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14-10-2015

 

Intervento: Discorso vero e discorso falso, Severino dal Sofista di Platone “Il sole è la luna” proposizione falsa è ovvio ma perché è falsa? Perché ciascun termine è identico a sé e non può essere altro da sé …

La questione di Severino a questo riguardo è relativamente semplice, ciò che indica come il “falso”, riprendiamo questo esempio che lei ricordava, è ciò che non compete a qualche cosa: occorre partire dalle determinazioni, quando si individua qualche cosa in effetti si stabiliscono delle determinazioni, queste determinazioni sono quelle cose che fanno di qualche cosa quello che è; una proposizione è falsa quando le sue determinazioni non convengono a ciò di cui parla. Attribuire ciò che non conviene a quella cosa è come dire che quella cosa non è quella che è, e di conseguenza dicendo che quella cosa non è quella che è si afferma il falso. Occorre partire sempre con Severino dall’incontrovertibile, tutto ciò che nega l’incontrovertibile è falso: una cosa è quella che è, cioè è identica a sé questo è incontrovertibile in quanto qualunque cosa affermi il contrario si auto contraddice, quindi il falso è sempre ciò che nega l’incontrovertibile necessariamente, questo è lo schema del ragionamento di Severino. In ciò che andiamo facendo compaiono una serie di questioni una fra queste, forse una fra le più rilevanti, riguarda proprio la struttura del linguaggio e la volta scorsa ne abbiamo accennato, questa struttura è quella che dice che parlando è necessario tanto l’identità così come è necessario il divenire. L’identità è l’essere, ciò che è. Quando diciamo che qualcosa è quello che è diamo a questa cosa un’identità, ma per dare questa identità occorre che ci sia uno spostamento da quella cosa a un’altra, che è quella che la determina. Questo è il “problema” in un certo senso del linguaggio così come funziona, e cioè l’identità, è come se, si tratta poi di precisare, l’identità poggiasse sul divenire e il divenire poggiasse sull’identità, ci sono alcune pagine di Severino dove parla della totalità dell’ente, quando parla di sincronia, diacronia affronta la questione muovendo dal tutto e dalla parte e dice che la parte può essere o sincronicamente legata al tutto oppure diacronicamente slegata dal tutto, per questo motivo: sincronicamente un elemento è quello che è in relazione a quegli altri elementi che sono imprescindibili per fornire a quell’elemento, cioè a quella parte, la sua determinazione, questo nella sincronia, nel senso che tutti questi elementi intervengono sincronicamente e costituiscono un tutto che costituisce poi a sua volta la possibilità di determinare ciascun elemento, quindi ciascun elemento è inscindibilmente legato a ciascun altro, come nella definizione di struttura, la sincronia corrisponderebbe a ciò che è stabile, ciò che è fermo, ciò che è immutabile, tutto ciò che attiene alla sincronia non è mutabile perché ciascun elemento essendo necessariamente connesso con gli altri è come se comportasse tutti gli altri, prevedesse tutti gli altri, quindi non può intervenire un elemento nuovo all’interno della struttura perché la struttura è quella che è, è fatta di tutti questi elementi che si supportano, per così dire, o si significano, se preferite, l’un l’altro. Sarebbe in qualche modo l’Essere, che è un tutto, identico, immobile, fermo, dove ciascun elemento è quello che è in relazione agli altri ma costituiscono un insieme chiuso, quindi non c’è la possibilità di divenire. Non c’è nessun divenire sincronicamente, è come se tutto fosse già avvenuto, è tutto lì. Perché ci sia divenire occorre invece che un elemento sia isolabile dalla struttura, cosa che nella sincronia non può essere perché ciascun elemento non è isolato né isolabile da tutti gli altri perché fa parte di tutti gli altri, è parte integrante, nella diacronia no, è la diacronia, cioè il divenire, che consente l’isolamento di un elemento, perché nel divenire ciò che è prima non era e dopo non sarà più, e ciò che è adesso è isolato da ciò che non era prima perché prima era niente, se adesso è e prima era niente sono due cose totalmente differenti e quindi solo a questa condizione, cioè pensando il divenire un elemento è isolabile, se è isolabile allora è manipolabile ed è manipolabile perché solo a questa condizione può intervenire la volontà di potenza e cioè l’idea che sia possibile controllare questo movimento dell’essere. Severino riprende la parola greca di Platone ἐπαμφοτερίζειν per indicare il movimento tra l’essere e il non essere, l’estremo controllo di questo movimento dell’essere che esce dal nulla e torna nel nulla, questo estremo controllo è esattamente il tentativo che mette in atto la tecnica, e può fare questo, può avere un controllo assoluto perché la tecnica ha abbandonato l’episteme, cioè la verità assoluta, certa, immobile, che appartiene invece alla sincronia, perché lì ogni elemento è quello che è non può essere altro perché non può divenire, perché se divenisse vorrebbe dire che prima non c’era e che dopo non ci sarà più, e questo lo mette in una condizione di essere disgiunto da tutti gli altri elementi, isolato dagli altri elementi, mentre nella sincronia questo non avviene, è impossibile perché è un tutto. Quindi il tentativo di isolare il termine, un elemento, è il progetto della tecnica, la quale tecnica dice Severino, riesce a ottenere un potere assoluto perché non cerca più di avere un potere sull’ἐπιστήμη, cioè sulla verità epistemica, sulla verità assoluta, ma su una verità ipotetica, nel senso che fuori dalla sincronia, cioè nel divenire, in questo movimento, in questa “libertà” come la chiama lui dell’essere, non c’è più la possibilità di avere la certezza assoluta di raggiungere una verità epistemica, ma soltanto verità ipotetiche che sono verità per altro di cui la scienza si avvale: verificazionismo, falsificazionismo eccetera, cioè tutte verità ipotetiche, anche perché sono fondate sull’induzione quindi non potrebbe essere altrimenti. Evitando la verità epistemica la tecnica aggira il problema del dovere dimostrare una verità epistemica, quindi certa e sicura, aggirando questo si trova assolutamente libera di potere affermare qualunque cosa. La tecnica ha un potere assoluto su qualunque cosa, perché è come se lasciasse aperto il gioco. Ci sono della pagine interessanti di Heidegger proprio rispetto al gioco): L’originaria volontà di potenza è infatti la volontà che l’ente sia libertà, disponibilità assoluta all’essere e al niente (cioè libertà di questo movimento, l’ἐπαμφοτερίζειν) il dominio essenziale incomincia con l’apertura del senso di questa disponibilità, disponibilità tra l’essere e il niente, solo sul fondamento di questa sua apertura la volontà di potenza può proporsi di guidare mediante un calcolo (cioè mediante la tecnica) l’oscillazione dell’ente tra l’essere e il niente, ma l’episteme incontrovertibile (ché la caratteristica della verità epistemica è di essere incontrovertibile) all’interno della quale viene stabilito ogni immutabile ed eterno e quindi anche quell’immutabile che è la stessa necessità del nesso sincronico si impadronisce dell’oscillazione dell’ente, unendo la totalità dell’ente all’interno di un calcolo assoluto e non ipotetico (è l’ἐπιστήμη naturalmente) la teoria incontrovertibile che appunto in quanto tale rende impossibile l’oscillazione stessa e il divenire dell’ente (sta dicendo che l’episteme incontrovertibile è quella cosa che impedisce alla sincronia di diventare un movimento cioè un divenire perché si impadronisce di questa oscillazione dell’ἐπαμφοτερίζειν bloccandolo, cioè impedendo il divenire) L’originaria volontà di potenza si realizza in una forma (forma metafisica ovviamente) che contraddice l’originaria volontà che l’ente sia libertà (cioè l’originaria volontà di potenza cosa fa? contraddice l’originaria volontà che l’ente sia libero cioè che l’ente possa muoversi perché la volontà di potenza vuole bloccare) il dominio sull’ente è contrastato e limitato dalla forma in cui esso si realizza, la civiltà della tecnica è invece la forma dell’originaria volontà di potenza che non è in contraddizione con il proprio contenuto ché il calcolo che guida l’oscillazione dell’ente è, e riconosce, di essere ipotetico (vi ricordate Nietzsche: potenziamento, super potenziamento, quindi volontà creatrice e quindi vuole avere il dominio su qualcosa, ma per potere avere il dominio di qualche cosa, per poterlo dominare deve bloccarlo, se non lo blocca non domina niente e quindi si auto contraddice) non certo, problematico, falsificabile, scientifico nel senso moderno della parola, il dominio diventa assoluto proprio perché rinuncia ad essere assoluto, l’assolutezza del dominio è il suo non essere limitato dagli immutabili che esso stesso pone in quanto calcolo epistemico (cioè pone degli immutabili però è come se li tenesse in gioco, non li fermasse) la rinuncia all’assolutezza è la rinuncia all’incontrovertibilità del calcolo (cioè alla verità epistemica) questa fondamentale distinzione tra il calcolo incontrovertibile dell’episteme, il calcolo ipotetico della tecnica rimane del tutto assente nel pensiero di Heidegger dove il calcolo tecnologico è visto semplicemente come quella radicalizzazione del calcolo epistemico che incomincia con il “cogito” e la soggettività del pensiero moderno, Heidegger vede nel calcolo tecnologico soltanto l’aspetto che contrasta il lasciar essere l’ente, cioè il lasciare oscillare l’ente tra l’essere e il niente, (ricordate che per Heidegger l’Essere viene dal nulla, a un certo punto compare) perché non vede e non può vedere che l’originaria volontà di potenza risiede proprio nel lasciar essere l’ente ossia in ciò che egli chiama la verità dell’essere, abbandonare la volontà di impadronirsene e di spiegarne il perché del suo uscire e tornare nel niente ossia del suo trattenersi e congedarsi, proteggere la verità dell’essere significa nel pensiero di Heidegger proteggere il gioco del divenire eliminando ciò che come volontà di potenza rende impossibile il puro uscire e tornare nel niente da parte dell’ente (perché lo vuole fermare, quindi per Heidegger si tratta di tenere aperto questo gioco, però mantenere aperto questo gioco significa rimanere all’interno della metafisica perché questo gioco è fatto di divenire e il divenire è metafisica perché il divenire prende l’Essere come non essere) ma questo gioco del divenire che Heidegger contrappone alla volontà di potenza non è per nulla innocente ma è la stessa originaria volontà di potenza è cioè la volontà che l’ente sia libertà ossia oscillazione tra l’essere e il niente (questa volontà è di lasciar libero l’ente, ma lasciarlo libero significa lasciarlo oscillare tra essere e nulla). La volontà di potenza che si realizza come tecnica non è quindi un semplice sovrapporsi al gioco che lo soffoca con la pretesa di dirigerlo ma è l’esaltazione e la valorizzazione estrema del gioco (quindi la volontà di potenza nella tecnica sarebbe la valorizzazione estrema del gioco, questo gioco è sempre gioco tra l’Essere e il niente) la volontà di dominare l’ente volendo il senso stesso dell’ente (vuole sapere “che cos’è?” vuole stabilirlo) cioè volendo che l’ente sia divenire, oscillazione tra l’essere e il niente, trova la sua espressione più radicale e illimitata nel calcolo ipotetico col quale la tecnica si impadronisce della vicenda della creazione e distruzione dell’ente e oltrepassa il dominio limitato al contraddittorio entro il quale si è dovuto mantenere il calcolo incontrovertibile dell’episteme (la tecnica ha questa virtù, abbandona l’episteme a vantaggio del gioco, del gioco quindi quello che Severino chiama il calcolo ipotetico che è un calcolo che non si prefigge l’incontrovertibilità) il puro gioco dell’ente che Heidegger si propone di salvare da qualsiasi manomissione metafisico tecnologica è l’espressione in termini ontologici del problematicismo cioè della filosofia oggi. Così come il problematicismo è l’espressione in termini logico gnoseologici dell’ontologia originaria dell’occidente il nesso necessario diacronico cioè il divenire dell’ente in quanto ente implica la negazione di ogni necessità sincronica e in generale di ogni necessità che non sia necessità stessa che l’ente divenga, il divenire implica quindi innanzi tutto la negazione di ogni episteme, che è il luogo ove viene operata la produzione di ogni necessità e di ogni immutabile, reciprocamente il problematicismo come negazione di ogni sapere assoluto e incontrovertibile è appunto l’espressione, sul piano logico e gnoseologico dell’ontologia dominante dell’occidente, (il divenire) il problematicismo e la sua espressione in termini ontologici e soprattutto l’ontologia heideggeriana è quindi la filosofia propria dell’età della tecnica giacché appunto quella visione verificata dalla libertà essenziale dell’ente che consente alla tecnica di operare la liberazione illimitata dell’ente cioè la sua produzione, distruzione illimitata. (Queste notazioni di Severino sono acute e mostrano che la tecnica o il successo che ha la tecnica dipende in buona parte dall’essersi sbarazzata della necessità di avere una certezza, di muoversi a partire da una certezza. Pensate a ciò che costituisce la base teorica della tecnica, cioè la scienza, la scienza oggi non si muove più come qualche secolo fa, dall’800, dall’idea di avere un qualche cosa di assolutamente certo da cui muovere, oggi la scienza è ipotetica, muove dall’idea che qualcosa potrebbe essere così ma potrebbe anche non esserlo, se qualche cosa è così però non lo possiamo verificare in termini precisi come nel caso della meccanica dei quanti di Planck, quindi per Severino tutto questo ha comportato a un certo punto, abbandonando la verità epistemica, quindi abbandonando l’idea che un elemento sia quello che è in relazione a tutto quanto, a tutto ciò che lo determina, abbandono questo e potendolo isolare allora solo a questa condizione, isolandolo, è possibile manipolarlo. L’idea antica era invece quella olistica, e cioè che un elemento non fosse disgiungibile dal tutto in cui è inserito, dal tutto che lo fa esistere, in effetti non aveva tutti i torti Alexander Koyrè nel dire che con la filosofia greca è stato possibile inventare la scienza, e cioè nel momento in cui si è incominciato a pensare che un elemento fosse isolabile dal tutto che lo teneva stretto in un certo senso, ma per renderlo isolabile occorre che questo elemento non abbia più una connessione inscindibile con tutto cioè con gli altri elementi di cui è fatto, e per giungere a questo c’è voluta la filosofia di Platone e cioè la metafisica che dice che un elemento è quello che è in virtù di un altro. Solo a questa condizione l’ente è isolato in un certo senso dagli altri enti, perché se questo ente viene dal nulla, come dicevo prima, allora non fa più parte di un tutto chiuso in sé, ma è un elemento accidentale, può esserci come può non esserci, e allora posso dominarlo. Se invece questo elemento fosse legato inscindibilmente agli altri elementi non ho più nessun dominio su di lui perché il dominio ce lo hanno questi altri elementi che lo tengono strettamente vincolato al tutto, e quindi devo pensare questo elemento come libero per poterlo gestire, per poterlo dominare, per mettere in atto la volontà di potenza. Tutto questo ci dice che ci sono molti modi di pensare le cose, l’idea che un elemento sia inscindibilmente legato, sincronicamente legato a un tutto da dove viene? Qui ci troviamo di fronte a una sorta di paradosso perché l’idea che un elemento sia inscindibilmente legato al tutto non è una verità epistemica, perché non è dimostrabile con assoluta certezza, ma è un’ipotesi, e quindi ciò che in nessun modo è un ipotesi (l’ἐπιστήμη) è retto da un ipotesi. Questo ἐπαμφοτερίζειν in cui ci si trova quando si riflette intorno al linguaggio è questo l’aspetto più interessante che propriamente, come dicevo all’inizio, non è soltanto divenire né soltanto episteme, ma è il trovarsi questi due elementi cioè il “divenire” e l’ἐπιστήμη necessariamente e inscindibilmente legati fra loro, non è tanto un essere legati degli elementi all’interno di una struttura sincronica oppure legati in un nesso connesso con il divenire, ma la sincronia e la diacronia sono legati inscindibilmente fra loro. Questo è un altro modo per dire che per potere determinare un elemento: perché un elemento possa essere quello che è occorre un altro elemento, quindi occorre uno spostamento su un altro elemento. Per stabilire l’immutabilità è necessario il divenire, per stabilire il divenire è necessaria l’immutabilità. Ora questo non è così sorprendente come potrebbe apparire, ma costituisce il funzionamento del linguaggio ed è per questo, per questo funzionamento così singolare che Severino è stato indotto a pensare a questa definizione di “inconscio”, non è che nega quello di Freud, ma va al di là di ciò che Freud intendeva come inconscio, cioè di ciò che non ha accesso alla coscienza, che cos’è che non ha accesso alla coscienza? Severino lo spiega bene quando parla della contraddizione che lui chiama “C”, cos’è che rimane necessariamente inconscio per Severino? Il Tutto, che per Severino si dà in astratto perché ciò che appare, le manifestazioni che di volta in volta appaiono del tutto e poi scompaiono, lui ci tiene molto a precisare che questo non significa che vengono dal nulla e tornano nel nulla, ma vengono dal Tutto e rimangono nel Tutto, che è diverso, se no siamo da capo torniamo nel nichilismo metafisico, dicevo in questo tutto si manifestano soltanto questi apparire, i vari enti che compaiono. Il tutto si dà soltanto in astratto, non è mai coglibile simultaneamente tutto perché non è possibile avere tutti gli enti simultaneamente, qui e adesso, tutti quelli passati, presenti e futuri. Allora ciò che rimane inconscio, ciò che è l’inconscio per Severino, è che qualunque cosa appaia, questa cosa che appare è legata al Tutto, che però non appare, non c’è qui e adesso cioè nel concreto, è in astratto, ma non in concreto, che è una posizione singolare in effetti perché in questo modo rimane un qualche cosa che è inconscio, cioè che non giungerà mai alla coscienza, da qui poi la contraddizione C di Severino, cioè il fatto che il Tutto è tale ma non lo è perché di fatto il Tutto astratto non è mai il Tutto concreto. Per essere il Tutto completo tutto astratto dovrebbe collimare il con il tutto concreto, cosa che non può verificarsi se non all’infinito dice Severino, un infinito potenziale non infinito attuale, in un infinito potenziale tutti questi enti saranno comparsi all’infinito e allora ci sarà la sovrapposizione, cioè il tutto astratto coinciderà con il tutto concreto. L’aspetto interessante è che in questo modo rileva che comunque c’è, permane un qualche cosa che non è consapevole, che non è disponibile, mettiamola così, inconscio appunto, ma ciò che appare non è disgiunto, non è isolabile, non è isolabile perché altrimenti sarebbe di nuovo metafisica, sarebbe il divenire e quindi ciascun elemento che appare pur apparendo lui soltanto è comunque, in questo caso, potremmo dire “sincronicamente” legato al Tutto. Qualche tempo fa l’avevamo accostato alla nozione che utilizza De Saussure come “Langue” la Langue è quell’universo che contiene tutte le possibili esecuzioni linguistiche, ciascuna esecuzione che lui chiama “Parole” è quella che è perché è inserita all’interno della Langue, ovviamente non è isolabile. La questione del linguaggio per Severino rappresenta un problema perché il linguaggio è un continuo divenire e quindi ha dovuto trovare un qualche cosa all’interno del quale situare anche il linguaggio: il Tutto. Se il linguaggio fosse fuori dal Tutto non avrebbe la possibilità di apparire e quindi non esisterebbe, questa è la sua argomentazione, però come dicevo poc’anzi la questione può prendere un’altra direzione, e cioè la compresenza appunto di sincronia e diacronia, di qualcosa di “immutabile” ma immutabile non ontologicamente, ma immutabile direi formalmente nel senso che, diciamola così per adesso, è una sorta di decisione formale quella che un elemento sia immutabile: per poterlo utilizzare occorre che io lo consideri quello e non un altro, per poterlo utilizzare all’interno di una combinatoria e cioè a questo Nietzsche ci era arrivato vicino, perché possa darsi un divenire occorre qualche cosa di fermo, la verità, che per Nietzsche è un’illusione, un inganno, perché di fatto non può fermarsi un qualche cosa, se lo fermo è già falso perché se l’essere è divenire, la verità è non essere in quanto l’essere è il diveniente. L’idea della tecnica è di fare in modo che il divenire abbia il controllo sull’episteme, però rimane sempre all’interno del divenire perché l’episteme esclude il divenire, quindi esclude la libertà dell’ente, esclude la possibilità di isolare l’ente quindi esclude la possibilità di conoscerlo, manipolarlo …

Intervento: la verità epistemica dovrebbe essere quella che controlla il divenire, lo governa … per esempio la religione utilizza la tecnica come mezzo senza rendersi conto che la tecnica lavora logorando lo stesso discorso …

La tecnica promette la certezza, però non può garantirla perché, per usare le parole di Severino “il suo calcolo è ipotetico”, promette la certezza, il raggiungimento del tutto, cioè l’episteme, paradossalmente perché se raggiungesse l’episteme sarebbe la fine della tecnica, del divenire, cioè sarebbe la fine della libertà, sarebbe l’impossibilità dell’isolamento di un ente quindi l’impossibilità di controllare l’ente e quindi è ingannatrice in questo senso: promette una cosa che in nessun modo può soddisfare, la soddisferebbe soltanto a condizione della sua propria autodistruzione, perché sarebbe l’episteme, la sincronia, cioè il Tutto che quindi essendo eterno cancella il divenire. A questo punto senza divenire non c’è creazione, non c’è la possibilità di produrre nulla perché è già tutto prodotto, e in effetti per Severino è così. Dice ancora Severino). La metafisica è il luogo del nichilismo cioè della persuasione che l’ente in quanto ente è niente, questo pensiero guida la storia dell’Occidente, la metafisica è cioè il luogo dove il mortale porta se stesso nel linguaggio fino al limite estremo consentitogli, in questo senso la metafisica è l’autocoscienza del mortale. Il linguaggio mortale che parla del mortale sino al limite estremo consentito guida la storia dell’Occidente. La metafisica esprime fin dove le è consentito l’essenza mortale cioè la volontà che la terra, il non niente, sia niente, fino a che punto le è consentito questo? (fino al punto in cui non si interroga al di là della metafisica, perché la metafisica arriva fino a un certo punto, e cioè arriva al punto in cui dice che l’ente è niente, per andare oltre occorre una ulteriore interrogazione e cioè occorrerebbe, secondo Severino, giungere agli eterni.) Questa volontà è volontà che ogni ente sia niente perché isolando la terra dalla verità intramontabile del destino (sarebbe la verità dell’essere, l’incontrovertibile) il mortale isola insieme l’intramontabile della terra sicché non solo la terra separata dalla verità è un niente ma è un niente anche la verità separata dalla terra quindi è un niente anche il tutto in quanto esso sta raccolto presso il destino della verità. Isolando la terra dalla verità il mortale da un lato scioglie il legame indissolubile che unisce ogni ente a ogni altro ente sicché la verità così disciolta è un niente, dall’altro lato tratta come un niente la verità intramontabile che pure appare giacché nella persuasione che la terra sia il tutto che sicuramente si manifesta, la verità che pure è il manifesto ed è l’intramontabile manifesto è trattata come un niente (dice che isolando la terra dalla verità, cioè isolando un elemento dal Tutto, quindi sciogliendo questo legame indissolubile, prima parlava della sincronia, con il tutto cioè che unisce ogni ente a ogni altro ente all’interno di una struttura, potremmo dire, scioglie questo legame. Sciogliere questo legame è la condizione per dare libertà all’ente, cioè per poterlo dominare, “dall’altro lato tratta come un niente la verità intramontabile che pure appare” perché se ha sciolto l’ente dal Tutto che è la sua verità, ha sciolto l’ente dalla verità “giacché nella persuasione che la terra sia il tutto che sicuramente si manifesta” allora anche la verità è trattata come un niente, la verità dell’ente sciolto dal legame con il Tutto che è la sua verità, che è la verità dell’essere diventa un niente e la verità dell’ente anche lei diventa un niente, e questo è l’abbandono della verità come ἐπιστήμη. Questo abbandono della verità ha degli effetti perché la verità in questo senso sarebbe il fermare l’ente all’interno del Tutto, cioè l’elemento linguistico è quello che è in virtù del fatto che è all’interno di una struttura, il linguaggio, ora è come se noi prendessimo un elemento linguistico e lo portassimo fuori dalla struttura del linguaggio per poterlo trattare, il problema è che tolto l’elemento linguistico dalla struttura all’interno della quale trae la sua esistenza questo elemento che noi abbiamo tirato fuori non esiste più, non è più niente, e questo è uno dei motivi per cui non c’è uscita dal linguaggio) la verità che l’ente, ogni ente sia niente sta al fondo della persuasione che la terra sia la regione manifesta con cui abbiamo sicuramente a che fare, ma per essere espressa e testimoniata sino all’estremo limite consentito questa volontà deve attendere l’Occidente dove per la prima volta il linguaggio non parla semplicemente con le parole “essere” e “niente” ma parla del senso di queste parole, e la terra viene testimoniata come il regno del divenire cioè come la dimensione in cui le cose escono e ritornano nel niente e dove dunque le cose in quanto “non niente” sono niente (c’è un riferimento a una posizione antica, presocratica diciamola così che poi presocratica non è nel senso che già prima di Socrate non era proprio così, ma l’idea che un elemento non sia distinguibile dal tutto in cui è preso avviene quando il linguaggio non dice più le parole “Essere” e “niente” in quanto tali cioè l’Essere come un tutto e il niente come ciò che non è quel tutto ma parla del senso dell’essere, cioè parlando del senso inserisce il segno, inserisce cioè un rinvio mentre prima l’Essere è quello che è, un po’ heideggerianamente cioè si manifesta per quello che è senza, chiedersi, lo diceva prima citando le parole di Heidegger, il senso, dopo si è incominciato a chiedere il senso delle cose e da quel momento incomincia il nichilismo dell’occidente perché inizia lo spostamento, con Platone che si è chiesto il perché delle cose, qui Severino precisa il fatto che cioè che le parole non sono più Essere e niente ma il senso dell’essere e il senso del niente). Il mortale è la volontà che l’ente sia niente ma il linguaggio pre metafisico del mortale, la lingua della preistoria dell’Occidente non parla della “nientità” dell’ente ma soltanto della sicurezza della terra e delle cose sicure (come dire, questo è un po’ una mitologia, non è che sia esistito, la questione è che questa lingua non parla della nientità del niente facendo del niente qualcosa, quindi sta parlando della metafisica, ma parla della sicurezza della terra e delle cose sicure: l’Essere in quanto Essere ma il niente non c’è, il niente è nulla, quindi non si parla, secondo il detto di Parmenide “del non essere non devi occuparti perché lungo questa via non vai da nessuna parte” perché se non è Essere non è, e chiuso il discorso, però è intervenuto il pensiero intorno al senso dell’Essere e del niente, parlando del senso del niente si dà al “niente” una sua enticità, cioè lo si fa essere, quindi il niente è essere, l’essere è niente, così è creata la metafisica. Bene, ci fermiamo qui questa sera.