INDIETRO

 

14-9-2016

Sentieri interrotti (1950)

 

Il Mondo è l’autoaprentesi apertura delle ampie vie delle opzioni semplici e decisive nel destino di un popolo storico. (pag.33). Il Mondo è tutto ciò che riguarda il popolo storico, nel senso che un popolo non è preso separatamente da tutto ciò che lo ha portato a essere quello che è ma il popolo è quello che è in base a tutto il percorso che ha fatto storicamente e quel popolo è tutta quella storia, non che ha avuto quella storia, è quella storia. Invece, dice, La Terra è la non costretta apparizione del costantemente autochiudentesi, cioè del coprente-custodente. Detta così sembra una cosa astrusa ma in realtà sta semplicemente dicendo che la Terra è ciò che custodisce, la Terra, cioè l’ente, ciò che è immanente, dice che è autochiudente, nel senso che ciò che è immanente si chiude finché non è illuminato dall’essere, dal significato. Dice del coprente-custodente: la Terra è il coprente-custodente, copre l’essere ma al tempo stesso lo custodisce, lo copre nel senso che l’ente non è l’essere ma al tempo stesso lo custodisce perché è ciò che viene aperto dall’Essere. Questo movimento di chiusura e apertura non è altro che il rinvio costante di cui parla de Saussure a proposito di significante e significato, l’uno rinvia all’altro, quell’altro rinvia all’uno in sorta di impossibilità di arresto di questi rinvii. Mondo e Terra sono essenzialmente diversi l’un dall’altro e tuttavia mai separati (pag.34). Sembra appunto che parli del significante e del significato, sono diversi, non sono la stessa cosa, ma al tempo stesso non sono mai separati, non può darsi un significante senza un significato e viceversa. Il Mondo si fonda sulla Terra e la Terra sorge attraverso il Mondo. Ma la relazione fra Mondo e Terra non si esaurisce affatto nella vuota unità contrappositoria di elementi indifferenti. Riposando sulla Terra il Mondo aspira a dominarla. In quanto aprentesi, esso non sopporta nulla di chiuso. L’essere che illumina, ovviamente. Invece la Terra, in quanto coprente-custodente, tende ad assorbire e a risolvere in sé il Mondo. Per Heidegger l’essere illumina, quindi fa apparire, ma questo qualcosa che appare, cioè l’ente, tende ad assorbire e a risolvere in sé il Mondo, cioè fa sì che questo Mondo si fissi in ciò che l’ente è in questo momento, qui e adesso. Infatti, parla di lotta tra Mondo e Terra, ecc. Per “verità” s’intende per lo più questa o quella verità. Il che significa: qualcosa di vero. Può allora trattarsi anche di una conoscenza espressa in una proposizione. Però non diciamo vera soltanto la proposizione, ma anche la cosa…(pag.35) Questo è l’inganno, e cioè quando si afferma qualcosa che si ritiene vero questo qualcosa che si afferma non riguarda soltanto la proposizione ma la cosa che si immagina la proposizione indichi. Che significa “in verità”? La verità è l’essenza del vero. Che intendiamo parlando di essenza? Solitamente l’essenza del vero viene intesa come qualcosa di comune a ogni vero. L’essenza è ciò che permane in ciascun mutamento degli enti. L’essenza si presenta come concetto generale e universale che raffigura l’uno e vale per tutti. È l’idea di Platone, είδσς, l’idea di posacenere vale per tutti i posacenere del mondo. Questa essenza indifferente (l’essenza come essentia) è però l’essenza inessenziale. In che consiste invece l’essenza essenziale di qualcosa? Dice che questa essenza, che riguarda tutte le cose, l’idea di posacenere vale per tutti i posaceneri, però non essenziale, nel senso che non mi dice nulla dei vari posacenere in concreto. Probabilmente essa consiste in ciò che l’essente è (ist) in verità. La vera essenza di una cosa si determina in base al suo vero essere, in base alla verità dell’ente concreto. Quindi, dell’ente in concreto, non dell’idea del posacenere. Ma noi non cerchiamo qui la verità dell’essenza, bensì l’essenza della verità. È questo che interessa a Heidegger. Siamo presi dentro uno strano groviglio. Ma questa stranezza è il semplice risultato di un giuoco di parole, o nasconde un abisso? La verità è da pensarsi nel senso dell’essenza del vero. Noi la pensiamo – nel ripensamento della parola greca αλήϑεια – come il non-esser-nascosto dell’ente. Ma ciò costituisce già una determinazione dell’essenza della verità? (pagg. 35-36). Poco dopo. L’essenza della verità come αλήϑεια non venne pensata autenticamente dal pensiero e tanto meno dalla filosofia successiva. Il non-esser-nascosto è per il pensiero ciò che di più nascosto vi fu per l’Esserci (Dasein) greco, ma, egualmente, fin dall’inizio, l’essente-presente (das Anwesende). Dice che è una cosa che non è stata pensata neanche dai Greci, che pure utilizzavano questa parola, tuttavia, pur essendo ciò che è di più nascosto, perché nessuno l’ha pensata, tuttavia, fin dall’inizio è l’essente-presente, è sempre stato lì sotto gli occhi di tutti.  Ma perché non ci atteniamo a quell’essenza della verità che da secoli ci è familiare? Verità significa, oggi e da gran tempo, concordanza del conoscere con la cosa. Come dire che la proposizione che afferma che siamo qui in questo momento è vera perché siamo qui in questo momento, questo è il concetto di verità come aedequatio. Ma affinché il conoscere e la proposizione che dà forma ed espressione alla conoscenza si commisuri alla cosa, affinché, innanzitutto, la cosa possa divenire costrittiva per la proposizione, è necessario che la cosa stessa si manifesti come tale. Questo è un problema, che la cosa stessa si manifesti come tale, già Kant, come abbiamo visto, ci aveva rinunciato. Heidegger dice del concetto di verità come adeguamento, io adeguo la mia parola alla cosa, ma come so che questo adeguamento è corretto? Devo conoscere la cosa, e come la conosco? Sarebbe necessario a che la mia proposizione corrisponda esattamente alla cosa che la cosa si manifesti come tale. Ma come è possibile che ciò avvenga se la cosa non esce fuori dall’esser-nascosto, se non sta nel non-essere-nascosto?, non sta cioè nella verità. La proposizione è vera se sta nel non-essere-nascosto. Il non-essere-nascosto è l’αλήϑεια. La verità della proposizione è sempre e sempre solo questa rettitudine (Rechtigkeit). I cosiddetti concetti critici della verità che, da Cartesio in poi, assumono la verità come certezza, sono solo variazioni della determinazione della verità come rettitudine. Questa essenza abituale della verità come rettitudine della rappresentazione, sta o cade con la verità come non-essere-nascosto dell’ente. Concependo qui e altrove la verità come non-essere-nascosto, non ci rifugiamo nella traduzione letterale di un termine greco, ma intendiamo riferirci proprio a ciò che nella concezione comune e abituale della verità come rettitudine sta alla base come non avvertito e non pensato. (pagg. 36-37). Che cosa è non avvertito e non pensato? Che questa rettitudine di cui si parla dovrebbe essere giustificata, dovrebbe essere provata, stabilita con certezza, ma come se la cosa non si manifesta da sé? È poi quello che il pensiero successivo, la semiotica stessa, Peirce per esempio, hanno rilevato, lo stesso de Saussure, non posso rapportarmi alla cosa perché c’è un medio, perché per rapportarmi alla cosa devo dire la cosa, devo pensarla, cioè, devo dire, quindi c’è un medio tra me e la cosa. Per questo dicevo qualche volta fa, che per dire che cosa è “questo” devo dire necessariamente ciò che “questo” non è, perché io farò delle descrizioni, dirò tutta una serie di cose, parlerò della forma, del peso o della materia di cui è fatto, parlerò di cosa mi ricorda questo aggeggio, posso parlare di tutto quello che voglio, ma tutte queste cose non questa cosa qua. Quindi, per dire che cosa è “questo” devo dire ciò che questo non è. L’ente può essere come ente solo se si immerge ed emerge dal seno dell’illuminato di questa illuminazione (pag. 38). Sta parlando ovviamente dell’essere. Solo questa illuminazione apre e garantisce a noi uomini l’accesso all’ente che noi stessi non siamo… nel senso che ci rivolgiamo a un ente che distinguiamo da noi, anche l’uomo è un ente ma è un altro ente, non è lo stesso, cioè io non sono un posacenere, per esempio. Grazie a questa luce, l’ente è non-nascosto in una misura particolare e mutevole. Lo stesso esser-nascosto dell’ente è possibile solo nel dominio di questo illuminato. Continua a dire che l’ente è nascosto solo a condizione che ci sia del non nascondimento e solo se c’è non nascondimento, cioè l’αλήϑεια, allora l’ente diviene nascosto, nel senso che, nel momento in cui questa illuminazione non accade per qualche motivo ovviamente l’ente è nascosto ma non soltanto, nel momento in cui l’ente viene illuminato dall’essere, l’essere scompare, si sottrae. Infatti, lui parla di questo continuo accadere e non accadere dell’illuminazione: nel momento in cui si illumina l’ente l’essere scompare ma se scompare l’Essere anche l’ente diventa nascosto, esattamente con il significante e il significato, torniamo sempre sulla stessa questione. Che l’ente, in quanto apparenza, possa ingannarci, è la condizione che rende possibile il nostro errore, e non viceversa. Il nascondimento può essere un rifiuto o semplicemente una simulazione. Noi non abbiamo mai la certezza assoluta se si tratta dell’uno o dell’altro. Il nascondimento nasconde e simula se stesso. Il che significa: il luogo aperto nel mezzo dell’ente, l’illuminazione, non è mai uno scenario immobile, a sipario costantemente sollevato, in cui si svolge la rappresentazione dell’ente. L’illuminazione ha invece luogo soltanto nell’ambito di questo duplice nascondimento. Il non-esser-nascosto dell’ente - cioè la verità dell’ente – non è un suo stato abituale, ma un evento (pag. 39). Non è che una volta illuminato l’ente è lì a disposizione di chiunque ne voglia usufruire. E no, lui dice, è un evento, accade, ma scompare, si nasconde di nuovo, subito.  È come se avessi un significante e poi il suo significato, allora attribuisco al significante il suo significato, dopodiché so che cos’è il significante, attribuendogli il significato? No, perché dopo che gli ho attribuito il mio significato al significante, questo significante, direbbe Heidegger, si nasconde, si nasconde dietro altri significati. Conclude la frase, Il non-esser-nascosto (la verità) non è né una qualità della cosa nel senso dell’ente, né una qualità della proposizione (pag. 39). Non è una cosa che possa stabilirsi, è un evento, accade. Potremmo dire così, che il significato illumina il significante rendendolo significante, ma nel momento in cui lo rende significante questo significante non è più un significato, è un’altra cosa. Questo significante, quindi, per continuare a essere quello che è, deve nascondersi, per usare le parole di Heidegger, dietro un altro significato, per il quale sarà la stessa cosa, e così via all’infinito, in questo rinvio continuo tra significante e significato. Che poi è ciò che de Saussure ha colto in modo molto preciso, questa alternanza ininterrotta tra l’uno e l’altro per cui queste due cose, il significante e il significato, non sono mai la stessa cosa, lui ci mette una barra in mezzo, a indicare la assoluta inoltrepassabilità, cioè il significante non sarà mai un significato e questo non sarà mai un significante. Ciò non di meno non può darsi in nessun modo e in nessun caso l’uno senza l’altro. Ora ritorna alla questione dell’opera d’arte, perché fin qui ha parlato della verità, perché a lui interessa in particolare in che modo questa apertura faccia apparire l’opera d’arte, questo è il suo progetto in questo capitolo. Questo aperto si storicizza nel mezzo dell’ente (pag. 40). L’essere illumina l’ente e questo ente viene storicizzato perché l’essere è il tempo ma il tempo storico e quindi storicizza l’ente, rende l’ente per me in questo momento, con tutto quello che significa per me, cioè tutto ciò che io sono stato e che mi ha condotto qui in questo momento di fronte a questo ente. Esso rivela un tratto essenziale di cui abbiamo già parlato. All’Aperto appartengono il Mondo e la Terra. Questa apertura, questa illuminazione, questa apertura aprentesi, ovviamente appartiene sì all’Essere ma anche all’ente, perché l’essere è ciò che rende l’ente un ente, pertanto all’Aperto appartengono tanto il Mondo quanto la Terra. Nel mezzo dell’ente significa proprio la sua essenza. Ma il Mondo non è senz’altro l’Aperto, corrispondente all’illuminazione, e la Terra non è senz’altro il chiuso, corrispondente al nascondimento. Più avanti nella stessa pagina Ma come si storicizza la verità? Rispondiamo: la verità si storicizza in poche maniere essenziali. Una delle maniere in cui la verità appare è l’essere opera dell’opera. Esponendo un Mondo e facendo esser qui la Terra, l’opera è l’attuazione di quella lotta in cui è conquistato il non-esser-nascosto dell’ente nel suo insieme: la verità. Dice che uno dei modi con cui la verità appare è questo: esponendo il Mondo l’opera è la messa in atto di quella lotta tra il significante e il significato in cui si conquista la verità, perché la verità, per Heidegger in questo caso, è questo rapporto tra significante e significato, non sta né da una parte né dall’altra, non sta né nel Mondo né nella Terra, ma sta in questo movimento continuo, in questa dialettica, per dirla hegelianamente. Nella presenza del tempio si storicizza la verità. La presenza del tempio è la presenza di un mondo in cui il tempio è quello che è, un mondo che, per esempio, comprende la grecità, la filosofia, il loro modo di pensare, la loro arte, la loro estetica, tutto ciò che riguarda quel tempio, questo è lo storicizzarsi della verità. Questo lo avevamo già inteso quando Heidegger parla di tempo; in effetti si potrebbe riscrivere il titolo della sua opera fondamentale, Essere e tempo, con Essere “è” tempo. L’Essere è la storicità in cui ciascuno è continuamente gettato, come dicevamo la volta scorsa, non può isolarsi dalla sua storia, dalla sua storicità, che non è ciò che è passato, no, è ciò che è presente qui e adesso e che fa essere quello che è in questo momento. A pag 41 Nell’opera è quindi in opera la verità – verità storica, la verità che è lo storicizzarsi dell’opera, l’opera che diventa segno della storicità che ha reso quell’opera “quell’opera”, quindi di tutto ciò che è intervenuto a far sì che quell’opera sia in questo momento quell’opera che io guardo – e non soltanto qualcosa di vero. Il quadro che mostra le scarpe da contadino, la poesia che dice la fontana romana, non si limitano a far conoscere; anzi, a rigor di termini, non fanno conoscere nulla circa questi enti singoli, ma fanno sì che si storicizzi il non-esser-nascosto come tale, in relazione all’ente nel suo insieme (pag. 41). Si storicizzi, cioè si mostri il non-esser-nascosto, cioè ciò che appare, la verità. È questo il modo in cui viene illuminato l’essere autonascondentesi. Questa è un’altra questione importante. Facciamo l’esempio delle scarpe del contadino. Nel momento in cui queste scarpe si storicizzano, cioè diventano il Mondo del contadino, la scarpa in sé scompare, l’ente scompare. La scarpa disegnata, cioè la Terra, scompare di fronte al Mondo, io guardo quella scarpa ma quella scarpa scompare perché vedo il Mondo in cui quel contadino vive, quel Mondo che mi fa vedere la scarpa. A pag. 42 il capitolo si intitola Verità e arte. L’origine dell’opera d’arte e dell’artista è l’arte. L’origine è la provenienza dell’essenza in cui è-presente l’essere di un ente. Qui dà la sua definizione di origine: è la provenienza di quell’essenza in cui è presente l’essere di un ente, cioè ciò che fa di quell’ente quello che è, è il provenire di quella essenza tale per cui un ente è quello che è. Che cos’è l’arte? Noi ne cerchiamo l’essenza nell’opera reale. La realtà dell’opera fu determinata in base a ciò che nell’opera è in opera, in base allo storicizzarsi della verità. Questo storicizzarsi lo concepiamo come l’attuazione della lotta tra Mondo e Terra. Vale a dire, tra la scarpa, la Terra, e il Mondo che questa scarpa, sottraendosi mostra, e cioè il Mondo del contadino, perché io possa vedere il Mondo del contadino occorre che la scarpa si sottragga altrimenti la mia attenzione è fissata sulla scarpa. Nell’opera è in opera lo storicizzarsi della verità, cioè, questa verità che io colgo nell’opera d’arte, il Mondo in cui abita il contadino, è il modo con cui la verità si storicizza, cioè, la verità di ciò che mi viene incontro diventa storico, vale a dire, include in sé tutto ciò che quel Mondo rappresenta, ha rappresentato e continua a rappresentare, a mostrare. Poco dopo, a pag. 43 Una cosa si fa finalmente chiara: per acutamente che indaghiamo lo stare-in-se-stessa dell’opera, non ne coglieremo mai la realtà fin che non ci renderemo conto della necessità di assumere l’opera come qualcosa di oprato. Nel capoverso successivo Ma l’esser fatta dell’opera è comprensibile solo in base al processo del fare. La cosa stessa ci costringe quindi a esaminare l’attività dell’artista, per rintracciarvi l’origine dell’opera d’arte. Parla poi della distinzione tra il fare qualche cosa e il fare un’opera d’arte, un falegname fa una sedia ma non per questo chiamiamo quella sedia un’opera d’arte, ci vuole qualche altra cosa, e dice In che dunque il produrre come fare dell’artista si distingue dal produrre come fabbricare? Quanto la distinzione verbale è facile, altrettanto difficile è la determinazione dei tratti distintivi essenziali. A prima vista non c’è differenza fra il lavoro dello stovigliaio e quello dello scultore, del falegname e del pittore. La fattura dell’opera d’arte presuppone il fare manuale. I grandi artisti pregiano moltissimo la capacità manuale. … Si è spesso notato come i Greci, che di opere qualcosa capivano, usassero la medesima parola τέχνη per il lavoro manuale e per l’arte e designassero l’artigianato e l’artista con la stessa parola τέχνίτης. Sembra perciò sensato determinare l’essenza del fare artistico in base al suo aspetto manuale. Ma proprio l’allusione alla terminologia dei Greci, esprimente la loro esperienza della cosa, ci rende perplessi. Per abituale ed illuminante che possa essere il rinvio alla comune designazione da parte dei Greci del lavoro manuale e dell’arte con la stessa parola τέχνη, esso rimane tuttavia oscuro e superficiale; τέχνη, infatti, non significa né il lavoro manuale né l’arte, e meno ancora ciò che è tecnico nel senso odierno; τέχνη non ha mai il significato dell’operare pratico. La parola sta invece a designare una modalità del sapere. Sapere significa: aver visto, nel senso più ampio di vedere, e cioè: percezione dell’essente-presente come tale (pagg.43-44). Cioè, ciò che si manifesta, ciò che non è nascosto, l’αλήϑεια. Per il pensiero greco l’essenza del sapere consiste nella αλήϑεια, cioè nel disvelamento dell’ente. Quindi, è la verità che per il greco antico guida verso l’ente, non è l’ente a mostrare in sé la verità ma è la verità che consente all’ente di disvelarsi. La τέχνη come comprensione greca del sapere è un produrre (vollbringen) nella misura in cui trae fuori (vorbringen) dall’esser-nascosto nel non-esser-nascosto del suo apparire l’essente-presente come tale; essa non è affatto un’attività pratica. Cioè, la τέχνη, per il greco antico, dice Heidegger, è ciò che cessa di essere nascosto e si fa presente, è vedere questo, è vedere ciò che cessa di essere nascosto e mi appare. È questa la produzione di cui parla Heidegger, si produce un qualche cosa, cioè esce dal nascosto e mi appare come illuminato, mi appare in luce. L’artista non è quindi un τέχνίτης perché è anche un artigiano, ma perché tanto la produzione artistica quanto la produzione del mezzo avvengono in quel produrre traente-fuori… che trae fuori dal nascondimento  …che, sin dall’inizio, lascia rivelarsi l’ente – in base al suo aspetto – nel suo esser-presente. Tutto ciò ha però luogo in seno all’ente che sorge da sé, la ϕύσις. Ricordate la ϕύσις, è ciò che si produce da sé, ciò che sorge da sé senza opera dell’uomo, e difatti i Greci distinguono tra ϕύσις e τέχνη. La τέχνη è ciò che sorge non da sé ma per opera dell’uomo, la ϕύσις no. La designazione dell’arte come τέχνη non significa per nulla che l’attività dell’artista sia concepita a partire dall’attività dell’artigiano. Al contrario, ciò che nella produzione dell’opera ha l’aspetto della fabbricazione artigianale è di tutt’altro genere. Esso è determinato e sentito a partire dall’essenza del fare dell’artista e resta anche racchiuso in esso. Scartato il lavoro artigiano, quale filo conduttore dovremo assumere per determinare il fare artistico? Come potremo rintracciarlo se non in base a ciò che dev’essere fatto, all’opera? L’opera si fa reale proprio nel corso del fare e per la sua realtà dipende da esso…(pagg. 44-45). Dice ancora Il divenir-opera dell’opera è una maniera del divenire e dello storicizzarsi della verità. Tutto dipende dalla sua essenza. Ma che cos’è la verità perché debba storicizzarsi in qualcosa di fatto? In qual modo la verità, nel fondamento stesso della sua essenza, implica un’aspirazione verso l’opera? (pag. 45). Poco più avanti La verità è non-verità. Nel non-esser-nascosto come verità è presente, ad un tempo, l’altro “non” del duplice rifiuto. Nel momento in cui qualcosa si manifesta, nel momento in cui l’Essere mostra l’ente per quello che è, questo ente si sottrae, si nasconde e si nasconde perché, mostrandosi, apparendo, mi impedisce di sapere che cos’è perché non c’è più l’essere che lo illumina. È stato illuminato e questo mi ha consentito di vederlo ma nel momento in cui lo vedo vedo l’ente ma l’essere? L’essere si è sottratto. Infatti, quando compare l’essere l’ente si sottrae; l’essere illumina sì l’ente per cui io lo vedo, ma è un evento. Così come per il significante, io dico il significante ma dicendolo è già scomparso. Per questo dice che la verità, il disvelamento, è non-verità, perché insieme al disvelamento c’è il coprimento, esattamente come quando diceva che il Mondo svela e la Terra copre, nasconde e conserva. Più avanti a pag. 47 L’istituirsi della verità nell’opera è una produzione (traente fuori) un ente che prima non era ancora e che, successivamente, non sarà mai più. Eccolo lì il gioco di cui parlavo prima fra l’Essere e l’ente, tra il mio essere gettato nel progetto e ciò che mi appare in questo progetto, questa posizione mi appare all’interno di un progetto, in questo istante, come un qualche cosa che mi serve per spiegarvi qualche cos’altro, per esempio. Ma nel momento in cui io compio questa operazione questa cosa cessa di essere quella che è per diventare un’altra cosa, per esempio un mezzo per spiegare delle cose. Quindi, lui dice che un ente prima non era ancora e successivamente non è più, prima che io mi riferissi a questa cosa non era ancora questo ente perché non era niente per me. Quindi, non stiamo parlando di qualche cosa che esiste indipendentemente dal linguaggio, e cioè l’oggetto metafisico, non è di questo che Heidegger sta parlando, da nessuna parte, sta parlando dell’ente che è per me qualche cosa. Prima che quell’ente sia qualche cosa per me, questo ente non è, poi diventa qualche cosa per me e allora c’è, ma nel momento in cui c’è mi si sottrae perché io non so che cosa sia questa cosa qui, perché nel momento in cui è un ente non c’è l’essere, nel momento in cui dico un significante questo significante non è un significato, si porta, certo, appresso un significato ma da questo significato è separato da una barra. Non ci sarà mai la sovrapposizione, il significante sarà sempre un’altra cosa, ciò che dico non è ciò che volevo dire, in ogni caso c’è una barra, quella stessa barra che Heidegger chiamava differenza ontologica tra ente ed essere. Non c’è mai la sovrapposizione, per cogliere l’ente io dovrei sovrapporre questo ente, che rimane ente, e l’essere, ma questo non lo posso fare. Ecco perché nel momento in cui compare nello stesso momento scompare. La produzione pone questo ente nell’Aperto in modo tale che ciò che nella produzione viene prodotto illumina l’aprimento dell’Aperto in cui esso è prodotto. Quando il produrre produce l’aprimento dell’ente, la verità, il prodotto è un’opera. Badate bene, dice, la produzione, nel senso proprio di ποίησις, pone un ente nell’Aperto in modo tale che venga illuminato, come dire che dispone un qualche cosa che possa essere illuminato, perché un ente possa diventare un ente, possa cioè acquistare la sua enticità, possa essere quello che è. È chiaro che ciò che consente tutto questo è il mio essere progettato in qualche cosa. Prosegue Quando il produrre produce l’aprimento dell’ente, la verità, il prodotto è un’opera. Un tal produrre è il fare dell’arte. In quanto è un produrre di questo genere, esso è piuttosto un ricevere e un attingere all’interno del rapporto col non-essere-nascosto (pag. 47). Questa operazione, dice, è piuttosto un ricevere e un attingere all’interno del rapporto con il non-essere-nascosto, questa cosa che mi si rivela è qualcosa da cui attingo. Ha a che fare con la Gelassenheit, con il lasciar essere, di cui parlavamo la volta scorsa, è da questo che io attingo ed è per questo che poco dopo incomincia a parlare, a pag. 50, Quanto più l’opera, fissata nella sua forma, sta solitaria in se stessa, quanto più puramente essa sembra far dileguare ogni rapporto con gli uomini e tanto più recisamente viene all’Aperto l’urto che tale opera è (ist) e ci colpisce l’urto del prodigioso, respingendo ciò che fino ad allora appariva normale. L’urto è la compresenza di Mondo e Terra, di Essere ed ente. Questa compresenza di Mondo e Terra, dice, respinge tutto ciò che appare normale, mostra qualcosa di inedito, ciascuna volta ciò che viene illuminato dall’essere, e cioè l’apparire dell’ente, questo è ciascuna volta qualcosa di non abituale. L’abituale sarebbe il supporre che l’ente sia sempre illuminato, ma è una follia per Heidegger, l’ente appare a un certo punto, è un evento, è l’evento della verità, dell’essere, quindi è quanto di meno abituale possa pensarsi, non ci si può abituare perché questa illuminazione dell’ente, per cui l’ente diventa quello che è, è eventuale. Infatti, dice, quanto più puramente l’opera si immedesima nell’aprimento dell’ente da essa stessa aperto, e tanto più semplicemente essa ci immedesima in questo aprimento, strappandoci all’abituale (pagg. 50-51). Che cos’è l’abituale nel quadro di Van Gogh? Le scarpe, la Terra, la materia. Che cosa ci mostra? Ciò che non vedevamo prima, ci mostra ciò che non c’era, non c’era finché questo ente non si è aperto all’essere, tramite l’essere, naturalmente. È solo in questa apertura che appare il non abituale, cioè, questa scarpa cessa di essere una scarpa, si nasconde, si sottrae e mi mostra ciò che questa scarpa indica, rappresenta, il Mondo. E, infatti, dice, Acconsentire a questa immedesimazione significa: trasformare i nostri rapporti abituali col Mondo e con la Terra, sospendere ogni modo abituale di fare e di giudicare, di conoscere e di vedere, per soggiornare nella verità che si storicizza nell’opera (pag.51). Come dire che di fronte all’opera è come se sospendessimo il nostro modo abituale di vedere, perché noi abitualmente vediamo la scarpa, l’opera d’arte invece mostra che la scarpa scompare per mostrare qualcos’altro che non c’era. Non è molto lontano dall’operazione che fece Freud, e cioè ciò che la persona dice mostra molto di più di quanto sta dicendo, c’è molto di più in ciò che sta dicendo di quanto vorrebbe semplicemente dire, così come nel quadro c’è molto di più di quanto immagino semplicemente di vedere, perché vedo sì la scarpa ma anche non la vedo in un certo senso, perché ciò che vedo è il Mondo. Parla a un certo dei salvaguardanti. Questo lasciare che un’opera sia l’opera che è, lo designiamo come la salvaguardia dell’opera. È in virtù della salvaguardia che l’opera c’è (nel suo essere-fatta) come reale, cioè è-presente come opera (pag. 51). Chi è il salvaguardante? È colui che riceve dall’opera il Mondo che la scarpa del contadino manifesta. Ora, la cosa interessante che dice è che occorre che ci sia il salvaguardante perché ci sia opera d’arte, cioè occorre che ci sia qualcuno per cui questo qualche cosa appare per quello che è, come Mondo. Infatti, dice, Salvaguardia dell’opera significa: star dentro nell’aprimento dell’ente storicizzantesi nell’opera. Ma lo star dentro proprio della salvaguardia è un sapere. Ma il sapere non consiste nella semplice conoscenza e nella rappresentazione di una cosa. Chi sa veramente che cosa sia l’ente, sa che cosa vuole nel mezzo dell’ente. Che cosa può volere nel mezzo dell’ente, nell’essenza dell’ente? È la verità dell’ente, cioè l’essere, è questo che vuole. Questo volere – che non è né un semplice impiego del sapere, né una sua determinazione anticipata – è pensato in base all’esperienza fondamentale del pensiero in Essere e tempo. Il sapere che resta un volere e il volere che resta un sapere è il lasciarsi essere estatico dell’uomo esistente nel suo non-esser-nascosto dell’essere (pag. 51). Quindi, il sapere che resta un volere, che lascia aperto quindi il volere, continua a volere, è il lasciarsi essere estatico. Estatico, nel pensiero di Heidegger, ha un significato letterale, ex-stare, stare fuori. Stare fuori ma storicizzato, che cosa vuol dire? Vuol dire che il passato non sta tutto nel passato, sta anche fuori, nel presente come nel futuro; il presente non sta tutto nel presente, sta anche nel passato come sta anche nel futuro, e così via. Ciascuno di questi tre sta fuori di sé, è questo lo storicizzarsi per Heidegger, cioè tutto ciò che come presente, passato e futuro come progetto, è qui, in questo momento in cui ne sto parlando. È questo sapere che lascia la cosa aperta. Infatti, dice, è il lasciarsi essere estatico dell’uomo esistente nel suo non-esser-nascosto dell’essere, cioè nella verità. È in questa estasi, in questo stare fuori, in cui consiste la storicità, lì sta l’essere, cioè, di nuovo, nell’essere progetto gettato.