuamente.
Intervento: …
Sì e no, nel senso che per Gentile, ma già per Hegel, la questione si pone, non rispetto alla scienza ma al pensiero, come l’unità dei due estremi, una unità che è possibile soltanto nel pensiero. Fuori del pensiero, è chiaro che ci sono delle antinomie, dei paradossi irresolubili, e infatti tutte le scienze naturali, se incominciano a interrogare se stesse, incontrano dei paradossi che non hanno soluzione, se si mantengono i due estremi separati. Queste antinomie, questi paradossi, procedono dal considerare qualcosa come fuori del linguaggio. Io considero il soggetto che naturalmente è parlante, ma non l’oggetto che devo conoscere, che è fuori del linguaggio; ed è a questo punto che sorgono problemi irresolubili, nel momento in cui il soggetto deve conoscere un qualche cosa che è fuori del linguaggio. Questione che aveva già sollevata Aristotele rispetto alla materia: quando io voglio sapere che cos’è la materia io mi avvicino alla materia, però, quando mi avvicino è come se di fatto non trovassi mai la materia, trovo sempre un qualche cosa che si avvicina. C’è l’esempio rispetto al punto di origine, il Big Bang: mi avvicino a questo punto, ma nel momento in cui mi avvicino, anche di pochissimo, ciò che trovo non è il punto iniziale, è già un passo dopo. Il punto iniziale sarebbe quel punto che, diciamola così, è fuori del linguaggio, per cui io mi avvicino ma avvicinandomi mi trovo di fronte a qualcosa che non è il punto di origine, e non lo è perché lo sto considerando e, quindi, è qualcosa che è già “incominciato”, non è l’origine. E, allora, faccio un altro passo in avanti per avvicinarmici, ma di nuovo trovo qualcosa che è già incominciato, che è già principiato. Come dire: troverò sempre il principiato e mai il principiante. Cercare il punto di origine è come cercare l’elemento fuori del linguaggio. Io mi avvicino, penso che il punto di origine sia quello lì; però, se lo sto considerando, vuol dire che è già nel linguaggio; e, allora, faccio un altro passettino immaginando di avvicinarmi, ma di nuovo mi troverò a considerare un qualche cosa e, considerandolo, è già linguaggio; e, allora, un altro passettino… Sarebbe trovare il punto in cui il linguaggio è iniziato.
Intervento: Sarebbe la massima volontà di potenza.
Esatto. Avere il controllo su tutto. Solo che questo paradosso non ha soluzione, perché non c’è uscita dal linguaggio. Il paradosso rimane se io immagino che qualcosa sia fuori del linguaggio, che ci sia un inizio del linguaggio. Perché non c’è inizio del linguaggio? Certo, dice bene Heidegger quando dice che nasciamo nel linguaggio, ma non c’è inizio perché questo punto non lo posso strutturalmente trovare. Come dicevo, man mano che mi avvicino mi trovo sempre a considerare quell’elemento che è vicinissimo al punto d’inizio ma che non lo è perché lo sto considerando, perché è già linguaggio.
Intervento: I matematici risolverebbero la questione dicendo che tra due punti c’è un’infinità di punti.
Sì. In qualche modo colgono la questione, perché pongono l’infinito attuale, cioè, non è più qualcosa da raggiungere, è già raggiunto. Un po’ come la questione dei limiti: si è già arrivati a fine corsa, per finta, ma ci si è arrivati, cioè, si pone come già dato l’insieme di tutti i punti possibili e immaginabili. È attuale, appunto, infinito attuale, cioè, in atto. Paragrafo 8. Analogie tra scienza e religione. D’altra parte, la scienza che ha innanzi a sé un oggetto, che non lei ha posto, colloca lo spirito di fronte a un reale, la cui realtà esclude la realtà dello spirito. Perciò essa è agnostica, per sua natura, e pronta a dire non solo ignoramus, ma anche, e prima di tutto, ignorabimus, come fa la religione innanzi al suo dio ignoto e tremendo nel suo mistero. Ignorante del vero essere imperscrutabile delle cose, la scienza ne sa quello che stima puro fenomeno, apparenza subiettiva, unilaterale e frammentaria, come l’immagine del poeta, che lampeggia alla fantasia in un sogno che estrania lo spirito del reale. La scienza perciò, oscillando tra l’arte e la religione, non le unifica, come la filosofia, in una sintesi superiore, anzi assomma col difetto di obbiettività e universalità dell’arte il difetto di subbiettività e razionalità della religione; e quindi è che anche essa, ponendosi come scienza in quanto astrae dall’uno o dall’altro lato dell’unità concreta dello spirito, non si attua poi se non superano la propria astrattezza di scienza, nell’atto spirituale che soltanto è reale come unità inscindibile del soggetto e dell’oggetto: quell’unità, il cui processo è la filosofia nella sua storia. Paragrafo 11. Significato della distinzione. La teoria appare diversa dalla pratica, e la scienza altra cosa dalla vita, non perché l’intelletto non sia volontà o la volontà non sia intelletto, ma perché una volta il pensiero (l’atto reale e vivo dello spirito) si prende in astratto, e un’altra in concreto. Altro certamente è parlar di morte, come dice il proverbio, altro morire: e così l’altro sarebbe l’idea d’una buona azione, altro la buona azione. Ma l’idea della buona azione non è già differente dalla buona azione perché la prima sia una semplice idea e la seconda invece un’idea attuata; bensì perché l’una è un’idea e l’altra un’altra idea (o, se si vuole, l’una è un’azione, e l’altra un’altra azione). E la differenza tra la prima e la seconda idea consiste in ciò, che la prima è idea astrattamente considerata, e la seconda idea concreta. Per cui l’idea della buona azione e la buona azione sono idee tutte e due; solo che l’una è presa astrattamente, immaginando che abbia un suo valore indipendentemente da tutto, mentre l’altra è presa concretamente, cioè è presa nel tutto, nel concreto. Con la prima infatti si pensa all’idea che è contenuto, o astratto risultato del pensiero, ma non all’atto onde si pensa, e in cui veramente consiste la realtà concreta dell’idea; e co la seconda si pensa all’idea non come oggetto o contenuto del pensiero, bensì come atto realizzatore di una realtà spirituale. Questo è importante perché c’è, sì, una differenza, solo che l’una viene presa in astratto e l’altra in concreto, ma entrambe sono idee. Un atto non è l’altro, mai, ben s’intende: ma quando noi paragoniamo due o più atti, è da avvertire che allora non guardiamo all’attualità dello spirito, in cui la molteplicità è unità. Noi possiamo pensare a due atti come due atti distinti soltanto se non prendiamo in considerazione che questi due atti fanno parte di una unità, di un atto, che è atto di pensiero, dice Gentile. In questa attualità il paragone non è possibile. E quando un atto è azione che si oppone a un’idea, l’idea non è atto spirituale, ma mero termine ideale dello spirito che vi pensa: oggetto, non soggetto. E parimenti, quando un’azione è compiuta e la guardiamo teoricamente, l’azione non è più atto del soggetto, ma semplice oggetto, a cui lo spirito nella sua attualità, guarda, e che risolve perciò nell’atto presente della coscienza che ha di quella azione. Atto della coscienza, che ora appunto è la vera azione. La vera azione è la coscienza, è il sapere che cosa sto facendo, e cioè che sto pensando; sto creando mentre penso. Quello dunque che, come vita dello spirito, si oppone alla filosofia quasi oggetto suo, in astratto bensì è cosa diversa dalla filosofia, ma, in concreto, vive come filosofia; e quando si pone come realtà già vissuta innanzi alla coscienza, questa la risolve nella conoscenza in cui la riassume, e la conserva quindi come filosofia. Di guisa che la filosofia è veramente la immanente sostanza di ogni vita spirituale; e non potendosi concepire storia della filosofia che rimanga alle spalle della filosofia, rimane chiaro che nel concetto della identità dell’una con l’altra e dell’eterna risoluzione dell’una nell’altra è la più aperta e perfetta conferma dell’assolutezza della realtà spirituale, inconcepibile come limitata in un suo momento da condizioni che la precedano e comunque la determinino. In cotesto concetto è, se non c’inganniamo, la più solida dimostrazione e la più evidente illustrazione del concetto della libertà dello spirito. Diciamola alla Hegel: dal momento in cui ci accorgiamo che i due momenti sono lo stesso, non possiamo più fare né la storia del pensiero né la storia della scienza, ecc., ma siamo nella filosofia, ovviamente in questa accezione, cioè, siamo nel concreto.