14 agosto 2024
Plotino Enneadi
Siamo a pag. 815. L’Uno è tutte le cose e non è nessuna di esse; infatti, il principio di tutto non è il Tutto; Egli è il tutto, in quanto il Tutto ritorna a Lui; e cioè nell’Uno non si trova ancora, ma vi si troverà. È un concetto abbastanza singolare questo, cioè che il tutto è nell’Uno, non da subito però, quando torna, ma se torna da qualche parte è partito. Ma come il Tutto può derivare dal semplice Uno, dal momento che in questo non si può manifestare nessuna varietà e molteplicità? Ora, proprio perché è in Lui, tutto può derivare da Lui; affinché l’Essere sia, Egli per questo non è essere, ma soltanto il genitore dell’Essere, e questa che chiamerò genitura e prima. egli. Egli infatti è perfetto, perché nulla cerca e nulla possiede e di nulla ha bisogno; e perciò, diciamo così, trabocca e la sua sovrabbondanza genera un’altra cosa. Questa è la sua idea del come accade che dall’Uno, che non ha bisogno di niente, succedano altre cose, che non dovrebbero in teoria; però, chiaramente lui deve dire che dall’Uno procede qualche cos’altro perché, sennò, se ci fosse solo l’Uno, lui stesso lo sa che non accadrebbe nulla, nulla si muoverebbe, nulla esisterebbe, sarebbe tutto immoto. Il processo (quello della connessione tra l’intelligenza e l’anima) si svolge dunque dal primo all’ultimo grado, mentre ciascuno di essi è lasciato nella sua propria sede il prodotto della generazione occupa un altro luogo, quello inferiore… A pag. 817. Quando scende (l’anima) in un individuo irragionevole, è perché la forza della sensibilità, avendo prevalso, ve la condusse; ma quando entra in un uomo, questo movimento o si trova nella razionalità, o discende dall’Intelligenza, dal momento che l’Anima possiede una propria intelligenza e una propria volontà di pensare e, in generale, di muoversi. Tutte queste argomentazioni di Plotino hanno sempre, come oramai dovrebbe essere noto, un unico obiettivo: ricondurre i molti all’uno. Questa cosa è quella che ha fatto lavorare per secoli, quasi millenni, potremmo dire, i teologi cristiani, il cui unico obiettivo era esattamente questo: ricondurre i molti all’uno; cioè, trovare delle argomentazioni che giustificassero la presenza dei molti, lasciando intatto l’Uno, cioè, Dio. Se ci si pensa bene, ogni teoria è costruita così; in effetti, i teologi medievali hanno determinato il modo di fare teoria. Una teoria si costruisce così: dai molti si passa all’uno; finché ci sono i molti questo uno non è determinabile con precisione, occorre che tutti questi molti o vengano eliminati o entrino nell’uno. Questo è il solo modo per costruire una teoria. I molti sono tutte quelle cose che impediscono all’uno di essere il semplice uno. Quindi, questi molti costituiscono un problema, perché, nonostante si tenti di ridurre tutto all’uno, i molti continuano a rampollare, ovunque ci si giri ci sono i molti. Lo scopo di una teoria è eliminare i molti riconducendoli all’uno, e una teoria suppone che questa operazione sia possibile; sia possibile, cioè, che ci sia una connessione di necessità fra un antecedente e un conseguente: se questo allora quest’altro. È su questo che si basa l’idea di qualunque teoria di affermare come stanno le cose, perché procede deduttivamente immaginando che questo procedere deduttivo comporti una necessità.
Intervento: Pensavo si trattasse di un processo induttivo, laddove dai molti, dai particolari, si dovesse risalire all’uno, al concetto….
Sì, questo indubbiamente. Io adesso mi riferivo al procedere deduttivo di una teoria, che da un qualche cosa, che immagina essere quello che è, vuole trarre tutte le implicazioni. Per questo ha bisogno di pensare che la deduzione, cioè l’implicazione, comporti delle relazioni di necessità fra l’antecedente e il conseguente. Poi, certo, la premessa maggiore, è stata costruita assemblando… Andando avanti. A pag. 821. Qui, ecco il Bene, che è la stessa cosa dell’Uno, perché l’Uno è il Bene. Perché mai il pensiero discorsivo porta in sé il Bene? Perché esso possiede la forma del Bene e ha ricevuto la capacità di percepire una cosa così importante in quanto l’Intelligenza lo ha illuminato dall’alto. Questa è idea di Plotino: l’intelligenza che illumina dall’alto; che è anche quell’immagine di Heidegger della Lichtung, che illumina qualche cosa e lo fa esistere. A pag. 827. La contemplazione deve essere identica alla realtà contemplata, e l’Intelligenza all’oggetto intelligibile: se non fosse così, non ci sarebbe verità... Quindi, la verità non è altro che un adeguamento, per esempio, dell’intelletto con la cosa intelligibile. Questa è, in fondo, la nozione di verità di Plotino, la famosa adæquatio rei et intellectus, l’adeguamento della parola alla cosa. A pag. 829. Il pensare se stesso dell’anima (l’anima che pensa sé) è dunque diverso dal pensare se stesso, ben più autentico, dell’Intelligenza. Sia l’anima che l’intelligenza si pensano: sarebbe la contemplazione. L’anima infatti pensa se stessa in quanto appartiene a un altro; l’Intelligenza invece pensa se stessa in quanto è Lei stessa e, come tale, parte dalla sua stessa natura e si ripiega su se stessa. Poiché, vedendo gli esseri vede esse stessa, in quanto vede, è in atto ed essa è atto. Poiché Intelligenza e Pensiero sono una cosa, l’Intelligenza si pensa tutta con tutta se stessa e non parte con parte. Questo è il modo, che abbiamo già visto altrove, di Plotino di intendere il famoso frammento di Parmenide: pensare ed essere sono lo stesso. Ma Plotino dice: l’Intelligenza e pensiero sono una cosa, perché l’Intelligenza si pensa tutta con tutta se stessa. Perché, dunque, per Plotino pensare ed essere sono lo stesso? Perché l’intelligenza pensandosi diventa se stessa, perché lei stessa è intelligenza, quindi, si pensa ed è intelligenza. Questo non c’entra assolutamente nulla con quello che diceva Parmenide; anche nella lettura che ne fa Heidegger che è lontanissimo da una cosa del genere. A pag. 835. …è dunque necessario che si vuol conoscere che cos’è l’Intelligenza si ponga davanti agli occhi l’Anima, e dell’Anima la parte più divina. Questo potrebbe forse avvenire nel modo seguente: anzitutto elimina il corpo dall’uomo, e perciò anche da te stesso; elimina poi anche l’anima che lo plasma e insieme, la sensibilità, nonché le passioni e le ire e le altre futilità che ci fanno piegare verso ciò che è mortale. Quindi, eliminare tutto. Questo è il modo, dice lui, per avvicinarsi all’Uno; in fondo, è una purificazione. A pag. 837. L’anima deve cercare, sillogizzando … Cioè, argomentando. …di quale natura sia l’Intelligenza; l’Intelligenza, invece, si istituisce da sé,… L’Intelligenza non ha bisogno di pensare. …senza sillogizzare su di sé; infatti è sempre presente a se stessa, ma noi solo quando ci volgiamo a Lei; per noi è come se la vita fosse divisa e avessimo molte vite, ma l’Intelligenza non ha bisogno né di un’altra vita, né di molte vite, ma quelle che dona, le dona agli altri, non a sé; e nemmeno ha bisogno di essere inferiori né procura a sé l’inferiore, poiché possiede il tutto, non già le tracce, ma gli esseri primi, o meglio, non li possiede ma li è. L’intelletto, quindi, è tutte queste cose, non ha bisogno di altre cose, perché lui è queste cose. L’intelletto procede direttamente dall’Uno. A pag. 839. Qui, sempre a proposito dell’uno e dei molti, dice: Il pensante deve dunque cogliere sempre il diverso e il pensato; e il pensato, essendo colto nel pensiero, deve essere diverso… Ricordate Gentile: il pensiero pensante e il pensiero pensato. …altrimenti non ci sarà alcun pensiero di lui, ma solo un tocco o un contatto ineffabile e inconcepibile, anteriore all’Intelligenza, poiché l’Intelligenza non sarebbe ancora nata e ciò che tocca non penserebbe. È necessario che il pensante non resti semplice… È costretto ad ammettere che nel pensiero ci sono i molti. È questo che lo porterà poi a dire che l’Uno non pensa, non può pensare, perché se pensasse immediatamente ci sarebbero i molti; perché, se io penso, penso qualcosa, ovviamente. A pag. 841 Ecco perché l’Intelligenza è molteplice quando vuol pensare ciò che è al di là; essa lo pensa veramente, ma, volendo coglierlo nella sua semplicità, se ne separa, ricevendo il diverso che si differenzia continuamente in se stesso. Quindi, che cosa fa l’Intelligenza? Come risolve il problema dei molti? L’Intelligenza è molteplice, perché pensando – quando vuol pensare –, ma solo quando vuole pensare ciò che è al di là, l’Intelligenza è molteplice. Essa lo pensa veramente, ma, volendo coglierlo nella sua semplicità, se ne separa, ricevendo il diverso, che si differenzia continuamente in se stesso. Quindi, riceve il diverso, che si differenzia, cioè, il molteplice lo riceve in sé e praticamente lo domina, lo ingloba. Certamente, essa (intelligenza) si rivolse verso di Lui non come l’intelligenza, ma come una potenza visiva che non ha visto ancora; e che poi se ne distacca portando ciò di cui si era riempita. Queste sono le elucubrazioni di Plotino per giustificare questa cosa. Prima, la potenza visiva aveva desiderato indistintamente qualcosa di nuovo… Perché desidera qualcosa di nuovo, se ha già tutto? Non dovrebbe neanche esistere qualcosa di nuovo. Perché, dunque, desidera? Chi glielo fa fare? In certi momenti è palese come cerchi di arrampicarsi sugli specchi. Perché la potenza visiva desidera indistintamente qualcosa di nuovo? Intanto, questa potenza visiva, che appartiene all’Intelligenza, desidera indistintamente; quindi, non è neanche in grado di distinguere. È tutto totalmente vago… E qui, dove Plotino cerca di stabilire un supporto teorico, succede il marasma, cioè, si trova preso, continuamente circondato, dai molti, e questo Uno gli si sottrae sempre, perché anche l’Intelligenza è fatta di molti. …poi ne uscì accogliendo in sé il nuovo per moltiplicarlo. Perché deve moltiplicarlo? Non gliene basta uno? Essa possedeva un’immagine ideale della visione, altrimenti non avrebbe potuto accoglierne in sé la nascita. Qui è Platone: c’era già l’idea di questa cosa, era già presente. Ma questa immagine, da una che era, diventò molteplice, e così, conoscendo, Lo vide e allora ebbe origine la visione che vede. Questa immagine da una diventa molteplice, perché è un’immagine ideale, quindi, questa immagine comunque si frammenta in tante cose, e allora da una che era diventò molteplice, e così, conoscendo la conoscenza, presuppone che questa idea, questa immagine, si frammenti in tante cose, sennò non ho niente da conoscere. Essa è ormai Intelligenza perché possiede l’Uno e lo possiede perché è Intelligenza; prima invece era soltanto desiderio dell’Uno e visione indistinta. Qui c’è un passaggio che non si capisce che cosa lo giustifichi. Dice Ma questa immagine, da una che era, diventò molteplice, e così, conoscendo, Lo vide e allora ebbe origine la visione che vede, e poi Essa è ormai Intelligenza perché possiede l’Uno… Ma da dove scappa fuori questa cosa? C’entra poco con quello che diceva prima. Questa visione che vede… vede questa cosa ma, mentre la vede, questa cosa si moltiplica nella conoscenza della cosa. Per forza. È importante vedere i tentativi messi in atto, sempre per lo stesso motivo, per giustificare la riduzione dei molti all’uno. Qui non ci riesce poi, di fatto, perché questa immagine comunque è sempre molteplice. Poi, ad un certo punto, dice comunque l’Intelligenza si rivolge sempre all’Uno. E, in effetti, questo è l’unico modo per riuscire a giustificare la cosa, cioè immaginare che comunque ci sia un Uno che sovrasta, che sovraintende tutto quanto, sennò non se ne viene fuori in nessun modo. Certamente se l’uno pensasse… Ma non può pensare, perché pensare è immediatamente molteplicità. …non sarebbe al di là dell’Intelligenza, ma sarebbe Intelligenza e perciò, se dovesse essere Intelligenza, dovrebbe essere anche molteplicità. Dunque, non può essere intelligenza; dunque, l’Uno non può pensare. Che è un po’ quello che diceva all’inizio, che l’Uno è tutte le cose, ma è anche nessuna cosa. Ecco, lui cerca di giustificare così. Siamo a pagina 843. Se invece la sua sostanza (dell’Intelligenza) è attività e la sua attività è molteplicità, la sua sostanza avrà la stessa consistenza della sua molteplicità. Questo noi lo concediamo all’Intelligenza, alla quale abbiamo attribuito anche il pensiero di se stessa, ma non al Principio di tutte le cose. Qui il problema è questo: l’Intelligenza è molteplice. Perché? Perché può pensare se stessa e, pensando se stessa, pensa le varie cose. Ma dovrebbe anche dire che l’Uno non pensa, perché l’Intelligenza pensando pone se stessa come oggetto di pensiero, quindi immediatamente si moltiplica, mentre l’Uno non può fare questo se vuole rimanere Uno. È necessario, invece, che prima della molteplicità ci sia l’Uno, dal quale anche la molteplicità deriva: infatti, in ogni serie numerica l’unità è prima. A pag. 845. Perciò, Egli è, in verità, ineffabile. Poiché qualsiasi cosa tu dica, tu dici sempre qualche cosa. Ma l’espressione “al di là di tutto e al di là della santissima Intelligenza” è, di tutte le espressioni, la sola vera, perché non è un nome diverso da Lui, né è una cosa fra tutte le altre, poiché nulla veramente possiamo dire di Lui; ma, dentro i limiti del possibile, cerchiamo di dare, così fra di noi, un cenno su di Lui. E quando ci scorge questo dubbio: “ma allora Egli non ha percezione di sé né coscienza di sé e non conosce se stesso?”, noi dobbiamo osservare che dicendo così cadiamo in contraddizione. Ammettendolo conoscibile e conoscente, noi lo facciamo, infatti, molteplice, e attribuendogli il pensiero ammettiamo che abbia bisogno di pensare; e se anche il pensiero gli appartenesse, il pensare gli sarebbe inutile. Queste sono le giustificazioni di Plotino. Sembra che il pensare si abbia quando molti elementi confluiscono insieme e ci sia consapevolezza di questo insieme, cioè quando una cosa pensi se stessa, e questo è pensare in senso proprio: qui ciascuno di questi elementi è una unità e non cerca più nulla. Ma se il pensiero si riferisce all’esteriore, sarà deficiente e non sarà un pensiero vero e proprio. Ma ciò che è assolutamente semplice e sufficiente a se stesso non ha affatto bisogno di nulla. Invece ciò che è sufficiente a se stesso in secondo grado… Qui deve immettere anche i gradi, sennò non riesce a cavarsela. …in quanto ha bisogno di se stesso, questo ha bisogno di pensare se stesso; ciò che è insufficiente rispetto a se stesso raggiunge la sua autonomia per mezzo della sua totalità, in quanto si fa bastevole attraverso i suoi elementi unendosi a se stesse e rivolgendo a se stesse il proprio pensiero. Questa sarebbe l’Intelligenza, la seconda ipostasi. Anche la consapevolezza è scienza di una certa molteplicità, e lo dimostra la parola stessa. Quindi lui si è inventato prima l’Intelligenza e poi l’Anima, le ipostasi, per giustificare il molteplice. L’Uno, sì, va bene l’Uno, ma i molti? Beh, i molti adesso li sistemiamo; un po’ alla volta vediamo come sistemarli, come toglierli di mezzo in modo che non nuocciano più, in modo, soprattutto, che non nuocciano all’Uno, cioè, che non lo intacchino, perché l’Uno deve essere identico a sé, assolutamente identico a sé; e perché qualche cosa sia identica a sé non ci devono essere in molti. A pag. 847. È come dunque possiamo parlare di Lui se non lo possediamo? È vero, non lo possediamo con la conoscenza, né lo possediamo pienamente: lo possediamo però in tal modo da poter parlare di Lui senza però dirlo veramente. Questa è la teologia negativa: è possibile dire soltanto ciò che Dio non è. Noi diciamo infatti quello che egli non è, ma non diciamo quello che è. Diciamo di Lui partendo dalle cose che sono dopo di Lui; ma nulla ci impedisce di possederlo, anche se non ne parliamo. Come quelli che, invasati e ispirati da un dio, arrivano a tal punto da sentire nel loro intimo qualcosa di più grande di loro, pur non sapendo che cosa sia, e da quelle commozioni da cui sono agitati e di cui parlano, traggono una certa conoscenza di colui che li pervade… Sarebbero i mistici nel cristianesimo. …pur essendo esse ben diverse da colui che li agita, così anche noi veniamo a trovarci press’ a poco con Lui allorché la nostra intelligenza è pura e abbiamo il presentimento che Egli sia l’intima Intelligenza, Colui che dona l’essere e tutte le altre cose dello stesso valore; ma Egli non è tale da identificarsi con queste cose, ma è superiore a ciò che chiamiamo “essere”, anzi è ancora di più e al di sopra di ogni nostro discorso, poiché Egli è al di là della parola, dell’Intelligenza e della sensibilità. Egli dona tutte queste cose, ma non è alcune di esse. Qui, come vedete, c’è la parte più teorica, dove precisa che cosa lui intenda con Uno. A pag. 849 c’è un sottotitolo, che hanno messo i traduttori: L’Intelligenza è uno-molti. E, in effetti, questo uno-molti non può esserci nell’Uno, l’Uno è Uno e basta. L’uno-molti è intelligenza che pensa se stessa, quindi, pensandosi, pone se stessa come oggetto, quindi, è immediatamente molteplice. Ma come le dona? O perché le ha, o perché non le ha? Ma come può dare ciò che non ha? Se le ha, Egli non è semplice;… Se ha tutte queste cose è fatto di tutte queste cose che dona. …se non le ha, come può derivare da Lui la molteplicità? Che un’unità possa effondere da sé un semplice, si può anche concedere, quantunque potremmo anche chiederci come mai il semplice possa derivare da ciò che è assolutamente uno; qui, tuttavia, potremmo dire che esso ne derivi come l’irraggiamento della luce. Certamente, ciò che procede da Lui non deve essere identico a Lui; ma se non può essere identico, tantomeno può essere migliore. Infatti, che cosa potrebbe essere migliore dell’Uno, o addirittura al di là dell’Uno? Domanda retorica che prevede la risposta: niente, oltre all’Uno non c’è più nulla. Sarà dunque inferiore, cioè più manchevole. Ma che cosa è più manchevole dell’Uno? Il non-uno, vale a dire, il molteplice, il quale tuttavia aspira all’Uno: e cioè, l’uno-molti. È il non-uno ciò che è manchevole dell’Uno, perché è non-uno. Ma questo non-uno che cosa vuole? Aspira all’Uno, vuole tornare all’Uno. E questo uno che vuole tornare, che non è l’uno con la U maiuscola, chi vuole tornare all’Uno sono i molti. Difatti, ogni non-uno è conservato dall’Uno ed è quello che è per opera dell’Uno; effettivamente, se esso, pur essendo fatto di molti elementi, non diventa unità, non si può dire che “è”; e se anche si sappia dire ciò che è ciascuno di essi, questo avviene perché ciascuno di essi è uno è identico. /…/ Che cos’è dunque questo Tutto? È ciò di cui l’Uno è principio. Ma come l’Uno è principio di tutte cose? Forse in quanto le conserva e fa sì che ciascuna sia unità? Certamente, e anche perché le ha tratte all’esistenza. È l’Uno che ha tratto ogni cosa all’esistenza. Come? Poiché le possedeva già. Ma se ne possiede, non è più semplice. Ma così, si è già detto, l’Uno sarebbe molteplicità. Sì, le possedeva già, ma non distinte: esse sono distinte solo in un secondo momento nel Verbo dell’Intelligenza, dove ormai sono in atto: l’Uno, invece, era soltanto la potenza di tutte le cose. Ma che senso ha questa potenza? Certamente, non quello in cui si dice che la materia è in potenza, poiché questa, essendo passiva, riceve soltanto, ma così avremmo senz’altro il contrario di generare. Come genererebbe, infatti, ciò che non ha? Non certo a casaccio, e nemmeno riflettendo su ciò che vuol generare. Eppure, Egli non può non generare. Si è già detto che qualora qualcosa derivi dall’Uno, deve essere diverso dall’Uno; ma se diverso, non è più l’Uno. L’Uno infatti è Lui. E se non è uno esso è due, cioè necessariamente molteplicità, e così abbiamo alterità, identità, qualificazione e così via. Sì, è così dimostrato che ciò che appartiene all’Intelligenza non è uno, ma che esso debba essere molto molteplicità, e molteplicità com’è quella che osserviamo in ciò che è dopo di Lei, è cosa che merita di essere studiata. Ed anche la necessità di questo processo deve essere indagata. In effetti non è molto chiaro come avvenga questo fenomeno. Egli non può non generare: perché? Qui la questione è che lui genera ma non può non generare; quindi, c’è qualcosa che non può fare. Ha un limite: non può non generare, quindi, è costretto, c’è una necessità che lo trascende. A questo Plotino non ha pensato, a questa necessità che trascende l’Uno, alla necessità di generare, perché lui lo dice, non può non generare. Vedete che, mentre per esempio in Aristotele, i problemi che incontra, lui li affronta, li mette a tema e li problematizza, li interroga; ogni problema per lui è come se fosse una sfida, un qualche cosa con il quale comunque si deve confrontare. D’altra parte, se poniamo l’Uno come ipostasi, c’è poco da confrontare. A pag. 857. Se c’è qualcosa dopo il Primo, è necessario che esso derivi direttamente da Lui, o si riporti a Lui attraverso intermediari: c’è dunque un ordine di esseri di secondo grado e un ordine di esseri di terzo grado; l’ordine di secondo grado risale al Primo, il terzo risale al secondo. Questo poi nella Chiesa è diventato Padre, Figlio e Spirito. È necessario infatti che il Primo sia semplice, anteriore a tutte le cose, è diverso da tutto ciò che dopo di Lui... Perché continua a insistere su questa cosa? Perché non la può argomentare, non può dimostrarla, può però ripeterla all’infinito, come sta facendo. Qui c’è un’altra metafora. Noi vediamo che ogni altra cosa, una volta giunta alla sua maturità, genera e non tollera di rimanere sola in se stessa, ma genera un altro essere, non solo chi abbia un volere cosciente, ma anche chi, senza volere coscienza, vegeta soltanto; e persino le cose inanimate cedono di sé quanto possono; e così il fuoco riscalda e la neve raffredda e i farmaci esercitano un loro potere, secondo la loro natura, su un altro essere. Tutte le cose sono copie che si manifestano, per quanto possono, in eternità e bontà. Come dunque il primo, perfettissimo, Bene potrebbe starsene infecondo in se stesso, come se fosse avaro di sé o impotente, Egli che è potenza di tutte le cose? Questo sarebbe il motivo per cui uno genera. Vi rendete conto di qual è il fondamento del pensiero occidentale, cioè del cristianesimo? A pag. 861. Dopo aver fatto l’esempio del fuoco ecc., dice: Così è anche, e a maggior ragione, nel mondo superiore: mentre il Supremo persiste nella sua essenza, dalla sua perfezione e dalla forza che è in Lui un’altra forza ottiene la sua esistenza, nata com’è da una grande potenza, anzi dalla più grande di tutte, e giunge fino all’essere all’essenza: l’Uno, infatti, è al di là dell’essenza. L’Uno è la potenza del tutto, il generato, invece, è già il Tutto. Spiega perché il Tutto non è l’uno: perché il Tutto è generato dall’Uno. E poi, se l’Intelligenza è tutto, l’Uno è anteriore al Tutto e col Tutto non ha nulla in comune: perciò, anche per questa ragione, Egli deve essere al di là dell’essenza, e quindi anche dell’Intelligenza. C’è dunque qualcosa al di là dell’Intelligenza. Indubbiamente, l’essere non è un cadavere, né è una non-vita e nemmeno non-pensante. Perciò Intelligenza ed Essere sono la stessa cosa. Qui ripete la famosa frase di Parmenide – pensare ed essere sono lo stesso –, ma intesa a modo suo, che non c’entra più niente con Parmenide. L’Intelligenza non è in rapporto con i suoi Intelligibili, come il senso con i sensibili, come se quelli fossero a lei anteriori, ma l’Intelligenza è essa stessa e i suoi Intelligibili, poiché le idee e non sono acquisite: infatti, donde deriverebbero? Qui, tra i suoi Intellegibili, l’Intelligenza è una e identica ad essi: così come anche la scienza delle cose immateriali è identica ad esse. Cioè, deve dire che queste cose sono già presenti, perché sennò interverrebbe qualcosa di nuovo che non c’era prima nell’Uno e quindi l’Uno non sarebbe tutto. Come sappiamo, il Tutto è generato dall’Uno. A pag. 863. Chi mai potrebbe affermare che l’Intelligenza, la vera e reale l’Intelligenza, si inganni talvolta e ammetta i non enti? Era il problema di Platone nel Sofista. Nessuno, certamente. Come potrebbe infatti essere ancora Intelligenza se fosse priva di intelligenza? È necessario dunque che essa sappia sempre e non dimentichi mai, e che il suo sapere non sia come di uno che congetturi, o sia dubbioso, o parli per sentito dire. E nemmeno esso procede per dimostrazione. In realtà, se si dicesse che esso sa per dimostrazione, l’Intelligenza dovrebbe avere qualche altro sapere di evidenza immediata (eppure il ragionamento ci dice che è tale ogni sapere); perché, come si può distinguere ciò che è evidente da ciò che non lo è? Quindi, l’Intelligenza non può procedere argomentativamente. L’Intelligenza sa già tutte le cose. Se agisse argomentativamente dovrebbe fare riferimento a un altro sapere, la logica per esempio, e quindi questa Intelligenza saprebbe, sì, ma sempre relativamente a qualche altra cosa. Ma, quanto a quelle verità che sono evidenti per sé, donde diranno che la loro evidenza provenga all’Intelligenza? Donde deriverà in essa la sicurezza che è proprio così? Infatti, se guardiamo anche alle cose sensibili, che sembrano avere in sé la sicurezza della massima evidenza, sorge il dubbio che la loro creduta esistenza si fondi non sui substrati, ma sulle impressioni, e che ci sia bisogno dell’intelligenza o della ragione discorsiva come di giudici. Questo era il problema dei greci: ciò che mi appare, ciò che è evidente, il fenomeno, è ciò che è. Ma come so che è proprio così, lo garantisce? Per Platone erano le idee, per Aristotele nessuno, la doxa. Ora, se l’Intelligenza conosce, e conosce gli oggetti intelligibili, qualora li conosca come diversi da sé, come mai si imbatte proprio in essi? Potrebbe anche non imbattersi, sicché dovremmo ammettere allora che essa non li conosca, e li conosca soltanto quando li incontri: perciò non sempre possiederebbe la conoscenza. Se diranno invece che sono accoppiati, cosa è mai questo accoppiamento? Allora, anche i pensieri dell’Intelligenza sarebbero impronte; e, in questo caso, sarebbero aggiunte e urti esterni. E poi, come funzioneranno questi stampi e quale ne sarà la forma? A pag. 865. Perciò l’Intelligenza, non possedendo il vero, ma accogliendo in sé soltanto immagini di verità, possiederà il falso e non la verità. Se dunque avrà la coscienza di possedere cose false, riconoscerà di essere priva di verità; ma se è ignorerà anche questo, e crederà di possedere il vero, l’inganno, raddoppiatosi in lei, la allontanerà molto dal vero. È per questo infatti che nelle sensazioni - io credo - non c’è verità ma opinione; ed essa è detta opinione perché è recettiva, cioè perché riceve qualcosa di diverso da ciò da cui viene ad avere ciò che riceve. Dunque, se non c’è verità nell’Intelligenza, un’Intelligenza siffatta non è verità e nemmeno è “Intelligenza in Verità” e perciò non è affatto Intelligenza. Ma allora la verità non potrà trovarsi nessun luogo. Non dobbiamo dunque cercare gli intelligibili fuori dall’Intelligenza... Questa è la sua soluzione: gli intelligibili sono già nell’Intelligenza. …né dire che nell’Intelligenza esistono le impronte degli esseri, né, spogliandola della verità, dobbiamo sostenere l’inconoscibilità e l’inesistenza degli intelligibili e annientare l’Intelligenza stessa. Ma poiché è necessario ammettere una conoscenza e una verità e mantenere saldi gli enti, cioè la possibilità di conoscere cos’è ciascun ente, e non quali siano le sue qualità… /…/ Soltanto così l’Intelligenza potrebbe sapere e saprebbe veramente e non dimenticherebbe mai e mai andrebbe qua e là a cercare. Ma la verità è in Lei e Lei è il fondamento degli esseri ed è vita e pensiero. A questo Essere di perfetta beatitudine tutto deve appartenere; altrimenti dove sarebbe il suo onore e il suo valore? E inoltre l’Intelligenza non ha bisogno di dimostrazioni né di prova, poiché è così ed è evidente a se stessa; e se c’è qualche cosa prima di Lei, deriva da esso; e se dopo di Quello c’è qualcosa, l’Intelligenza è questo “qualcosa”; e nessuno più di Lei testimonia su di Lui quanto il fatto che lassù c’è tutto questo e c’è realmente. Perciò la realissima verità non s’accorda con altri che con se stessa… La verità si accorda con se stessa perché la verità è nell’Intelligenza, perché l’Intelligenza la contiene. Come la contiene? Contemplandosi, semplicemente. Chiunque confuti un precedente argomento, anche se lo presenti come diverso, arriva allo stesso punto: ritorna cioè ad affermare le cose già dette e a far tutt’uno con esse, perché non potresti trovare altra cosa più vera della verità. Cioè, l’Intelligenza possiede già la verità. Poi, dirà che l’Uno è il re della verità. La verità è Intelligenza, perché l’Intelligenza procede dall’Uno, ed è da lì che trae la verità assoluta.