14 settembre 2022
I presocratici di Diels-Kranz
Zenone di G. Colli
Questa sera proseguiamo con Zenone di Elea e riprendiamo dal punto in cui abbiamo lasciato la volta scorsa. Integriamo la questione di Zenone sempre con questo testo di G. Colli. Rileggo a pag. 101 ciò che abbiamo letto la volta scorsa. Può darsi invece che Zenone non voglia contestare la possibilità del movimento reale sensibile (da cui deriverebbe la condanna dei sensi), ma che il movimento sia per lui ben reale, e che lo scopo di queste aporie sia la constatazione dell’incapacità della ragione umana di spiegare razionalmente quello che i sensi ci offrono. Questo era l’obiettivo di Zenone. Non è che volesse negare il movimento, lo vedeva anche lui, però diceva che ciò che offrono i sensi non è calcolabile, non è matematizzabile, non è ciò di cui la ragione può rendere conto: lo vedo ma la mia ragione non può renderne conto. Passiamo ora a una nota che ho trovato interessante. A pag. 167. Nota 96. Su questa particolare interpretazione dell’“aiuto” a Parmenide da parte di Zenone, già adombrata in PParm 33-35, e che divenne in seguito una tesi centrale di Colli, si veda il corso su Parmenide, lezione del 22 aprile 1967, RE (156) e (200): 7.10.65 … Parmenide ha rotto il caleidoscopio del pensiero umano e ne ha estrattole pietruzze e i vetri colorati. Li ha chiamati “ciò che è” e con questo nome ha voluto arrestare ieraticamente tutti i moti. L’astratto è fermo, ma carico di energia compressa, è un vincolo che tiene unite tutte le cose, è il dominio del grande legislatore della natura … Ma per raggiungere l’astrazione si devono collegare i pensieri in un tessuto che non ha fine, e che alla fine irretisce colui stesso che l’ha filato … Zenone segue questi fili, senza stanchezza, li annoda e li taglia, sa di avere in mano lo strumento del dominio, ma si accorge del suo trasecolare, del suo farsi duro e tagliente, ostile e terribile, infine distruttore e devastatore, che nello sviluppare in estensione quel sorriso fermo dell’intuizione parmenidea diventa un ghigno di sopraffazione che annienta le illusioni della plastica armonia dell’uomo … Una volta scatenata la ragione del divieto e Zenone trasgredendolo, in realtà tende a imporlo, a farlo rispettare. Zenone, per difendere il maestro, le distrugge tutte proprio perché il maestro non ha nessuna costruzione razionale”; ma soprattutto FE 190-192: “Parmenide ha percorso le strade della negazione, ma vuole escluderne gli uomini, con parola misurata e imperiosa. Eppure il giovane discepolo, Zenone di Elea, disobbedisce, rompe il divieto. Quello che appare come trasgressione dev’essere tuttavia interpretato come accordo in profondità: che il suo slancio tendesse soprattutto nella direzione e in sostegno del maestro, si può dire con certezza, anche se in un senso più sottile di quanto non ci faccia apparire Platone, che per primo parlò di un suo “aiuto” a Parmenide. Difatti qual è il comportamento di Zenone? … Poiché ciò che la dialettica annienta non è solo la fiducia nella ragione di essere costruttiva e di poter incidere in modo creativo nella compagine dell’espressione, ma altresì, retrospettivamente, la realtà stessa delle espressioni primarie, cioè dell’esperienza sensibile, che viene svuotata di ogni valore indipendente e mostrata come pura apparenza. È questa la catastrofe che mostra Zenone. Comunque, distrutta completamente la rappresentazione, rimane “inviolabile”, l’immediato: questo è l’aiuto di Zenone”. Il fatto che in FE venga messa in evidenza la disobbedienza di Zenone nei rispetti della via del non-essere (e non piuttosto l’assonanza di Zenone con Parmenide nel considerare l’“essere” un nome) vuol dire in fondo la stessa cosa: la via del non-essere, come quella dell’essere, è categoriale, e come tale – e non in senso metafisico – viene sviluppata da Zenone. /…/ In questo modo la dialettica cessò di essere una tecnica agonistica per diventare una teoria generale del logos … Zenone dunque ha disobbedito al maestro, ha trasgredito il suo divieto di percorrere la strada del “non è”: eppure la sua elaborazione teoretica, considerata secondo una prospettiva più profonda, è ugualmente un “soccorso” per la visione di Parmenide”. Qui, però, ci sarebbe da dire che la vera catastrofe, che descrive Colli, non è tanto il fatto di avere accolto il non-essere, ma di avere posto il non-essere nell’essere. Il non-essere, se lo lasciamo da parte, non crea grossi problemi, li crea nel momento in cui questo non-essere diventa la condizione dell’essere e l’essere la condizione del non-essere, e non può darsi l’uno senza l’altro. Tutto questo, naturalmente, pone delle questioni di straordinario interesse, perché si tratta di cogliere che le argomentazioni di Zenone sono in fondo le argomentazioni che da tempo andiamo formulando. Ma qui compare un’altra questione, forse anche peggio di quelle di Zenone. Tutte queste considerazioni, che fa Zenone, che facciamo noi, che hanno fatto Platone, Colli, tutti quanti, sono argomentazioni che a un certo punto concludono una certa cosa, seguendo e mai distogliendosi da una necessità logica. Con necessità logica qui possiamo intendere, come, sì, certo, è sempre stata intesa, e cioè come l’agire dei cosiddetti principi aristotelici: identità, non contraddizione e terzo escluso. Ma la questione è che ogni volta che si intende determinare qualcosa – e per affermare devo determinare –, questa determinazione comporta una esclusione, cioè, colgo una cosa ma escludo delle altre. Quindi, questa necessità logica è quella che consente di affermare qualcosa. Qui diventa complicata la questione, perché, certo, il principio di non contraddizione non può essere dimostrato, perché per dimostrarlo abbiamo bisogno di lui. È vero, però, potremmo invece farlo, nel senso che quando affermo qualcosa pongo qualche cosa, il dire pone qualcosa. Ma cosa pone? Ciò che il dire dice e, ponendolo, lo fa esistere. Quindi, la cosa che a noi interessa è il fatto che nel dire io pongo qualche cosa che non posso negare di porre. Questo è il principio di non contraddizione nella sua forma più radicale: non posso negare di dire mentre sto dicendo. Perché non posso negarlo? Perché per negare che sto dicendo devo dirlo, devo dire e, quindi, sto dicendo. Mi trovo, quindi, preso in una sorta di impasse. È una cosa che abbiamo detto anche altre volte, però, adesso in modo più preciso: non posso negare che sto dicendo, perché se nego che sto dicendo, negando dico, quindi, sto dicendo. È da questo che non c’è uscita, è un altro modo per dire che non c’è uscita dal linguaggio. Tutto il lavoro di Zenone va anche in questa direzione, nel senso che le sue argomentazioni puntano a mostrare che non è possibile eludere né l’esperienza né la ragione che la nega. Certo, lui non ha avuto il modo di coglierla, ma colse molto bene Eraclito la simultaneità dell’esperienza e della sua impossibilità. Hegel, invece, ha posta la questione nei termini giusti. Forse, vi ricordate i tre momenti, di cui parla nella Scienza della logica: il primo momento è l’intelletto, l’astratto; il secondo momento è il momento dialettico; il terzo momento, il momento speculativo. Questi tre momenti costituiscono tutti assieme la ragione. Il momento intellettivo è quello della percezione, è l’esperienza, è ciò che vedo, è il fenomeno così come lo vedo; solo che nel vederlo c’è la sua negazione, perché ciò che vedo è pur qualche cosa, quindi, è già un’altra cosa, quindi, la sua negazione. C’è, poi, il momento speculativo, l’Aufhebung, l’integrazione dei due momenti. Possiamo, quindi, leggere l’argomentazione di Zenone in questo modo, e cioè come il mostrare a un tempo che l’esperienza – che Zenone non nega, non può negarla, è ciò da cui parte, è la chiacchiera – e la ragione sono indissolubili, non sono due momenti separati. E si può andare ancora oltre: ciò che io vedo con l’esperienza, il fenomeno, ciò che mi appare, mi appare proprio perché è già presente simultaneamente la sua negazione, tant’è che, come sappiamo bene, il fenomeno, l’immagine, l’εἶδος, appare in quanto non è tutte le altre immagini; quindi, appare insieme al negativo. Aggiunge Hegel: questi due momenti sono momenti dello stesso, non sono separabili in nessun modo. In Zenone sembra – dico sembra perché la cosa potrebbe essere controversa – che ancora possa darsi l’idea che i due momenti, l’esperienza e la ragione, siano separati. No, la tragicità del pensiero di Zenone consiste proprio in questo, nel fatto che non sono separabili. Quindi, non nega affatto l’esperienza, solo che dice che l’esperienza non va senza la sua negazione, e la sua negazione è la ragione. Questo per Zenone; per Hegel è il momento dialettico: questi due momenti, l’astratto e il dialettico, sono simultanei, per cui quando io ho esperienza c’è già la sua negazione, non devo aspettare di pensarci su bene, non è così, posso vedere questa cosa, posso avere esperienza, perché l’esperienza è già negata. Questo è il modo forse più interessante di leggere Zenone. A pag. 103. “…l’argomento di Zenone assume come base qualcosa che è un errore, cioè suppone che in un tempo finito non si possano percorrere o toccare successivamente una per una infinite posizioni nello spazio. Qui sta parlando di Achille e la tartaruga e questa è una critica che rivolgeva ad Aristotele, che gli dava sempre contro. Infatti sia la lunghezza che il tempo e in generale ogni continuo vengono detti infiniti in due accezioni (infinito potenziale e attuale), infiniti per la divisione, cioè, o per gli estremi. Degli infiniti secondo la quantità non è certo possibile toccare i vari punti in un tempo finito, ma degli infiniti secondo la divisione è invece possibile, perché anche il tempo è infinito allo stesso modo. Così che in un tempo infinito e non in uno finito ci si trova a percorrere l’infinito e a toccare posizioni infinite nello spazio in momenti temporali infiniti e non in momenti finiti”. Naturalmente, questa non è un’obiezione, non sposta nulla rispetto a Zenone. Dice che gli spazi sono infiniti ma che anche il tempo è infinito, quindi, corrispondono e, pertanto, c’è la possibilità di toccare i vari punti. Sì, ma quando? Come faccio a toccare tutti gli infiniti? In realtà, Aristotele non risolve assolutamente nulla dei problemi sollevati da Zenone, anche se ci prova, naturalmente. A pag. 104. Dice giustamente che La confutazione di Aristotele non ci persuade troppo: in effetti lo spostamento del problema operato da Aristotele richiede un’altra dimostrazione, come cioè in un tempo infinito si possa realmente percorrere uno spazio infinito… In effetti, come fa? È il problema che abbiamo sollevato anche a Severino, rispetto agli astratti e al concreto: quando tutti gli astratti parteciperanno del concreto, allora il concreto sarà il tutto. Quando? A pag. 106. Un altro passo aristotelico che si ricollega alla dicotomia (Arist. Phys. 263 a 4-11) è citato parzialmente da Pasquinelli, e non è considerato né da Diels né da Untersteiner: “Allo stesso modo bisogna rispondere a coloro che seguono nella discussione l’argomento di Zenone affermando che per percorrere un certo tratto bisogna sempre percorrerne la metà, ma le metà di un tratto sono infinite ed è impossibile attraversare un numero infinito di tratti – oppure, come altri argomentano seguendo lo stesso ragionamento, affermando che, mentre si muove, il mobile ad ogni metà che raggiunge deve contare prima la metà di ogni metà, cosicché, percorso ‘intero tratto, si trova ad aver contato un numero infinito, il che non si può ammettere”. Non c’è modo di uscire dalle argomentazioni di Zenone, soprattutto se le intendiamo come il rilevare che l’esperienza e quella che Zenone chiamava ragione sono simultanei e ciascuno è la negazione dell’altro. Sono in un rapporto dialettico, come direbbe Hegel: c’è l’astratto, il momento intellettivo, la percezione, l’εἶδος, l’immagine della cosa così come mi appare; sì, ma la cosa che appare è già negata da tutto ciò che non è, non posso isolarla in nessun modo. Se, per assurdo, la isolassi, allora l’immagine non sarebbe più percepibile, non ci sarebbe neanche l’esperienza, perché l’immagine non sarebbe distinguibile da tutto il resto che quell’immagine non è. A pag. 111. Se la distanza tra Achille e la tartaruga è limitata riguardo agli estremi, allora Achille raggiunge la tartaruga. È un appello all’esperienza e null’altro, l’esperienza dei sensi mostra che il più veloce raggiunge il più lento: lo notiamo perché in questo contesto un tale appello è un elemento nuovo rispetto alla “soluzione” cui Aristotele si era riferito poche parole prima. Anche nel molto più approfondito ripensamento in Fisica VIII, 263 a 4, in definitiva si concludeva con un appello all’esperienza: alla fine si riconosce che razionalmente non può esserci movimento, ma rispetto all’essere empirico “accade” che qualcosa si compia. Cioè, razionalmente non riesco a matematizzare la cosa; con l’esperienza lo vedo, vedo che la sorpassa, e bell’e fatto. Però, se noi la poniamo in questi termini, allora anche l’esperienza non c’è senza la sua negazione. Questo era l’aspetto “tragico” del pensiero di Zenone: l’esperienza, il vedere che Achille sorpassa la tartaruga, non ci sarebbe senza la ragione, cioè, senza la sua negazione, perché senza questa negazione, questa immagine, ciò che io vedo, ciò che mi appare, non sarebbe mai esistito, perché per vedere l’immagine occorre che questa immagine si stagli rispetto a tutto ciò che questa immagine non è; quindi, è necessario tutto ciò che questa immagine non è perché quell’immagine sia. A pag. 116. Ancora Simplicio sullo stesso tema: “L’argomento di Zenone, partendo dalla premessa che tutto ciò che occupa uno spazio uguale a se stesso o è in moto o è in quiete, che niente si muove nell’istante e che il mobile occupa sempre in ciascun istante uno spazio uguale a se stesso, sembra snodarsi in questo modo: la freccia in moto ad ogni istante occupa uno spazio uguale a se stessa, e così per tutto il tempo del suo moto. Ma ciò che in un istante occupa uno spazio uguale a se stesso non si muove, perché niente si muove nell’istante. Quindi la freccia in moto, finché è in moto, non si muove per tutto il tempo del suo moto”. È una variante in fondo di Achille e la tartaruga, perché anche qui l’esperienza ci dice che la freccia si muove. Sì, certo, ma questa esperienza, di nuovo, non si darebbe se non ci fosse il suo negativo, cioè, se ciò che vedo, l’immagine della freccia che si muove, l’εἶδος, questo uno, perché l’εἶδος è uno, è l’immagine che io ho, che è uno, è quella; ma sappiamo che l’uno non c’è senza i molti. Lo diceva già Eraclito, ἒν πάντα εἰναι, l’uno è tutte le cose, senza tutte le cose non c’è neanche l’uno, e viceversa. A pag. 120. L’aporia di Zenone contro l’indivisibile spaziale, come abbiamo visto, non è stata confutata. È ora possibile notare che la critica di Aristotele non è decisiva neppure contro l’aporia della freccia. Zenone non dice che il tempo è composto di parti ciascuna delle quali è un presente: qui l’essenza del tempo è il presente, il tempo è visto soggettivamente, in un senso genericamente kantiano che richiama la teoria del tempo di Schopenhauer: il tempo è una forma soggettiva della conoscenza; futuro e passato esistono solo nel presente, che è immediatamente reale; sono conosciuti solo mediatamente. Il presente è indivisibile, immutabile: con una tale concezione Zenone ha veramente annientato il moto; non vi sarebbe solo più l’impossibilità di raggiungere la fine, non esisterebbe proprio più movimento. Qui si potrebbe fare una considerazione, e cioè dice futuro e passato esistono solo nel presente. Può darsi, e il presente come lo colgo? È un’idea al pari del passato e del futuro. È un po’ come il pensiero pensante di Gentile: nel momento in cui lo penso è pensiero pensato. Il presente, nel momento in cui lo penso come presente, è già passato. Quindi, propriamente non c’è né presente né passato né futuro. Sono idee, mentre qui sembra che il presente costituisca qualcosa di concreto, di reale. E, invece, no, anche il presente è una fantasia, è un’idea, al pari del passato e del futuro. Questi tre momenti, passato, presente e futuro, come agiscono? Come posso parlare del presente se non perché penso anche a un passato e a un futuro? Il presente lo colgo in quanto, fantasmaticamente, escludo sia il passato sia il futuro. E così il futuro, come lo colgo se non escludendo che sia presente e che sia passato? Come dire che il tempo non è altro che la simultaneità di questi tre momenti, perché se ne tolgo uno tolgo anche gli altri due. Capite, quindi, l’importanza del concetto di simultaneità, che è un concetto che va oltre l’idea che se ne ha. Simul vuol dire insieme, quindi, le cose che accadono insieme. Certo, ma non basta, a noi serve qualche cosa di più di ciò che ci dice l’etimo. È una simultaneità tale per cui se cade un elemento cadono anche gli altri, quindi, il tempo è la simultaneità dei tre momenti, di cui tradizionalmente è composto: passato, presente e futuro. Non posso isolarne uno, neanche il presente posso isolare, lo posso isolare solo come passato, esattamente come dice Gentile rispetto al pensiero: il pensiero pensante, nel momento in cui lo penso, non è più pensante, è pensiero pensato da un altro pensiero pensante che lo sta pensando. Quindi, il tempo a questo punto acquista una sua dignità. Come diceva Agostino: fino a che nessuno mi chiede che cos’è il tempo, io lo so; quando qualcuno me lo chiede non lo so più. Non è che non lo sa quando qualcuno glielo chiede, non lo sapeva neanche prima, credeva di saperlo. È sempre un credere di sapere. Ricordate la parola che usava Platone: δοξάξειν, il credere di sapere, ma in realtà non si sa niente. Invece, a questo punto, se qualcuno dovesse chiederci che cos’è il tempo, possiamo anche rispondergli: il tempo è la simultaneità di questi tre momenti, che sono fantasmatici, non esistono in natura, non sono enti di natura. Il tempo non è un ente di natura, è un ente di ragione, è una costruzione. In questo modo possiamo cogliere qualcosa di più interessante rispetto al tempo, e cioè la simultaneità necessaria dei tre momenti per potere parlare del tempo, dove ciascuno dei tre momenti è necessario per gli altri due: non posso togliere il presente, perché non ci sarebbe più il passato, sarebbe il passato rispetto a che? È sempre un’idea, ma occorre che ci sia questa idea del presente. Poi, in che cosa consista questa idea del presente, questo è un altro discorso. A pag. 120. Guardiamo come i matematici indicano il moto: attraverso coordinate spazio-tempo, cioè soltanto attraverso successive posizioni fisse. In altre parole, la meccanica può spiegare il movimento solo attraverso l’immobilità. Nel cinematografo l’occhio ha la sensazione del movimento, ma questa sensazione è raggiunta solo grazie alla successiva sovrapposizione di immagini ferme. Ecco che le aporie di Zenone sono inconfutabili; proprio questo vogliono dimostrare: che la sensibilità può apprendere il movimento, ma solo attraverso elementi statici, e la ragione non se lo spiega. Intanto, qui c’è tutta l’argomentazione di Severino. Ogni singolo essente è eterno, ed è eterno esattamente come il fotogramma di una pellicola cinematografica. Ciò che l’occhio vede è il movimento. Questo esempio che fa lui è per dire che lui vede il movimento, sì, ma crede di vedere il movimento, perché in realtà si tratta di immagini fisse, di fotogrammi. Ma noi siamo andati oltre, e cioè questo movimento che io vedo, anche nel cinematografo, è tale perché c’è il suo negativo, perché ogni singola immagine ha il suo negativo, ogni singola immagine, potremmo dire, è infinita. Questo posacenere è quello, ed è quello perché lo vedo, è un’immagine, è uno, distinto da tutto il resto, quindi, è determinato. Sì, certo, ma se io lo voglio determinare, se lo voglio definire, mi trovo di fronte all’impossibilità di farlo; quindi, quel posacenere è uno, certo, perché lo vedo, è quello, ma al tempo stesso per poterlo determinare, per potere dire che è uno, è necessario che ci siano i molti, che ci sia il significato. A pag. 138. È un passo tratto da Diogene Laerzio. “inoltre Senofane, Zenone di Elea e Democrito, secondo costoro sono scettici … Zenone nega il movimento dicendo: “ciò che si muove non si muove né nel luogo dov’è, né in quello che non è”… È un argomento di tipo forte. Nello spazio in cui è non si può muovere, lo occupa e basta. Nello spazio in cui non è non si può muovere, non c’è e basta. Quindi non si muove per niente. L’argomento è affine a quello della freccia, ma nella freccia si prendeva sotto esame il concetto di tempo, che qui non c’entra. In virtù di questa affinità, alcuni studiosi cui sembrava difficile l’esistenza di un altro argomento di Zenone contro il moto, quado Aristotele afferma espressamente che “quattro sono i logoi di Zenone intorno al problema del movimento…” hanno sostenuto che si tratta di uno stesso argomento. Ma la freccia era fondata sul concetto di presente e questo sullo spazio: sono due argomenti distinti. Sì, certo, sono argomenti distinti, ma che muovono dalle stesse considerazioni, e cioè dall’incommensurabilità tra esperienza e ragione o, come possiamo dire adesso, dalla impossibilità determinata dalla simultaneità di esperienza e ragione. Ragione da intendersi qui in accezione zenoniana e non hegeliana. Nell’accezione hegeliana la ragione è la simultaneità dei due momenti (l’astratto e il suo opposto, il momento dialettico,) e della loro relazione (il momento speculativo): la ragione è tutto ciò. A pag. 148. Il logos che si ricostruisce da 29B1 e B2 DK, e presumibilmente tutti i logoi contro la molteplicità. Teniamo sempre conto che il problema centrale in tutto ciò è sempre il problema dell’uno e dei molti: l’uno, l’immagine che vedo, i molti sono la ragione che cerca di determinarlo. La dimostrazione è per assurdo, ma ottenuta attraverso la contraddizione: c’è un’implicita cosciente conoscenza del principio di non contraddizione. È un altro punto basilare che mette Zenone molto in alto nella storia della logica. È notevole anche un altro elemento formale: l’intervento del medio – per dirla in termini sillogistici aristotelici – cioè di quel concetto su cui si fa leva per la dimostrazione. Tutti gli animali sono mortali, Socrate è un animale, Socrate è mortale. “Socrate è un animale” è il medio, è ciò su cui si fa leva per la dimostrazione. Non che Zenone conosca la sillogistica, in virtù di un eccezionale istinto al rigore dimostrativo, in un certo senso se ne serve prima che Aristotele la formuli coerentemente. La scoperta del principio di contraddizione va attribuita a Zenone e non ad Aristotele, come generalmente si ammette: l’attribuzione di coppie di contraddittori a uno stesso soggetto è tutta la dimostrazione di Zenone. Per avere una completa dimostrazione per assurdo manca solo un anello: la conclusione. I predicati contraddittori provano che l’ipotesi non era vera: la conclusione non la troviamo esplicitamente in Zenone. Ma, da un punto di vista di logica formale, dire che i molti non esistono e dire che esiste solo l’uno è la stessa cosa. Se io nego l’esistenza dei molti, allora accolgo l’esistenza dell’uno, anche se non lo dico esplicitamente. È una questione interessante quella della logica formale, della logica aristotelica. Ciò che prima indicavo come necessità logica: tutte le argomentazioni sono costruite sulla necessità logica, la conclusione è il risultato di una necessità logica, cioè, è il risultato di una esclusione di altri elementi. Se ci pensate bene, non è molto diverso dall’immagine: ogni immagine, in quanto uno, εἶδος, è la conclusione dell’esclusione di tutte le altre immagini. Esattamente come nella logica formale: se io affermo che A è B escludo che A possa essere C, D e tutto il resto del mondo; quindi, per affermare che è quella cosa devo escludere tutto il resto – quello che chiameranno molto tempo dopo il complemento booleano –, cioè, devo escludere tutto ciò che quella A non è per dire che è quella cosa lì. Il discorso di Zenone è esattamente questo. Lui ha costruito un principio di non contraddizione a partire da ciò stesso che lui rileva, e cioè che per cogliere qualche cosa, questa immagine deve escludere tutte le altre; quindi, deve escludere il suo negativo, ma che è necessario che ci sia perché esista l’immagine, perché se da quell’immagine tolgo tutte le altre immagini del mondo, questa non è più un’immagine, è niente. Così per il significante: togliete tutti gli altri significanti e questo significate rimane lì da solo e pertanto che cos’è? È niente, non è neanche un rumore, è nulla.
Intervento: Deve esserci una relazione differenziale….
Esatto, quindi, devono esserci tutti gli altri significanti, simultaneamente, cioè, per dirla in termini più spicci, deve essere presente il linguaggio. È il linguaggio l’intero, il tutto, che è qui adesso, e che è la condizione per l’esistenza di ogni astratto; e non come voleva Severino, per il quale il tutto, l’intero, ci sarà nel momento in cui tutti gli astratti parteciperanno dell’intero. È un po’ come l’argomento di Aristotele: gli spazi sono infiniti, anche il tempo è infinito, quindi, c’è una corrispondenza e, quindi,… Quindi, niente! Che razza di argomentazione è? Rimane infinito. Aristotele pensava in questo modo di potere dominare la cosa: tutti gli spazi sono infiniti, però anche il tempo è infinito, faccio corrispondere uno a uno… È quasi come se li contassi, ma non significa assolutamente niente. E con questo possiamo dire di avere concluso con Zenone. Ciò che ci rimane qui adesso è Melisso. È un altro eleate, dopo Parmenide e Zenone c’è Melisso. Melisso, figlio di Itagene, fu nativo di Samo. Fu discepolo di Parmenide (ma intrattenne rapporti anche con Eraclito e fu al tempo di questi rapporti che Melisso fece conoscere Eraclito agli Efesini che lo ignoravano, così come fece Ippocrate per Democrito con gli Abderiti). Fu anche uomo politico, e fu tenuto in grande stima presso i suoi concittadini. Per questo motivo fu scelto come navarca, e suscitò ammirazione ancora più grande per il suo valore. A pag. 535. Dice Melisso che, se qualcosa esiste, è eterno.... Qui c’è Severino. …dal momento che non è possibile che nulla nasca da nulla. Infatti, sia il caso che tutte le cose siano nate, sia il caso che non tutte siano nate, sono, l’uno e l’altro, impossibili; infatti, le cose, nascendo, dovrebbero nascere dal nulla. In effetti, se nascessero tutte, nulla esisterebbe prima di esse; e se, mentre alcune cose esistono da sempre, se altre se ne aggiungessero, l’essere diventerebbe più numeroso e più grande; ma ciò per cui diventerebbe più numeroso e più grande, questo dovrebbe venire dal nulla, perché nel meno non è contenuto il più, così come nel minore non è contenuto il maggiore. Essendo, poi, eterno, è infinito, in quanto non ha un principio da cui deriva, né un termine a cui, divenendo, sia mai terminato: infatti esso è tutto. Queste sono poi le tesi di Parmenide e Zenone, non è che sia andato molto oltre loro, ha solo cercato di esasperare un po’ le cose. A pag. 541. Qui è Aristotele che parla. Anche Democrito dice che l’acqua e l’aria e ciascuna delle molteplici cose, pur essendo una medesima realtà, differiscono per la forma. Che cosa vieta, allora, che i molti nascano e periscano in questo modo, trasformandosi l’Uno con un processo che va dall’essere sempre nell’essere, ad opera delle differenze su menzionate, e senza che il tutto diventi maggiore né minore? Inoltre, che cosa mai vieta che i corpi, ad un certo momento, nascano da altre cose e che, poi, si dissolvano in altri corpi, e che, in questo modo, poi, sempre risolvendosi secondo gli stessi processi, nascano e periscano di nuovo? In effetti, non è una vera e propria controargomentazione, mette semplicemente in dubbio la necessità delle premesse, ma non è una controargomentazione. A pag. 553. Fr. 1. Anche Melisso dimostrò che l’essere è ingenerato avvalendosi di questo principio comune. Infatti egli scrive: “Sempre era ciò che era e sempre sarà. Se, infatti, fosse generato, sarebbe necessario che, prima che fosse generato, non fosse nulla; e se prima non era nulla, per nessuna ragione si sarebbe potuto generare dal nulla”. Fr. 2. “E poiché, dunque, non si è generato, è e sempre era e sempre sarà, non ha neppure principio né fine, ma è infinito. Infatti, se si fosse generato, avrebbe un principio (avrebbe infatti cominciato a generarsi a un certo momento) e una fine (avrebbe infatti finito di generarsi a un certo momento); ma, poiché non ha cominciato e non ha terminato, era e sempre sarà, non ha principio né fine. Non è infatti possibile che sia sempre ciò che non è tutto”. A pag. 559. Fr. 8. Melisso, infatti, dopo aver detto dell’essere che è uno, ingenerato, immobile, che non è distinto da alcun vuoto, ma che è tutto pieno di sé medesimo, soggiunge: “Questo argomento costituisce la massima prova che solo l’uno esiste. Ma vi sono altresì le prove seguenti. Se, infatti, esistessero i molti, questi dovrebbero essere tali quale io dico che è l’uno. Se, infatti, esistessero e l’acqua e l’aria e il fuoco e il ferro e l’oro e da un canto ciò che è vivo e dall’altro ciò che è morto e ciò che è nero e ciò che è bianco e tutte le altre cose che gli uomini dicono essere vere: se, dunque, tutte queste cose esistono, e noi vediamo e udiamo in modo retto, bisogna che ciascuna di queste cose sia tale e quale la prima volta a noi parve e che non si trasformi né diventi diversa, ma che ciascuna sia sempre quale è. D’altra parte ci sembra che il caldo diventi freddo e che il freddo diventi caldo, il duro diventi molle e il molle diventi duro, che il vivo muoia e che il vivo si generi dal non-vivo, e che tutte queste cose si alterino e che ciò che era non sia uguale a ciò che è ora, e che il ferro – pur essendo duro – si logori stando a contatto con il dito, e così anche l’oro e la pietra e tutto quanto sembra essere forte, e che terra e pietra si generino dall’acqua. Per conseguenza risulta che noi né vediamo né conosciamo cose che sono. Queste cose, dunque, non si accordano fra loro. E se anche noi affermiamo che gli esseri siano molti, dotati di eterne forme e di forza, ci sembra, poi, che tutti mutino e diventino diversi da come ogni volta li vedemmo. È dunque evidente che noi non vedevamo in modo retto, e che quelle molte cose ci sembrano essere in modo non retto. Infatti, se fossero veramente, non muterebbero, ma ciascuna dovrebbe essere tale e quale ci sembrava che fosse. Infatti, nulla è più forte di ciò che è veramente. Ma se si fosse mutato, allora l’essere sarebbe perito e sarebbe nato il non-essere. Così, dunque, se ci fossero i molti, dovrebbero essere tali quale è l’uno”. Tutti questi molti appaiono, noi li vediamo, ma questi molti mutano e, se mutano, di fatto cosa vediamo? Non li vediamo più, ci scompaiono davanti. È un po’ il principio eracliteo del fiume che scorre, che è sempre differente da sé, quindi, non lo colgo mai. Quindi, se c’è qualche cosa che deve rimanere quello che è, questo è l’uno, che è immutabile, ché è attraverso questo che noi possiamo pensare anche il mutevole. Ma il mutevole è un inganno.